Avv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario,
Catania.
Con la sentenza 21 maggio – 16 ottobre 2019, n. 42518, la terza sezione penale della Corte di Cassazione si è occupata della delicata questione della condotta del medico, accusato di palpazioni non ricollegabili al trattamento estetico – sanitario richiesto da una paziente.
I FATTI
Con sentenza del 6 febbraio 2017, la Corte d’appello di Brescia ha parzialmente riformato la sentenza del Gup del Tribunale di Bergamo del 19 novembre 2014 con la quale il Dott. XXXX era stato condannato, per il reato di cui agli artt. 81, secondo comma, e 609 bis, ultimo comma, cod. pen., perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, “con violenza e abuso d’autorità, costringeva Gi. Fr. a subire atti sessuali, con il pretesto di verifiche o trattamenti estetico – sanitari, nella sua qualità di medico di famiglia.“
La Corte d’Appello, in particolare, ha ridotto la pena inflitta ad anni uno, mesi sei e giorni venti di reclusione.
Il Dott. XXXX ha proposto ricorso per cassazione censurando:
L’inosservanza degli artt. 27 Cost, 187, 442, commi 1 e 2, 530, comma 2, 533, comma 1, cod. proc. pen. circa il “ragionevole dubbio” sulla prova del fatto, la mancata valutazione di tutti gli atti acquisiti al giudizio abbreviato, la manifesta illogicità, mancanza ed insufficienza della motivazione in ordine all’ipotesi alternativa fornita dall’imputato e il travisamento della prova della connotazione sessuale degli atti contestati.
Secondo il difensore dell’imputato, avrebbe errato la Corte d’appello nel porre a fondamento del giudizio di colpevolezza “la suggestione della persona offesa, secondo cui questa, mossa da peculiari sgradevoli sensazioni, stati d’animo o condizioni patologiche, avrebbe travisato la manovra di medicina estetica del medico attribuendole connotazione sessuale.“
La difesa non avrebbe contestato l’esistenza fenomenica delle manovre del medico bensì la percezione errata della paziente, che si desume anche dal fatto che “durante lo svolgimento di dette manovre, indossasse degli occhiali scuri a protezione del laser che le avrebbero impedito di avere contezza visiva di quanto accadesse e dal dato patologico della personalità della stessa, pacificamente sofferente di uno stato depressivo al momento dei fatti.“
Il giudice d’appello “avrebbe violato il canone del ragionevole dubbio circa la responsabilità del medico, non considerando l’incompletezza del materiale probatorio dovuta all’utilizzo del rito abbreviato” così come “non sarebbe stata tenuta in debito conto la ricostruzione alternativa fornita dall’imputato in sede di interrogatorio, in cui egli aveva ripercorso l’intera storia clinica della paziente, le visite, la somministrazione di farmaci, le manovre e la manipolazioni necessarie all’applicazione dei trattamenti di medicina estetica consistiti nell’uso di un prodotto anticellulite che, però, non interessava direttamente i genitali, bensì solo le zone colpite da un disturbo dell’ipoderma e nella rimozione definitiva del follicolo pilifero con la tecnica della luce pulsata, che hanno determinato necessariamente un’azione di palpazione e di costrizione per evidenziare il bulbo pilifero.”
La difesa dell’imputato, in secondo luogo, contesta che non si sarebbe dato spazio al ragionevole dubbio (circa la prova del fatto) e vizi della motivazione (circa la ritenuta irrilevanza della prova a favore dell’imputato, costituita dalle intercettazioni ambientali e telefoniche e circa gli atti di integrazione probatoria) nonché il travisamento del fatto della consapevolezza dell’imputato stesso circa le indagini in corso.
Si contesta, invero, il fatto che – sebbene siano state disposte intercettazioni ambientali e telefoniche in cui l’imputato dava prova dell’assoluta assenza di responsabilità rispondendo alle richieste di spiegazioni provenienti dalla persona offesa e dalla madre della stessa e la Corte territoriale abbia riferito che l’imputato non si sia mai tradito, nonostante le plurime provocazioni della persona offesa e della di lei madre – tale circostanza sia stata ritenuta del tutto irrilevante; così come sarebbero stati valutati contra reum “la pacatezza dell’imputato, il suo comportamento collaborativo e il suo avere sempre fornito spiegazioni in linea con la pratica di medicina estetica, nonché il suo dispiacere, a seguito della presa di coscienza delle accuse.“
Il Dott. XXXX, inoltre, censura l’inosservanza degli artt. 187, 442 comma 1 e comma 2, cod. proc. pen., in relazione alla mancata valutazione delle consulenze tecniche, nonché il travisamento del fatto “con riferimento alla prova della presenza di saliva dell’imputato e alle modalità di trasferimento della stessa sulla cute della persona offesa.“
Secondo la difesa dell’imputato “dalla consulenza tecnica di parte, con riferimento al reperto biologico prelevato a distanza di ore sulla cute della persona offesa nel corso della visita al pronto soccorso, era emersa l’impossibilità di determinare – oltre alla modalità di contatto – da quale liquido biologico provenisse la traccia di DNA rilevata e, soprattutto, che quella traccia fosse riconducibile alla saliva dell’imputato, ravvisandosi l’esistenza di una traccia mista riconducibile a due soggetti.“
La Corte d’Appello avrebbe, sotto tale profilo, posto a fondamento del giudizio di responsabilità il materiale genetico rinvenuto sui seni della persona offesa, nonostante fosse stato dimostrato che non si potesse con certezza assoluta ritenere che quel materiale fosse saliva e non anche sudore, lacrime o altri fluidi corporei che potevano essere finiti sul corpo della persona offesa in maniera del tutto accidentale, come ad esempio tramite uno starnuto.
L’imputato censura, inoltre, l’omessa valutazione delle condizioni patologiche della persona offesa, risultanti dagli atti e dalle certificazioni del centro psicosociale di riferimento.
La stessa era affetta da disturbo depressivo, gestito con l’assunzione, prolungata e attuale al momento dei fatti, di farmaci la cui posologia riporta il rischio di “acatasia, agitazione psicomotoria, irrequietezza“, che potrebbero aver influenzato le sue percezioni tanto da farle apparire reali, situazioni che non lo erano.
La difesa del Dott. XXXX lamenta, altresì, che la Corte territoriale avrebbe errato nel non valutare le contraddizioni e i riscontri negativi alle dichiarazioni della persona offesa o, quantomeno, l’evidente dubbio circa il reale svolgersi dei fatti e l’inidoneità soggettiva della dichiarante.
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
Il ricorso è dichiarato inammissibile perché basato sulla mera ripetizione di doglianze fattuali già formulate nei precedenti gradi di giudizio e motivatamente disattese dai giudici di merito.
Secondo la Suprema Corte la difesa dell’imputato si fonda su una ricostruzione alternativa dei fatti, secondo la quale “i trattamenti medico – estetistici svolti dall’imputato sarebbero stati scorrettamente percepiti dalla persona offesa come invasivi della sfera sessuale.“
La Corte sottolinea la contraddittorietà intrinseca nella linea difensiva dell’imputato, la quale, da un lato, si fonda “sulla pretesa inattendibilità della persona offesa, mentre, dall’altro, visto l’insuperabile dato oggettivo offerto dalla consulenza biologica, tende ad affermare che le palpazioni nelle zone erogene sono corrispondenti a manovre di chirurgia estetica.“
Il fondamento scientifico di tali pratiche risulta del tutto asserito dalla difesa, la quale “non riesce a spiegare la presenza del profilo genetico dell’imputato sul seno destro della paziente, se non attraverso la ricostruzione – palesemente inattendibile – secondo cui lacrime, saliva o sudore sarebbero inspiegabilmente caduti proprio su tale parte del corpo della vittima.“
La Corte, inoltre, evidenzia che la circostanza che l’imputato non si sarebbe mai tradito, nel corso delle intercettazioni, ad onta delle numerose provocazioni poste in essere dalla vittima e dalla di lei madre, appare del tutto irrilevante “a fronte di un quadro probatorio univoco, rappresentato dalle attendibili dichiarazioni accusatorie, direttamente riscontrate dal reperimento di materiale salivare dell’imputato sul corpo di questa proprio in corrispondenza delle zone nelle quali aveva riferito di avere subito contatti con la bocca dell’imputato.“
La generica prospettazione difensiva si basa “sulla circostanza, del tutto rilevante, che la saliva dell’imputato ritrovata sul seno della vittima faccia parte di una traccia mista di DNA, riconducibile alla vittima e all’imputato.“
Secondo la Suprema Corte la ricostruzione dei fatti è palesemente inverosimile atteso che la saliva dell’imputato si sarebbe trovata in quella del corpo della vittima per ragioni inspiegabili.
Correttamente, peraltro, la Corte d’appello ha valorizzato lo stato patologico della persona offesa come elemento a discapito dell’imputato, ai fini della giustificazione dello scostamento dal minimo edittale nel trattamento sanzionatorio, sul rilievo che “il tradimento della professione medica appare tanto più grave se si tiene conto del fatto che le violazioni ontologiche sono state poste in essere nei confronti di un soggetto altamente vulnerabile per le sue problematiche di depressione.“
Prosegue l’iter motivazionale della Corte di legittimità nel sottolineare che, correttamente, i giudici di merito hanno ben individuato le ragioni della ritenuta credibilità della persona offesa, oltre che nella plausibilità della dinamica dei fatti da questa descritta e nelle spontanee modalità della denuncia, anche nel già menzionato riscontro oggettivo.
La Corte, infine, rigetta anche l’ultimo di ricorso a tenore del quale l’incensuratezza e la “condotta specchiata” del sanitario non sono stati ritenuti elementi di per sé meritevoli per giustificare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, secondo quanto previsto dall’art. 62 bis, terzo comma, cod. pen.