Avv. Angelo Russo,
Avvocato Cassazionista,
Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario,
Catania
Con la recentissima sentenza n. 2060 del 29.1.2018 la Corte di Cassazione risolve un contenzioso ultra ventennale e ribadisce alcuni principi in materia di responsabilità dell’equipe medica.
Il fatto
Nel 1999 la signora V.L., su indicazione dei chirurghi T.W. e B.F., veniva sottoposta ad un autoprelievo di sangue presso la E.H. per l’eventualità che, a seguito dell’intervento chirurgico di inserimento di protesi all’anca destra, programmato di lì a poco (tipologia di intervento che comporta abitualmente grosse perdite sanguigne), si rendesse necessario procedere ad una trasfusione.
La signora veniva ricoverata presso la clinica C.d.R., per l’esecuzione dell’intervento chirurgico programmato di applicazione di una protesi all’anca destra.
Successivamente veniva operata dai Dott. W. e B., della cui equipe facevano parte anche il Dott. F.R. (secondo aiuto) e il dott. Z.D. (anestesista).
La paziente, donna sulla cinquantina fino a quel momento apparentemente in ottima salute, che conduceva una normale ed attiva vita familiare, sociale, lavorativa e sportiva, non si riprendeva dall’operazione, presentando nel decorso post-operatorio febbre alta, valori bassissimi di emoglobina e globuli rossi e bianchi in calo.
Dimessa dalla clinica veniva inviata ad una clinica per terapia riabilitativa.
Durante la permanenza in clinica ed anche dopo le dimissioni, avvenute a settembre, lo stato febbrile e di spossatezza proseguirono con un rapido declino.
La paziente fu colpita da numerose infezioni; durante un ricovero emerse che la stessa risultava positiva al test HIV, presumibilmente già presente, ad uno stadio iniziale e silente, prima dell’operazione.
In breve tempo ella perse progressivamente l’udito e la vista, poi si manifestò il sarcoma di Kaposi, terribile e devastante cancro della pelle.
Successivamente la signora V. muore in ospedale, ricoverata nel reparto degli ammalati di AIDS in stadio terminale.
I figli della signora V. agirono, a questo punto, dinanzi al Tribunale di Roma nei confronti sia di tutti i componenti dell’equipe medica, sia di entrambi gli istituti sanitari, quello dove venne eseguito il prelievo precedente all’operazione e quello dove vennero eseguiti gli esami del sangue e l’operazione, nonchè nei confronti del Ga., all’epoca presidente del consiglio di amministrazione delle due cliniche.
A sostegno della domanda precisavano che il prelievo ematico (prima) e l’esecuzione dell’operazione (dopo) nonchè le modalità della degenza e le dimissioni dalla clinica C.d.R. (caratterizzati da integrale assenza di accertamenti e cure nel periodo di degenza pre e post operatoria e dalle dimissioni in grave stato di salute) furono causa o quanto meno costituirono le concause della morte della madre e che tutti i medici nonchè le due strutture sanitarie fossero condannati in solido a risarcire loro tutti i danni conseguenti alla morte della madre.
Il Tribunale di Roma accoglieva solo in modesta parte le domande degli eredi, condannando in solido i medici e le due cliniche al risarcimento del danno nella misura complessiva di 65.000,00 Euro e le compagnie di assicurazioni alla manleva.
Precisava il Tribunale che si trattava di operazione non urgente, programmata per migliorare le condizioni di vita della paziente, e che tutti i professionisti coinvolti dovessero ritenersi responsabili per non essersi attenuti alle regole di prudenza, avendo sottoposto la paziente ad un rischio ingiustificato, in quanto non avrebbero dovuto sottoporre la signora al prelievo per autotrasfusione senza prima eseguire i normali esami del sangue e, una volta eseguite le analisi, qualora fossero emersi valori non nella norma, avrebbero dovuto rinviare l’intervento ed approfondire i valori anomali emersi con ulteriori accertamenti, il che avrebbe consentito di arrivare ad una corretta diagnosi dell’HIV (del quale la signora era già inconsapevolmente affetta quando si presentò in clinica) con mesi di anticipo, sebbene la malattia fosse ancora allo stato latente, consentendo alla V. di sottoporsi ad una idonea terapia ed allungando le sue aspettative di vita.
Pur sottolineando la mancanza di diligenza dei sanitari coinvolti nei termini sopra indicati, il Tribunale escludeva, tuttavia, la sussistenza del nesso causale tra il prelievo per autotrasfusione e l’intervento di impianto di protesi e la slatentizzazione dell’HIV e il successivo decesso della V..
La Corte d’Appello di Roma, pur riconoscendo la colpa dei sanitari nel procedere ad un intervento chirurgico impegnativo su una persona in alterate condizioni di salute, affermò che difettava la prova del nesso di causalità tra i pur doverosi accertamenti sulla salute della paziente che erano stati omessi e la morte o anche la limitazione di aspettativa di vita della signora V., non potendosi affermare con certezza che le indagini diagnostiche, se fossero state svolte, si sarebbero indirizzate verso la ricerca dell’HIV che la signora presentava allo stato latente, e che era esploso dopo l’esecuzione dell’intervento chirurgico e ne avrebbero consentito l’individuazione, e non essendo neppure altamente probabile che, ove scoperto tempestivamente l’HIV, ciò avrebbe allungato le aspettative di vita della paziente.
Gli eredi proposero ricorso per cassazione che venne accolto atteso, da un lato, il nesso di causalità intercorrente tra l’omessa esecuzione di ulteriori accertamenti (che, in ipotesi, avrebbero portato alla scoperta del virus) e la decisione di eseguire un intervento chirurgico (quello di innesto di protesi dell’anca) che necessariamente comporta grande perdita di sangue e, dall’altro, la contraddizione nella quale cade la prima sentenza di appello che, dapprima, (concordando con il tribunale) rileva l’anomala, omessa prosecuzione di accertamenti clinici e di laboratorio (a fronte del quadro nel quale versava la V., i cui “parametri alterati potevano essere suggestivi, per quanto non univoci… della patologia in questione”), nonchè il sicuro dovere di rinviare l’intervento al fine di chiarire la causa di quelle condizioni cliniche ma, successivamente, esclude il nesso di causalità tra l’omessa esecuzione di quei “doverosi” esami e la decisione di procedere comunque all’intervento chirurgico, sul presupposto che non vi fossero elementi certi per stabilire che tali ulteriori accertamenti avrebbero indirizzato gli approfondimenti verso la ricerca del virus ed avrebbero consentito di individuare con apprezzabile anticipo di tempo la presenza della malattia.
Tra le due affermazioni vi è un evidente salto logico, posto che se era doveroso e necessario sospendere l’intervento e proseguire nell’accertamento del compromesso quadro clinico della vittima (tant’è che i medici si assunsero il rischio di procedere all’intervento), le considerazioni relative alla concreta possibilità di giungere alla scoperta del virus HIV e di accertare le aspettative di vita che la stessa signora V. avrebbe avuto dovevano essere posposte ad un momento successivo, che avrebbe presupposto, comunque, la sospensione dell’intervento e lo svolgimento di quegli altri esami che i periti in sede penale ed i consulenti in sede civile avevano indicato, in quel contesto, come necessari e che, invece, non furono eseguiti.
Per effetto della cassazione della sentenza, gli atti venivano rimessi al giudice di merito, non senza osservare che il giudice penale, pur utilizzando un regime probatorio più rigido, era pervenuto a conclusioni del tutto opposte rispetto a quelle della sentenza impugnata.
Il giudizio di rinvio accoglieva, in parte, l’appello principale dei signori D.J., condannando i componenti dell’equipe medica (con esclusione del secondo aiuto, dott. F.) e la casa di cura ove la donna fu operata alla corresponsione ai ricorrenti, in proprio e quali eredi della vittima, della complessiva somma di Euro 121.135,12.
La sentenza di appello puntualizza che l’oggetto del giudizio è circoscritto all’accertamento del nesso causale tra le azioni e le omissioni dei sanitari convenuti e delle case di cura e l’evento lesivo, rappresentato dalla riduzione delle aspettative di vita della V., da commisurare all’entità delle chances sottratte, accertamento da condurre secondo la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”.
Accerta, secondo la richiamata regola del “più probabile che non”, che sussiste il nesso causale tra i comportamenti omissivi menzionati, caratterizzati da imperizia, imprudenza e negligenza (in capo ai medici di fiducia della paziente), sia nella fase pre che post operatoria, e l’omessa diagnosi dell’infezione da HIV già in atto, in quanto le analisi spontaneamente eseguite dalla paziente nell’aprile 1994, ben prima dell’intervento, e sottoposte ai medici, indicavano un valore di piastrine molto inferiore al normale (unito a leucopenia e a valori di VES molto elevati), che avrebbe comportato problematiche sulla guarigione della ferita e del sanguinamento.
Quelle eseguite il 1 luglio 1994 mostravano valori con esse incompatibili, tanto da far concludere ai consulenti che esse fossero sbagliate o non riferibili alla persona della V., e quelle eseguite subito dopo l’operazione tornavano ad evidenziare il quadro che era già emerso ad aprile, che di conseguenza non si poteva mettere in correlazione con l’evento, sopraggiunto, della operazione chirurgica.
La corte concludeva nel senso della doverosità di rinviare l’intervento all’anca per effettuare ulteriori accertamenti, non necessariamente tesi, all’inizio, ad individuare la presenza dell’HIV in paziente non rientrante in alcuna fascia di rischio e che tuttavia, ove fossero stati correttamente approfonditi, avrebbero portato alla scoperta del virus già nel giugno – luglio 1994, il che le avrebbe consentito di intraprendere prima e rispondere meglio alla terapia antiretrovirale e con interferone, praticata solo nel marzo 1995, allungando le sue aspettative di vita.
Avverso la sentenza (la seconda) della Corte di Appello veniva proposto ricorso per cassazione.
La decisione della Corte
Rigettati i primi quattro motivi di ricorsi (ritenuti inammissibili) la Corte ritiene fondato il quinto motivo rilevando la responsabilità della clinica in cui è stato effettuato – senza nessuna preventiva verifica e all’interno di una struttura non autorizzata ad operare come centro di raccolta sangue – un cospicuo prelievo di sangue sulla persona della V., il giorno prima dell’operazione, destinato ad essere utilizzato in caso nel corso dell’operazione si rendesse necessario praticare una trasfusione di sangue alla paziente.
La Corte, sul punto, sottolinea che, a fronte del comportamento colposo e fonte di danni a terzi di medici che operino all’interno di una struttura sanitaria, pubblica o privata che essa sia, a prescindere dall’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato o anche di una collaborazione stabile, la struttura stessa ne risponda a titolo contrattuale.
La responsabilità civile dei medici di fiducia della paziente è stata ampiamente accertata dal giudice di merito.
Nel primo segmento di attività (quello pre – operatorio) essi la sottoposero, all’interno dell’E.H., ad un autoprelievo senza alcuna cautela, in violazione delle più elementari regole di prudenza, senza eseguire una serie di esami del sangue preliminari (tra i quali quelli contenenti i markers dell’epatite) anche al fine di verificare se ella fosse in grado di sottoporsi senza danni per la sua salute ad un cospicuo prelievo di sangue e se quello stesso sangue fosse utilizzabile per una successiva trasfusione, e forse senza neppure esaminare – e comunque senza tenere nella dovuta considerazione – i risultati degli esami ai quali di sua iniziativa si era sottoposta la V. nell’aprile precedente, che mostravano già valori alterati, che avrebbero dovuto sconsigliare l’autoprelievo prima e l’operazione poi. La Corte sottopone a critica l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale “la clinica all’interno della quale fu eseguito il prelievo non incorre in alcuna responsabilità perchè il suo personale non partecipò alla scelta di eseguire l’autotrasfusione e non esaminò lo stato di salute della paziente”.
Assunto errato perchè considera l’attività di gestione di una struttura sanitaria del pari alla gestione di una struttura puramente alberghiera, in cui il gestore risponde solo della pulizia e dell’ordine dei servizi offerti e non deve preoccuparsi (nei limiti anche ad esso imposti dal rispetto delle leggi e dei regolamenti) di quanto avviene all’interno delle camere.
Portando questo ragionamento alle sue estreme quanto naturali conseguenze, le strutture sanitarie non sarebbero chiamate a rispondere neppure se all’interno di esse sanitari non dipendenti, utilizzando dietro l’erogazione di un corrispettivo la sale operatorie, compissero operazioni vietate, integranti illeciti di rilevanza anche penale.
Al contrario, rimarca la Suprema Corte, l’aver ospitato all’interno della propria struttura uno o più medici che abbiano compiuto attività medico-chirurgiche su una paziente, anch’essa accolta all’interno della struttura, senza rispettare le regole di prudenza e provocando alla paziente un danno, è fonte, oltre che di responsabilità diretta dei medici, di responsabilità indiretta nei confronti della danneggiata in capo alla struttura sanitaria, senza che questa possa esimersi da tale responsabilità affermando di non essersi ingerita nelle scelte tecniche o di non aver partecipato alle attività svolte dai responsabili, o di non esser stata neppure portata a conoscenza di esse.
Le Sezioni Unite, peraltro, hanno valorizzato la complessità e l’atipicità del legame che si instaura tra struttura e paziente, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere atteso che, in virtù del contratto che si conclude con l’accettazione del paziente in ospedale, la struttura ha l’obbligo di fornire una prestazione assai articolata, definita genericamente di “assistenza sanitaria”, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori.
Il sesto motivo (relativo alla posizione del secondo aiuto), infine, è stato accolto con alcune precisazioni.
La Suprema Corte non condivide l’affermazione della corte d’appello che esclude ogni responsabilità del secondo aiuto, per essersi egli limitato a partecipare all’intervento fornendo assistenza ai due chirurghi con il compimento di alcune attività materiali (posizionare la paziente sul lettino operatorio, accertare la presenza di limitazioni nei movimenti dell’anca, verificare la completezza dello strumentario e mantenere il campo operatorio accessibile) alle quali non sarebbe riconducibile alcuna responsabilità colposa, “non avendo avuto il F. la possibilità di interloquire sulle scelte da questi adottate e/o di esprimere il proprio dissenso”.
In relazione agli obblighi di diligenza e di prudenza esistenti a carico di ciascun componente dell’equipe medica, in particolare di quelli posti in posizione subordinata, a fronte della scelta stessa di operare, il principio cardine, più volte richiamato, è quello del controllo reciproco sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio.
In tema di colpa professionale, in caso di intervento chirurgico in “equipe”, il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenza scientifiche del professionista medio, non opera in relazione alle fasi dell’intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell’affidamento per cui può rispondere dell’errore o dell’omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui (Cass. n. 27314 del 2017).
Richiamati i detti principi, la responsabilità dei due medici che hanno direttamente operato la paziente è stata affermata non in relazione ad una errata esecuzione dell’intervento chirurgico, ma in relazione ad un comportamento negligente, di non adeguatamente attenta verifica preliminare delle condizioni fisiche in cui versava la paziente, individuabile a mezzo degli esami del sangue, che aveva condotto ad una errata scelta clinica, la scelta appunto di intervenire chirurgicamente, benchè non si trattasse di una operazione necessaria nè urgente, su una paziente in condizioni fisiche alterate, provocandole una perdita di chances di sopravvivenza a fronte della patologia dalla quale era già affetta.
Il secondo aiuto in quanto tale non aveva il compito di operare direttamente, ma era incaricato di compiere alcune operazioni collaterali e preparatorie, atte a mettere i chirurghi in condizioni di operare agevolmente.
Nessun addebito gli è stato mosso in relazione al compimento delle operazioni di sua stretta competenza.
Ciò premesso, secondo la Suprema Corte, il secondo aiuto di una equipe medica non può andare esente da ogni responsabilità solo per aver compiuto correttamente le mansioni a lui direttamente affidate, proprio per il principio di controllo reciproco che esiste in relazione al lavoro in equipe, secondo il quale l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’ equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali.
Deve poi aggiungersi che rientra negli obblighi di diligenza che gravano su ciascun componente di una equipe chirurgica, sia esso in posizione sovra o sottordinata, quello di prendere visione, prima dell’operazione, della cartella clinica del paziente contenente tutti i dati atti a consentirgli di verificare, tra l’altro, se la scelta di intervenire chirurgicamente fosse corretta e fosse compatibile con le condizioni di salute del paziente.
Deve, in conseguenza, escludersi che la diligenza del componente dell’equipe medica in posizione sottordinata si limiti al mero svolgimento delle mansioni affidate senza che sia necessaria una preventiva acquisizione di consapevolezza delle condizioni del paziente nel momento in cui questo viene sottoposto ad operazione.
In particolare, rimarca la Corte di legittimità, dal professionista che faccia parte sia pure in posizione di minor rilievo di una equipe si pretende pur sempre una partecipazione all’intervento chirurgico non da mero spettatore ma consapevole e informata, in modo che egli possa dare il suo apporto professionale non solo in relazione alla materiale esecuzione della operazione, ma anche in riferimento al rispetto delle regole di diligenza e prudenza ed alla adozione delle particolari precauzioni imposte dalla condizione specifica del paziente che si sta per operare.
Solo una presenza professionalmente informata può consentire che egli possa in ogni momento segnalare, anche senza particolari formalità, il suo motivato dissenso rispetto alle scelte chirurgiche effettuate, ed alla scelta stessa di procedere all’operazione.