Mariangela Rizzo Studente del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Alessio Gerussi MD, Specialista in Medicina Interna, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Marco Carbone MD, PhD, Specialista in Gastroenterologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Pietro Invernizzi MD, PhD, Specialista in Gastroenterologia, Professore Associato, Centro Malattie Autoimmuni del fegato, Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Introduzione
La colangite biliare primitiva (CBP) è una rara patologia autoimmune che colpisce selettivamente i piccoli dotti biliari intraepatici causando colestasi cronica, ovvero una riduzione dell’efflusso di bile con conseguente ritenzione nel fegato. Il fegato e il sistema dei dotti biliari costituiscono un unico grande insieme, perciò un problema colangiocitico può provocare, in seconda istanza, anche un danno agli epatociti. Nonostante abbia più spesso un inizio silente ed una lunga fase asintomatica, la patologia può progredire verso la fibrosi, la cirrosi epatica, l’insufficienza epatica e la morte. Nella maggior parte dei casi è diagnosticata in fase iniziale e i trattamenti sono spesso efficaci nel bloccare la sua progressione.
Chiamata per decenni con il nome di “cirrosi biliare primitiva”, una commissione di esperti dell’associazione europea di epatologia (EASL), riunitasi a Milano nel 2014, ha modificato il nome in “colangite biliare primitiva”, alla luce del fatto che non tutti i pazienti affetti da CBP sviluppano cirrosi.
Epidemiologia
La CBP è una malattia rara, avendo una prevalenza inferiore a 5 casi su 10.000 abitanti (criterio europeo per definire rara una malattia); in Italia si ritiene ci siano tra i 12.000 e i 13.000 casi (Younossi et al., 2018). Secondo Orphanetla prevalenza e l’incidenza globali della CBP sono rispettivamente 2.1/10.000 e 0.3/10.000/anno. Considerando tutti i dati epidemiologici disponibili in varie aree del globo (Nord America, Europa, Australia, Spagna e Israele), si può osservare una variazione in termini di prevalenza ed incidenza tra le diverse aree geografiche, giustificata probabilmente da una diversità di accesso alla diagnosi e alle cure piuttosto che da una reale differenza tra le varie zone. Il sesso maggiormente colpito è quello femminile, con un’età di incidenza superiore ai 40 anni circa; su 10 pazienti circa 9 sono femmine. Tuttavia, un recente studio basato su dati raccolti in Lombardia e Danimarcaha dimostrato che sono affetti da CBP più maschi di quanto fosse atteso.
Eziologia
La causa dell’insorgenza della CBP è ancora sconosciuta, anche se è chiaramente una malattia autoimmune. Le evidenze sostengono la relazione tra predisposizione genetica e fattori ambientali. A favore della prima vi sono un’aumentata concordanza presente nei gemelli omozigoti e l’identificazione, tramite grandi studi genetici (chiamati GWAS, cioè “Genome Wide Association Studies”), di numerosi geni associati alla modulazione della risposta immunitaria (sia innata che acquisita). Inoltre, più della metà dei pazienti affetti da CBP presenta un’altra condizione autoimmune come ad esempio la celiachia, la sclerodermia, la tiroidite autoimmune e la sindrome di Sjogren, il che riflette una predisposizione comune tra le varie patologie autoimmuni. I fattori ambientali, come l’esposizione ad agenti virali o ad agenti chimici, possono essere considerati dei trigger per l’avvio della risposta autoimmune, in questa malattia esclusivamente diretta contro i colangiociti dei piccoli dotti biliari. Una maggiore comprensione dei meccanismi molecolari alla base della CBP consentirà la definizione di nuovi target terapeutici, pertanto la ricerca del meccanismo patogenetico è una tra le più grandi sfide in campo epatobiliare.
Aspetti immunologici
La patogenesi della malattia è sicuramente autoimmune. È stato dimostrato che la malattia è caratterizzata da una aggressione immunitaria diretta contro alcuni enzimi presenti nei mitocondri (famiglia enzimatica della piruvatodeidrogenasi) che coinvolge tutte le componenti del sistema immunitario, dalla produzione di autoanticorpi sierici anti-mitocondriali (AMA) (immunità umorale) all’attivazione di numerosi tipi di cellule immunitarie come linfociti T CD4, CD8, Natural Killers, monociti/macrofagi, etc. (immunità cellulare).
Focus biochimico sugli acidi biliari
Gli acidi biliari primari (colico e chenodeossicolico) vengono prodotti dagli epatociti a partire dal colesterolograzie all’enzima citocromo P450 7A1- idrossilasi (CYP7A1); una volta coniugati con taurina e glicina, vengono secreti nei canalicoli biliari. I sali biliari di neosintesi nell’intestino divengono acidi biliari secondari (deossicolico, litocolico e ursudesossicolico) grazie alle reazioni di deidrossilazione e deconiugazione ad opera del microbiota. Il 95% degli acidi viene riassorbito nell’ileo terminale tramite un co-trasportatore sodio dipendente (ASBT) e, una volta arrivato all’interno della circolazione portale, avviene il re-uptake negli epatociti tramite il cotrasportatore sodio-taurocolato (NTCP), situato sul versante sinusoidale dell’epatocita, assieme al trasportatore di anioni organici (OATP).
Meccanismi di regolazione dell’omeostasi degli acidi biliari
Esistono vari meccanismi che permettono di proteggere gli epatociti dalla tossicità indotta dagli acidi biliari. Il principale meccanismo dell’omeostasi degli acidi biliari è costituito dal recettore nucleare farnesoide X (FXR); negli enterociti, gli acidi biliari legano FXR riducendo l’espressione del gene CYP7A1, con conseguente diminuzione della sintesi degli acidi biliari (meccanismo a feedback negativo); inoltre, FXR riduce l’attività di ASBT, NTCP, OATP e aumenta quella della pompa che secerne gli acidi biliari nella bile(BSEP). Un’altra importante azione di controllo è svolta dal fattore di crescita dei fibroblasti 19 (FGF-19) che, una volta secreto nella circolazione portale, va ad interagire con il proprio recettore posto sugli epatociti, attivando un pathway inibitorio della trascrizione del gene per il CYP7A1. Complessivamente queste azioni creano un ambiente protettivo nei confronti della tossicità della bile, chiamato “ombrello dei bicarbonati” (in inglese, “bicarbonateumbrella”). In particolare, questo “ombrello” svolge un ruolo difensivo per gli epatociti e per i colangiociti, in quanto questo meccanismo, tramite la secrezione di bicarbonato nelle vie biliari, permette l’alcalinizzazione che provoca un passaggio verso la forma ionizzata degli acidi biliari.
Quadri istopatologici della CBP
Il quadro istologico della malattia viene essenzialmente classificato in 4 stadi (Classificazione di Ludwig):
STADIO I: portale o delle lesioni floride (senza interfaccia);
STADIO II: infiammazione periportale (epatite interfaccia) o della proliferazione duttulare;
STADIO III: bridging porto-portale e centro-portale (fibrosi);
STADIO IV: end stage-cirrosi.
Nonostante siano descritti come quadri istologici ben definiti, in realtà, nella pratica clinica, i diversi quadri possono spesso coesistere.
Diagnosi
Al momento la maggior parte dei pazienti è diagnosticata durante la fase asintomatica della malattia. Le linee guida per la diagnosi comprendono:
• Un aumento persistente (almeno 6 mesi) nel siero di fosfatasi alcalina (FA) (evidenza di colestasi);
• Positività anticorpi anti-mitocondrio (AMA) (> 1:40) oppure anticorpi anti-nucleoanti-gp210 e/o anti-Sp100 (ANA);
• Quadro istologico compatibile con colangite non suppurativa dei dotti interlobulari.
È sufficiente soddisfare almeno due criteri. Il 95% dei pazienti risulta AMA positivo, perciò la biopsia epatica può non essere indispensabile, sebbene sia spesso utile per escludere forme concomitanti di sofferenza epatica, studiare correttamente la malattia, definire la probabilità di risposta ai farmaci e più correttamente la prognosi della malattia. Nel restante 5% dei casi di AMA negatività la diagnosi viene completata dalla prova bioptica. È importante ricordare che ci sono alcuni autoanticorpi anti-nucleari (ANA) specifici per la malattia, anti-sp100 e anti-gp210, utili per la diagnosi, ma anche con un significato prognostico negativo.
La CBP è caratterizzata negli stadi iniziali da un aumento dei livelli di FA e gamma GT (GGT), invece l’aumento della concentrazione di bilirubina e la diminuzione di albumina plasmatica sono tipici degli stadi avanzati e sono anche importanti marcatori prognostici.
Gli autoanticorpi, presenti nella sierologia di un paziente affetto da CBP, hanno un significato fondamentale nella diagnosi biochimica e hanno permesso di diminuire nettamente la richiesta di biopsie epatiche a fini diagnostici. Gli autoanticorpi AMA (anti-mitocondrio) sono specifici per la malattia e agiscono selettivamente contro le frazioni M2 (multicomplessi proteici presenti sulla membrana interna mitocondriale) dei colangiociti dei piccoli dotti intraepatici, in modo specifico contro l’antigene E2 dell’enzima piruvato deidrogenasi. Gli ANA (anti-nucleo), distinti in anti-nucleardots e anti-nuclearrims, agiscono selettivamente contro gli antigeni Sp100 e gp210 rispettivamente e hanno valore diagnostico e prognostico.
Anche i livelli di immunoglobuline sieriche, nonostante non facciano parte dei criteri diagnostici, hanno un ruolo nell’indirizzarci verso la giusta diagnosi, specialmente di quadri atipici: in diversi pazienti è stato trovato un aumento di concentrazione policlonale di IgM; l’incremento di IgG sembra essere correlato alla presenza di epatite autoimmune AIH (sindromi overlap), sebbene non sia sufficiente per definire una diagnosi di overlap.
La principale patologia che entra in diagnosi differenziale con la CBP è la colangite sclerosante primitiva (CSP) che, a differenza della prima, non ha autoanticorpi specifici. Per la diagnosi di esclusione ha un ruolo predominante la colangio-RM con cui si può osservare direttamente la morfologia delle vie biliari, normale nella CBP, alterata nella CSP. Più insidiosa è la diagnosi differenziale tra CBP e CSP dei piccoli dotti che, non manifestando alterazioni evidenti radiologiche delle vie biliari, necessita della biopsia per dirimere il quesito diagnostico.
Gestione clinica del paziente
Nei pazienti con CBP è importante monitorare la risposta ai farmaci e la progressione della malattia.
Le indagini biochimiche, che includono indici di colestasi (GGT, FA, bilirubina), transaminasi, colesterolo sierico e gammaglobuline, vanno ripetute ogni 6-12 mesi per gli stadi iniziali ed ogni 3-4 mesi per gli stadi avanzati della patologia. Dal punto di vista dell’imaging è raccomandato eseguire l’ecografia epatica annualmente ed il Fibroscan ogni due anni per valutare la stiffness del fegato (indice indiretto e non invasivo di progressione fibrotica), con un cut-off > 9.6kPa indicativo di malattia epatica avanzata.
È frequente la concomitanza di altri quadri disimmuni come la sindrome di Sjogren, patologie tiroidee su base autoimmunitaria e anemie emolitiche autoimmuni, specialmente nei pazienti con una importante astenia.
La malattia generalmente ha una lenta progressione, anche se i casi possono essere estremamente variabili tra di loro.Circa la metà dei pazienti, diagnosticata durante la fase asintomatica, manifesta i sintomi tipici (prurito e astenia) dopo circa 10 anni dalla diagnosi. È stato dimostrato che la fase sintomatica si presenta principalmente in donne giovani refrattarie alla terapia primaria e con una progressione della patologia più veloce rispetto allo standard.
Il prurito può anche essere severo ed influire in modo negativo sulla qualità di vita del paziente;
viene trattato in prima linea con colestiramina (resina a scambio anionico cloridrata in grado di legare gli acidi biliari nel lume intestinale), con rifampicina (seconda linea) ed eventualmente naltrexone (terza linea).
L’astenia è un sintomo abbastanza aspecifico e tipico di numerose altre condizioni che devono essere escluse per poter affermare che si tratti di astenia CBP-correlata. È presente nell’80% dei malati e non va di pari passo con la severità della malattia. Non esistono trattamenti per questo tipo di sintomo che a volte può anche essere accompagnato da disordini del sonno ed ipotensione ortostatica.
Un ulteriore sintomo correlato alla colestasi CBP-associata è l’osteoporosi, abbastanza frequente (25-50%) specialmente in donne in età perimenopausale e postmenopausale. È fondamentale eseguire una densitometria ossea alla diagnosi per valutare la salute ossea al basale; in caso di osteopenia è importante supplementare con calcio e vitamina D, in caso di osteoporosi è necessaria una valutazione specifica per decidere in merito a ulteriore terapia farmacologica (bifosfonati, denosumab, etc).
I sintomi quindi non devono essere sottovalutati poiché pesano negativamente sulla qualità di vita del paziente.
Terapia
L’acido ursudesossicolico (UDCA), approvato dalla Food and DrugAdministration (FDA) nel 1997, è raccomandato dalla American Association for the Study of Liver Disease (AASLD) e dall’European Association for the Study of Liver (EASL) come terapia di prima linea in tutti i pazienti affetti da CBP, a una dose di 13-15 mg/kg/die generalmente frazionata nell’arco delle 24h). In condizioni fisiologiche l’UDCA rappresenta solo una bassa percentuale della totalità degli acidi che compongono la bile (1-4%); gli effetti benefici della somministrazione di UDCA sono stati ampliamente dimostrati in diversi trial. Questi sono dovuti principalmente a un incremento della quota idrofilica degli acidi a discapito della quota idrofobica, a una stimolazione della pompa di efflusso della bile (BSEP), ad una stabilizzazione del meccanismo del bicarbonateumbrella ed anche ad un’azione anti-infiammatoria e anti-apoptotica.
L’efficacia dell’acido ursudesossicolico è dimostrata dalla diminuzione della concentrazione sierica di FA, bilirubina, GGT, colesterolo e IgM dopo 12 mesi. UDCA ha anche un ruolo nel ritardo della progressione istologica della malattia e nel miglioramento della sopravvivenza libera da trapianto epatico, come dimostrato in numerosi trial clinici. Tuttavia, una percentuale variabile (20-40%) di pazienti con CBP ha un’inadeguata risposta e un 5% è intollerante.
Appare chiaro quindi la necessità di sviluppare nuove terapie a supporto della prima linea. Nel maggio 2016è stato approvato l’acido obeticolico (OCA) come terapia di seconda linea. L’acido obeticolico è un derivato dell’acido chenodeossicolico da cui differisce per un gruppo etilico che conferisce un’affinità maggiore per il recettore FXR, rispetto al suo ligando naturale. Pertanto l’OCA funge da agonista del FXR, modulando una serie di reazioni omeostatiche degli acidi biliari.
Lo studio POISE (studio di fase III, doppio cieco, controllo con placebo), condotto su 216 pazienti aventi un’inadeguata risposta o un’intolleranza alla terapia di prima linea, prevedeva la somministrazione di UDCA + OCA nel 93% dei casi e di monoterapia nel restante 7%; l’endpoint primario era composito (ALP < 1.67 ULN, BILIRUBINA < ULN, una riduzione di ALP almeno del 15% del valore). La metà dei pazienti ha soddisfatto l’end point primario. L’effetto indesiderato principale è la comparsa di prurito, per questa ragione è indicato iniziare con una dose di 5 mg/die, per poi aumentare fino alla dose massima raccomandata se ben tollerata (10 mg/die). Gli effetti a lungo termine sui pazienti con child B-C, sul trapianto e sulla mortalità devono ancora essere esaminati attraverso ulteriori studi. A oggi OCA è l’unico farmaco di seconda linea efficace nei pazienti che non rispondono all’UDCA.
Stratificazione del rischio
La CBP è una malattia molto eterogenea in termini di progressione, infatti non tutti gli affetti evolvono ad ESLD (end-stage liver disease), altri invece sviluppano cirrosi in tempi brevi, anche in pochi anni. Per questo motivo è fondamentale riuscire a delineare coloro i quali sono più a rischio di peggioramento della malattia epatica, per poterli seguire e trattare in maniera sempre più personalizzata (medicina di precisione). A tal proposito l’UK PBC group, guidato dal Dr. Marco Carbone dell’università Milano-Bicocca, ha sviluppato nel 2016 uno score in grado di identificare i pazienti a più alto rischio di progressione, proprio per garantire loro uno stretto monitoraggio ed eventualmente l’inizio della terapia di seconda linea. Il calcolatore di rischio usa le informazioni provenienti dall’Uk-PBC Research Cohort per stimare, in percentuale, il rischio di progressione della malattia nei pazienti in terapia con UDCA, di scompenso epatico e di eventuale trapianto di fegato negli anni dalla diagnosi.
È disponibile online un Risk Score Calculator che considera l’Upperlimit of normal (ULN) di Bilirubina, ALT o AST e ALP e il LLN di albumina e conta piastrinica dopo 12 mesi di trattamento con UDCA.
Pretreatmentprediction: UDCA response score
La risposta biochimica alla terapia di prima linea (treatment response) è un fattore altamente predittivo dell’outcome del paziente. È stato pubblicato, nel luglio del 2018, su Lancet Gastroenterology&Hepatology, uno studio che propone un modello per prevedere la risposta all’UDCA a 1 anno di terapia. Il goal dello studio è cercare di prevedere una risposta completa alla prima linea di terapia e, in caso contrario, di raccomandare l’inizio della terapia di seconda linea precocemente, sperando in un miglioramento nella prognosi. Lo studio ha dimostrato che è molto importante considerare i parametri biochimici del paziente albaseline; innanzitutto il ritardo con cui inizia la somministrazione di UDCA è associato ad un maggior rischio di sviluppare un’inadeguata risposta. La concentrazione di ALP al basale è il più importante fattore predittivo, questo perché ALP riflette la severità del danno biliare; anche la maggiore concentrazione di bilirubina influenza negativamente il treatment response, in quanto riflette un quadro di duttopenia avanzato. Ultimo, ma non meno importante, è l’età, infatti è stato dimostrato che i pazienti con un’inadeguata risposta all’UDCA erano più giovani; questa correlazione potrebbe essere spiegata dal ruolo degli ormoni come ad esempio gli estrogeni nelle giovani e nelle donne di media età. Si pensa che anche la cosiddetta “senescenza immunitaria” possa avere un ruolo nel tipo di risposta (esaurimento funzionale delle cellule T). Mettendo insieme tutte queste variabili, è stato creato un accurato modello per identificare precocemente i pazienti con un’alta probabilità di inadeguata risposta alla first-line therapy.
Nuove possibili terapie
Diversi studi in corso si propongono di valutare l’efficacia di nuove sostanze nel trattamento della CBP. Molta evidenza si è accumulata negli anni sugli agonisti del recettore PPAR, in particolare i fibrati.
Fibrati
I fibrati sono una classe di acidi carbossilici anfipatici e ipolipemizzanti, usati nel trattamento dell’ipertrigliceridemia. Il loro meccanismo di azione si basa sul legame con i recettori attivati da proliferatoriperossisomiali, quindi fungono da PPAR agonisti. Esistono tre isoforme del recettore: alfa, gamma e delta. Ad esempio, Fenofibrato ha una specificità per i PPAR-alfa (espressi maggiormente nel fegato e in altri organi che partecipano al metabolismo degli acidi grassi), Seladelpar per i PPAR-delta (espressi in modo ubiquitario), mentre Bezafibrato ha una comparabile affinità per tutte le tre classi di recettori. Questi recettori hanno una moltitudine di effetti positivi nel contesto di una patologia colestatica, ad esempio up-regolano l’espressione della proteina MDR3 che promuove l’escrezione della lecitina nella bile (questo diminuisce l’effetto citotossico dei sali biliari). In aggiunta i fibrati diminuiscono la trascrizione del NF-kB (importante fattore pro-infiammatorio).
Un importante trial, che ha stimato l’attività di bezafibrato, è il Bezurso (placebo-controlled, double blind and randomized trial). I 100 partecipanti sono stati suddivisi, in modo randomizzato, in due gruppi da 50 individui che, per un totale di 2 anni, sono stati trattati rispettivamente con UDCA + Bezafibrato 400mg/die e con UDCA + placebo. L’endpoint primario era la percentuale di pazienti che presentava, al termine dei 24 mesi, una risposta biochimica completa (definita dalla normalizzazione della concentrazione sierica di ALP, AST/ALT, Bilirubina totale, albumina e INR). La normalizzazione di ALP è stata riscontrata nel 67% dei partecipanti e la normalizzazione di tutti gli indici epatici nel 30%. In aggiunta anche il valore della stiffness e il prurito sono migliorati.
Nel grande gruppo degli agonisti del recettore FXR ritroviamo sostanze (agonisti non-acidi biliari) come GS9674, che sta dimostrando promettenti risultati nel modello murino, come EDP-305, promettente una migliore tollerabilità rispetto all’OCA (in uno studio di fase I, individui in salute e pazienti con presunta NAFLD).
NGM282, analogo sintetico del FGF-19, è stato al centro di un trial randomizzato multicentrico (in fase II). Questo trial prevedeva l’assunzione di UDCA + NGM282 da parte di 45 pazienti con CBP e un’inadeguata risposta all’UDCA contro placebo per 28 giorni. I risultati sono stati promettenti in quanto si è manifestata una riduzione dose dipendente dei livelli di ALP (15.2% con una dose di 0.3 mg, 19.2% con una dose di 3.0 mg e solo 1% nel placebo). Sono stati osservati effetti indesiderati come diarrea, nausea e mal di testa.
Il norUDCA, corrispondente all’acido ursudesossicolico mancante di un gruppo metilene, viene assorbito passivamente dai colangiociti (“shunt colepatico”), contribuendo alla formazione di un ambiente meno tossico per gli epatociti e i colangiociti. Dati sperimentali su modelli murini hanno mostrato le proprietà antifibrotiche e anti-infiammatorie dell’acido.
Trattamenti immunologici
I linfociti B e T infiltrano il fegato di un paziente affetto da colangite biliare primitiva e producono numerose citochine e chemochine pro-infiammatorie, giocando un ruolo nella patogenesi della malattia. È stato testato il Rituximab, anticorpo monoclonale contro la proteina di membrana dei linfociti B (CD20), ma attualmente non vi sono sufficienti evidenze per valutarne l’efficacia. Sulla stessa scia troviamo l’Ustekinumab, anticorpo monoclonale contro le interleuchine 12 e 23 (IL-12 e IL-23). Nei pazienti con CBP è stato osservato un aumento della sintesi di IL-23, correlato allo stadio della patologia. Il farmaco, testato su pazienti che non rispondono all’UDCA, non ha raggiunto l’end point primario (diminuzione della fosfatasi alcalina).
Il problema dell’immunomodulazione è la tempistica d’inizio della terapia stessa, infatti ci si aspetta che la terapia con anticorpi sia più efficace nei pazienti agli stadi iniziali della malattia, anche se è difficile identificarli precocemente.
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