Con la sentenza n. 8166 del 18.12.2020 la terza sezione del Consiglio di Stato ha riformato la sentenza del Tar Lazio (sezione terza quater) n. 11991 del 16.11.2020 con la quale era stato accolto il ricorso proposto dal Sindacato dei Medici Italiani – SMI, e da alcuni medici di medicina generale, proposto avverso alcuni provvedimenti adottati dalla regione Lazio per il contrasto all’emergenza COVID.
Autore
Avv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.
Con la sentenza n. 8166 del 18.12.2020 la terza sezione del Consiglio di Stato ha riformato la sentenza del Tar Lazio (sezione terza quater) n. 11991 del 16.11.2020 con la quale era stato accolto il ricorso proposto dal Sindacato dei Medici Italiani – SMI, e da alcuni medici di medicina generale, proposto avverso alcuni provvedimenti adottati dalla regione Lazio per il contrasto all’emergenza COVID.
Nello specifico, in primo grado, era stato chiesto l’annullamento:
a) dell’Ordinanza del Presidente della Regione Lazio n. Z00009 del 17.3.2020, recante «Ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-2019. Ordinanza ai sensi dell’art. 32, comma 3, della legge 23 dicembre 1978, n. 833 in materia di igiene e sanità pubblica»;
b) del provvedimento della Regione Lazio – Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria prot. «Int. 0314552.10-04-2020», recante «Procedura speciale legata all’emergenza COVID. Programma di potenziamento cure primarie. Avviso volto ad acquisire manifestazione di interesse per svolgere attività nella USCAR»;
c) della Determinazione della Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria – Area Risorse Umane, recante «Approvazione del regolamento di funzionamento USCAR LAZIO» e del Regolamento ivi accluso;
d) della Determinazione della Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria – Area Risorse Umane, recante «Procedura speciale legata alla Emergenza Covid. Programma di potenziamento cure primarie — USCAR Lazio – approvazione elenchi manifestazione di interesse di medici e infermieri» e degli ivi acclusi «Elenco Medici – Uscar», «Elenco Infermieri – Uscar», e «Allegato C – Ammessi con riserva»;
e) della Nota della Regione Lazio, Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria Direzione Regionale per l’Inclusione Sociale prot. 301502 del 9.4.2020, avente ad oggetto «Ulteriori indicazioni per prevenire l’infezione da nuovo coronavirus SARS-COV-2 (COVID- 19) nelle strutture territoriali residenziali sanitarie, sociosanitarie e socioassistenziali», nonché dell’ivi accluso «Programma di potenziamento delle cure primarie – Emergenza COVID 19».
In sintesi, dinanzi al primo Giudice, i ricorrenti sostenevano che, in conseguenza dei provvedimenti regionali impugnati, i medici di medicina generale sarebbero stati investiti di una funzione di assistenza domiciliare ai pazienti Covid del tutto impropria, spettante, in base all’art. 8 D.L. n. 14/2020 prima ed art. 4-bis D.L. n. 18/2020 (conv. in L. 27/2020) poi, unicamente alle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (c.d. USCA) istituite dal Legislatore nazionale d’urgenza proprio ed esattamente a questo scopo.
Funzione che “distrarrebbe i ricorrenti dal loro precipuo compito, che è quello di prestare l’assistenza ordinaria, a tutto detrimento della concreta possibilità di assistere i tanti pazienti non Covid, molti dei quali affetti da patologie anche gravi.”
Il TAR ha accolto il ricorso, ritenendo fondata la tesi dei ricorrenti, affermando che “Nel prevedere che le Regioni istituiscono una unità speciale per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero, la citata disposizione rende illegittima l’attribuzione di tale compito ai MMG, che invece dovrebbero occuparsi soltanto dell’assistenza domiciliare ordinaria (non Covid)”.
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La regione Lazio, al fine di fronteggiare l’emergenza pandemica in atto, ha dato ulteriore sviluppo al modello organizzativo regionale varato in attuazione dell’art. 1 legge n. 189/2012.
Modello che, da tempo, ha visto la costituzione di Unità di Cure Primarie UCP (ossia forme organizzative monoprofessionali), nonché di Unità Complesse di Cure Primarie (forme organizzative invece multiprofessionali) aventi essenzialmente lo scopo di creare una rete sanitaria immediatamente reperibile, utile a evitare il sovraffollamento dei presidi di emergenza e urgenza.
La Regione Lazio, in sintesi, ha ritenuto di poter adeguatamente rispondere all’emergenza epidemiologica anche attraverso l’utilizzo delle succitate aggregazioni territoriali, individuando in ciascuna di esse un Referente COVID, dotato di tutti i presidi di prevenzione, cui affidare l’assistenza, anche a domicilio, dei pazienti affetti dal virus, così affiancando tale modulo di intervento all’Unità Speciale di Continuità Assistenziale Regionale (USCAR) per COVID-19, pure istituita ai sensi della disposizione nazionale prevista dall’art. 4 bis D.L. 17/03/2020, n. 18 per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 non necessitanti di ricovero ospedaliero.
Secondo il Tar Lazio l’art. 4 – bis D.L. n. 18/2020, nel prevedere che le Regioni “istituiscono” una unità speciale “per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID- 19 che non necessitano di ricovero ospedaliero”, implicitamente esonera da tale compito i medici di medicina generale e rende conseguentemente illegittima ogni disposizione regionale che distolga questi ultimi dai compiti “ordinari”.
Secondo gli appellanti, invece, sarebbe erronea l’affermazione secondo la quale “la ratio dell’art. 4 bis DL 18/2020 deve individuarsi nella necessità di non distrarre i medici di base dal proprio compito d’istituto, con attribuzione di compiti del tutto avulsi dal loro ruolo all’interno del SSR”, atteso che:
a) I compiti non sarebbero affatto “avulsi” dal Servizio Sanitario, il quale, in forza dell’art. 4 del DPCM del 12 gennaio 2017 (avente ad oggetto i LEA) e dell’art. 33 dell’Accordo Nazionale che riguarda i medici di medicina generale, assicura le visite domiciliari a scopo preventivo, diagnostico, terapeutico e riabilitativo da parte del medico di medicina generale che ha in carico il paziente, senza che si debba e possa discernere se il paziente ha o meno malattie infettive.
b) Tali compiti sarebbero vieppiù confermati dal recente accordo Nazionale Collettivo che attribuisce ai medici di medicina generale ed ai pediatri di libera scelta, un ruolo proattivo nel rafforzamento delle attività territoriali di diagnostica di primo livello e di prevenzione nella trasmissione della Sars-Cov 2.
c) Nessuna “distrazione” dai propri compiti di istituto vi sarebbe, posto che la visita domiciliare del proprio assistito costituisce parte integrante dei compiti del medico di medicina generale, in ispecie nell’attuale fase epidemiologica in cui l’elevatissimo numero di contagi richiede sinergia degli interventi e pluralità di risorse mediche, non affrontabili con le pur numerose USCAR istituite.
d) In ogni caso le misure adottate rientrerebbero appieno nei profili organizzativi e gestionali della sanità, riservati dall’art. 117 Costituzione alle Regioni.
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Il Consiglio di Stato, come detto, ha ritenuto fondato il ricorso, assumendo che la sentenza di primo grado si fonda su due inespressi postulati:
a) Il primo, è quello secondo il quale l’esplosione di un evento pandemico e le conseguenze dello stesso sulla salute degli individui, in quanto evento straordinario e non previsto, immuti implicitamente i concetti di malattia acuta e cronica sui quali basano i LEA e i connessi accessi domiciliari nell’ambito della medicina generale.
b) Il secondo è che l’evento pandemico produca una sorta di tabula rasa organizzativa in ambito sanitario, in guisa che le disposizioni legislative emergenziali adottate per affrontare efficacemente l’evento e diminuirne le letali conseguenze epidemiologiche, costituiscano, anche in assenza di esplicite indicazioni in tal senso, strumento esaustivo ed esclusivo, capace di sostituirsi integralmente all’assetto ordinario delle competenze, attraverso non il meccanismo della deroga puntuale ma quello, appunto, dell’azzeramento del pregresso.
Il Giudice di Appello ritiene errati entrambi i postulati.
Il primo non trova alcun appiglio normativo nel D.P.C.M. 12.1.2017 recante “Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502”.
L’art. 4 comma 1 prevede infatti che “nell’ambito dell’assistenza sanitaria di base, il Servizio sanitario nazionale garantisce, attraverso i propri servizi ed attraverso i medici ed i pediatri convenzionati, la gestione ambulatoriale e domiciliare delle patologie acute e croniche secondo la migliore pratica ed in accordo con il malato, inclusi gli interventi e le azioni di promozione e di tutela globale della salute”.
La tesi secondo la quale “l’influenza da covid 19 non sarebbe una patologia acuta sussumibile nel disposto appena citato, si risolve in una mera illazione, posto che la patologia acuta è proprio il processo morboso funzionale o organico a rapida evoluzione, cui tipicamente è riconducibile quello conseguente a virus influenzale.”
Non c’è dubbio, quindi, che se il Legislatore non fosse affatto intervenuto, nessuno avrebbe dubitato che i medici di medicina generale, in forza del D.P.C.M. 12.1.2017 e dell’accordo collettivo che ne dà attuazione sul versante della medicina generale, avrebbero avuto l’obbligo di effettuare accessi domiciliari ove richiesto e ritenuto necessario in scienza e coscienza, a prescindere dalla sussistenza in atto di una patologia infettiva, e nel rispetto ovviamente dei protocolli di prevenzione e tutela.
Il Legislatore è, tuttavia, intervenuto, approntando soluzioni organizzative emergenziali.
Qui, secondo il Consiglio di Stato, viene il rilievo l’erroneità del secondo postulato.
Le norme emergenziali, anche di carattere organizzativo, sono sempre norme speciali e derogatorie che si innestano in un contesto noto e presupposto dal legislatore, in modo da modellare l’assetto organizzativo ordinario e renderlo maggiormente idoneo a fronteggiare l’emergenza.
È chiaro, dal punto di vista della tecnica legislativa, che per raggiungere tale finalità non occorre confermare espressamente l’ultravigenza di tutte le norme organizzative ordinarie pregresse, vigendo il generale criterio esegetico secondo il quale continua ad applicarsi ciò che non è espressamente derogato dalla norma emergenziale.
Così come è chiaro – prosegue il ragionamento del Giudice di Appello – che “un legislatore che voglia affrontare con la massima rapidità ed efficienza, senza lacune e soluzioni di continuità, una situazione emergenziale, non potrebbe giammai privarsi di un modello organizzativo già funzionante e testato, in favore di un modello interamente nuovo e sostitutivo, la cui concreta implementazione, tra l’altro, è rimessa all’iniziativa di ulteriori soggetti istituzionali e al reperimento di risorse umane e strumentali. Il principio della tabula rasa dell’organizzazione pregressa costituirebbe, in situazione emergenziale, un salto nel vuoto.”
L’esegesi dell’art. 4 – bis D.L. n. 18/2020 appare, quindi, al Collegio estremamente chiara.
Esso ha previsto che “Al fine di consentire al medico di medicina generale o al pediatra di libera scelta o al medico di continuità assistenziale di garantire l’attività assistenziale ordinaria, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano istituiscono, entro dieci giorni dalla data del 10 marzo 2020, presso una sede di continuità assistenziale già esistente, una unità speciale ogni 50.000 abitanti per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero. L’unità speciale è costituita da un numero di medici pari a quelli già presenti nella sede di continuità assistenziale prescelta. Possono far parte dell’unità speciale: i medici titolari o supplenti di continuità assistenziale; i medici che frequentano il corso di formazione specifica in medicina generale; in via residuale, i laureati in medicina e chirurgia abilitati e iscritti all’ordine di competenza. L’unità speciale è attiva sette giorni su sette, dalle ore 8,00 alle ore 20,00, e per le attività svolte nell’ambito della stessa ai medici è riconosciuto un compenso lordo di 40 euro per ora.
Il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta o il medico di continuità assistenziale comunicano all’unità speciale di cui al comma 1, a seguito del triage telefonico, il nominativo e l’indirizzo dei pazienti di cui al comma 1. I medici dell’unità speciale, per lo svolgimento delle specifiche attività, devono essere dotati di ricettario del Servizio sanitario nazionale e di idonei dispositivi di protezione individuale e seguire tutte le procedure già all’uopo prescritte”.
Il senso della disposizione emergenziale è quello di alleggerire i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta e i medici di continuità assistenziale, dal “carico” derivante dall’esplosione pandemica, affiancando loro una struttura capace di intervenire a domicilio del paziente, a richiesta dei primi, ove questi, attanagliati da un fase di così diffusa morbilità e astretti dalle intuibili limitazioni temporali e fisiche, o anche legate all’indisponibilità temporanea di presidi efficaci, non possano recarsi al domicilio del paziente, o ritengano, in scienza e coscienza, nell’ambito della propria autonoma e libera valutazione medica, che sia necessaria o preferibile l’intervento della struttura di supporto.
Nessuna deroga ai LEA, quindi, ma “garanzia della loro effettività attraverso un supporto straordinario e temporaneo – gli USCAR – destinato ad operare in sinergia e nel rispetto delle competenze e prerogative dei medici di medicina generale e degli altri medici indicati.”
Trarre dalle disposizioni in commento, un vero e proprio divieto per i medici di medicina generale di recarsi a domicilio per assistere i propri pazienti alle prese con il virus costituirebbe, per converso, un grave errore esegetico, suscettibile di depotenziare la risposta del sistema sanitario alla pandemia e di provocare ulteriore e intollerabile disagio ai pazienti, che già affetti da patologie croniche, si vedrebbero (e si sono invero spesso visti), una volta colpiti dal virus, proiettati in una dimensione di incertezza e paura, e finanche abbandonati dal medico che li ha sempre seguiti.
Del resto, seppur si volesse valorizzare la considerazione circa il rischio di ulteriore veicolazione del virus (legato all’accesso domiciliare del medico di medicina generale) si tratterebbe comunque di rischi che dovrebbero essere previamente ponderati dal Legislatore nell’ambito di una analisi multifattoriale, per poi eventualmente sfociare in un divieto chiaro ed espresso.
Né, invero, non può farsi discendere, da tale ipotizzato rischio, un’esegesi normativa soppressiva del contributo che in questa fase i medici di medicina generale, i pediatri e i medici di continuità assistenziale possono e debbono dare unitamente alle USCAR nella lotta al virus.
In ogni caso, sottolinea il Consiglio di Stato, sussistono ormai chiari indici che tale rischio sia subvalente rispetto al fattivo contributo che le figure mediche or ora menzionate possono dare nella lotta alla diffusione del virus.
Le associazioni maggiormente rappresentative dei medici hanno, sotto tale profilo, già stipulato un accordo che va oltre la visita domiciliare e consente ai medici, in relazione alla grave situazione emergenziale che il Paese sta affrontando, e allo scenario epidemico che si prospetta per il periodo autunno-invernale, l’accesso domiciliare per l’effettuazione di tamponi antigenici rapidi o di altro test di sovrapponibile capacità diagnostica.
L’accordo prevede che “L’attività è erogata nel rispetto delle indicazioni di sicurezza e di tutela degli operatori e dei pazienti, definite dagli organi di sanità pubblica”, opportunamente prevedendo, a prevenzione dei rischi di incremento del contagio che “In assenza dei necessari Dispositivi di Protezione Individuale (mascherine, visiere e camici), forniti ai sensi del precedente comma 5 per l’effettuazione dei tamponi antigenici rapidi, il medico non è tenuto ai compiti del presente articolo e il conseguente rifiuto non corrisponde ad omissione, né è motivo per l’attivazione di procedura di contestazione disciplinare”.
L’accordo sottende e formalizza un principio che – ad avviso del Collegio – era già ricavabile in precedenza dall’ordinamento: quello secondo il quale il medico di medicina generale (e le altre figure mediche operanti sul territorio), in scienza e coscienza ordinariamente valutano e, se necessario, effettuano, l’accesso domiciliare anche per i malati covid, nel rispetto dei protocolli di sicurezza, fruendo, ove necessario o opportuno, anche in considerazione dell’eventuale insufficienza o inidoneità dei dispositivi di protezione disponibili, del supporto dei medici e del personale dell’USCAR.
L’accordo citato, in conclusione, rappresenta indice dell’evoluzione dell’ordinamento verso soluzioni coerenti con l’esegesi che il Collegio fornisce dell’art. 4 bis D.L. n. 18/2020 sulla base degli argomenti sopra illustrati.