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La chirurgia riparativa in caso di fallimento protesico. Esperienze di “Extreme Surgery”

Dott. Maurilio Bruno
Responsabile UN.OP. chirurgia della mano e microchirurgia ricostruttiva – Istituto ortopedico Galeazzi IRCSS, Milano

Dott. Andrea Fraccia
Specialista in Ortopedia – Istituto ortopedico Galeazzi IRCSS, Milano

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Introduzione

In Ortopedia e Traumatologia, la chirurgia protesica rappresenta la soluzione ideale per i processi artrosico degenerativi delle articolazioni e risulta essere riparativa in caso di fratture comminute irriducibili articolari. La tecnica chirurgica e la tecnologia hanno raggiunto livelli elevatissimi consentendo, in particolare nelle articolazioni maggiori (anca, ginocchio, spalla, gomito e caviglia), un approccio diffuso sia per la preparazione dei chirurghi ortopedici che per la possibilità di eseguire tali interventi in qualunque centro clinico ospedaliero anche periferico.
La preparazione media del chirurgo ortopedico si è di conseguenza adeguata a tali sviluppi, così come la geometria protesica, i materiali a disposizione e gli strumentari sempre più raffinati e dedicati.
Tuttavia a fronte di questo, l’aumento esponenziale del numero di impianti protesici ha di pari passo incrementato il numero di complicanze in termini di fallimento meccanico, di intolleranza e di infezioni a breve e medio termine.
Mentre a lungo termine la prevedibilità e l’ineluttabilità del fallimento dell’impianto è ben conosciuta così come conosciuti sono i ripari attraverso la pratica del reimpianto della protesi, le complicanze a breve e medio termine rappresentano ancora oggi la sfida principale per il chirurgo ortopedico.
Il fattore biologico influenza quindi il destino dell’impianto protesico in maniera determinante e rappresenta la vera incognita nel processo di valutazione dei risultati.
La perdita di sostanza dei tessuti molli circostanti la protesi e i processi infettivi che ne conseguono pongono gravi problemi di gestione del trattamento che deve risultare adeguato, per mezzi e obbiettivi, e risolutivo al tempo stesso.

Razionale

Nella nostra pratica la complicanza di esposizione delle componenti protesiche articolari ci ha costretti a mettere a punto tecniche di chirurgia ricostruttiva “estreme“ e rare, tanto da porre dubbi sulla liceità della scelta effettuata.
D’altro canto la gravità di determinate situazione impone e giustifica livelli di rischio non comuni nella pratica usuale.
Per tali casi mi riferisco alla cosiddetta “extreme surgery”, ovvero alle tecniche di recupero di protesi articolare esposte e quindi infette mediante ausilio di lembi, ovvero tessuti dotati di vascolarizzazione propria, in particolare di lembi muscolari.
Ma rammentiamo il concetto di lembo.
Il lembo è una regione di tessuto che è possibile isolare dal suo sito originario e trasporlo in un’altra sede anatomica, conservando il suo normale apporto ematico ovvero rispettando il suo asse vascolare, pena la necrosi dello stesso tessuto .
Lo scopo di tale procedura sta nella necessità di coprire con il lembo territori privi di mantello cutaneo con effetto simultaneo.
Si tratta di procedure chirurgiche molto antiche che ci rimandano a nomi di medici chirurghi pionieri come Gaspare Tagliacozzo (1500), John Wood (1836), Igino Tansini (1892), Swaw e Payne (1946, Mc Gregor e Jackson (1972).
Pionieri che attraverso accurati studi anatomici vascolari hanno descritto lembi su cui si basa la moderna chirurgia ricostruttiva, come successivamente approfondito dai lavori di Esser e infine di Michel Salmon. La comparsa del microscopio operatore ha poi completato la dinamica di queste tecniche chirurgiche grazie alle possibilità di effettuare anastomosi vascolari.
Sul piano pratico abbiamo a disposizione lembi cutanei semplici o compositi e lembi muscolari.
I lembi cutanei sono classificabili secondo i seguenti criteri:
Vascolarizzazione
– L. assiale
– L. connettivale
– L. neurocutaneo
– L. mio-cutaneo
Tipo di impiego
– L. libero
– L. peninsulare
– L. insulare
Componenti di tessuto
– L. fasciale
– L. sottocutaneo
– L. cutaneo
– L. fascio-cutaneo
I lembi muscolari rappresentano di contro una struttura anatomica più arcaica e semplice e la loro affidabilità non è tanto dovuta alla vascolarizzazione sempre abbondante, ma soprattutto alla forma anatomica e alla possibilità di rotazione e plasticità per adattarsi ai vari possibili utilizzi.
La classificazione più nota e pratica è quella di Mathes e Nahai:
Tipo I
m. con un solo peduncolo vascolare
Tipo II
m. con un peduncolo dominante e diversi peduncoli minori
Tipo III
m. con due peduncoli dominanti
Tipo IV
m. con peduncoli vascolari segmentari
Tipo V
m. con un peduncolo dominante e uno secondario segmentario.

Dal razionale all’applicazione pratica

L’esperienza maturata in molti anno di chirurgia ricostruttiva degli arti in ambito ortopedico e traumatologico ci ha abituato sia al rispetto della correttezza delle tecniche chirurgiche ortopediche abituali sia all’acquisizione di tecniche di chirurgia plastico ricostruttiva e vascolare nonché di microchirurgia. Il bagaglio culturale e tecnico maturato in questi ambiti ha consentito di attuare procedure limite in casi selezionati. É questo lo spirito con cui abbiamo affrontato la casistica che presentiamo di seguito.

Utilizzo del lembo di Gastrocnemio nel salvataggio di protesi di ginocchio esposta

In pazienti con patologie sistemiche come artrite reumatoide, diabete, insufficienza epatica e/o renale, vascolopatie periferiche, etc… L’impianto di protesi di ginocchio può presentare gravi complicazioni.
La deiscenza della ferita chirurgica dopo impianto di protesi di ginocchio provoca la necrosi della cute della regione anteriore dello stesso e l’esposizione dell’impianto. A questo segue regolarmente la contaminazione batterica precoce che necessita di presidi immediati per il dominio dell’infezione e il ripristino del mantello cutaneo.
I gesti necessari sono rappresentati da:
– asportazione dei tessuti necrotici
– lavaggio accurato
– copertura con lembo
Il fallimento di queste procedure può portare a:
– espianto della protesi e artrodesi del ginocchio
– amputazione
A questo punto nasce la necessità di procedere a salvataggio colmando la regione anatomica e la protesi esposta mediante un lembo. Lo scopo specifico è quello di coprire il difetto tissutale e contemporaneamente sterilizzare la protesi esposta così da evitare la contaminazione batterica.
La scelta del lembo è fondamentale. Quale lembo scegliere?
Lembo fascio – cutaneo
(solo in pazienti in condizioni generali buone e per perdita di sostanza con diametro inferiore a 4 cm)
Lembo mio – cutaneo peduncolato:
– gastrocnemio
– gracile
Lembo mio cutaneo libero
– Latissimus dorsi
– Retto addominale
Nei due casi presentati di seguito, la nostra scelta è caduta sul Lembo di gastrocnemio.
Si tratta di un lembo tipo I della classificazione di Mathes e Nahai, ad unico peduncolo vascolare basato sull’apporto dell’arteria surale, ramo della a. Poplitea. Si tratta di un lembo duplice, mediale e laterale a seconda delle necessità, con buon arco di rotazione, giusta lunghezza e grossolano apporto ematico.

CASO N. 1

Paziente maschio, BIANCO, aa.62
Gonartrosi sin grave inveterata,
ginocchio flesso doloroso,
in postumi di trauma complesso gamba sin.
15 anni prima con lesione vascolare della a. poplitea
e impianto di protesi vascolare all’arteria poplitea.
Condizioni generali buone
Non patologie metaboliche in atto.

CASO N.2

Paziente femmina di aa .66
GONARTROSI in Esiti di Poliomielite Acuta Anteriore
Condizioni generali buone
Non patologie in atto

Tabella CASISTICA 2002-2013

Discussione e conclusioni

Descritto da Mac Craw JB nel 1978, il lembo di gastrocnemio rappresenta un versatile mezzo di copertura e ripristino delle parti molli nei casi di esposizione e infezione della protesi di ginocchio. Dà modo infatti. di fornire copertura immediata e in alcuni casi di poter riparare l’apparato estensore necrotizzato. Difficile rimane giudicare il rapporto con l’infezione profonda. Molti autori hanno pubblicato serie di pazienti affetti da infezione profonda della protesi che trattati con questa metodica hanno riportato guarigioni complete in circa il 60% dei casi con mantenimento dell’impianto. I restanti casi hanno comunque avuto giovamento dalla metodica, riuscendo a sottoporsi in un secondo momento a reimpianto. Di contro, cattivi risultati sono universalmente riportati nei tentativi di eseguire la trasposizione del lembo e il reimpianto in un unico atto chirurgico. Inoltre nei casi guariti, in alcuni si è registrata una reinfezione grave della protesi a distanza di tempo, che ha richiesto più drastica chirurgia, ovvero l’amputazione dell’arto.

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