Avv. Angelo Russo,
Avvocato Cassazionista,
Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario,
Catania
La Corte di Cassazione (sez. III civile, sentenza n. 9179 depositata il 13 aprile 2018) si occupa di un delicato caso nel quale il medico, dopo un parto regolare, segnala alla paziente il possibile sviluppo di eventuali formazioni tumorali maligne tale da suggerire la somministrazione di un farmaco che, comunque, avrebbe comportato il blocco della montata lattea.
A seguito dell’esame istologico, peraltro, veniva esclusa l’ipotesi di patologie tumorali.
I fatti
Fi. Cu., in proprio e quale genitore legale rappresentante della figlia minore An. Gi., ha agito in giudizio nei confronti di M. G. e dell’Azienda Ospedaliera S.A. di T. per ottenere il risarcimento di danni a suo dire causati da trattamenti sanitari inadeguati somministrati dal G., medico in servizio presso l’Ospedale, dove era stata ricoverata in occasione del parto.
Lamentava, in particolare, l’opportunità sul piano terapeutico della somministrazione di un farmaco che, bloccando la montata lattea, le avrebbe impedito l’allattamento naturale della figlia.
Contestava, comunque, che la somministrazione fosse avvenuta in base al consenso informato della paziente.
La domanda è stata rigettata in primo grado dal Tribunale di Torino e, in secondo grado, dalla Corte di Appello di Torino.
La ricorrente denunciava, in Cassazione:
– La mancata valutazione e motivazione in sentenza dei rilievi puntuali e circostanziati mossi dalla difesa alla consulenza tecnica d’ufficio elaborata in primo grado.
– L’errata interpretazione del principio della disponibilità e del prudente apprezzamento della prova in relazione al giudizio conclusivo di “eccesso di prudenza” e alle prove effettivamente offerte al giudice dalle parti e dal ctu.
– L’errata interpretazione del principio del libero convincimento del giudice in relazione al fatto decisivo del dato temporale in cui è stato assunto il farmaco da parte della paziente.
– L’errore nell’interpretazione ed applicazione delle norme e dei principi in tema di consenso informato.
– L’omessa valutazione di fatti decisivi in relazione alla mancata considerazione della condotta tenuta dalla paziente successivamente alla notizia del blocco della montata lattea.
– L’errata interpretazione del libero convincimento del giudice sotto il profilo dell’omessa motivazione.
– Mancata pronuncia in ordine all’intera domanda.
La Decisione della Corte
I motivi di ricorso sono stati dichiarati in parte inammissibili ed in parte infondati.
Per ciò che concerne l’opportunità della somministrazione del farmaco, la Corte di appello aveva accertato – sulla scorta degli esiti della consulenza tecnica di ufficio – che l’indicazione terapeutica, anche se improntata a particolare prudenza, non poteva ritenersi scorretta sul piano medico, in quanto, in considerazione della sintomatologia della paziente, era da ritenersi prevalente l’interesse a tutelare la sua salute, specie in assenza di controindicazioni all’allattamento artificiale, e ciò anche nell’immediato, in attesa dei risultati dell’esame istologico, i quali avrebbero comunque confermato gli effetti positivi della terapia (quanto meno con riguardo al potenziale pericolo di sviluppo di eventuali formazioni tumorali maligne, anche se poi, in concreto, non riscontrate).
Trattandosi di accertamenti di fatto sostenuti da adeguata motivazione (che tiene conto di tutti i fatti storici emergenti dagli atti, non è apparente e non è insanabilmente contraddittoria sul piano logico) non sono censurabili in sede di legittimità.
Non sussiste – prosegue la Suprema Corte – alcuna violazione delle norme sulla valutazione delle prove in quanto la Corte di appello ha correttamente tenuto in considerazione gli elementi probatori disponibili, adeguatamente motivando il suo convincimento.
Sottolinea la Corte che “le critiche che la ricorrente muove ai fondamenti scientifici della consulenza tecnica di ufficio e le sue considerazioni in ordine all’opportunità di attendere i risultati dell’esame istologico prima di somministrare il farmaco costituiscono, in sostanza, una richiesta di nuova e diversa valutazione del materiale probatorio, non ammissibile nella presente sede.”
Aggiunge la Corte di legittimità che il trattamento sanitario in contestazione è consistito nella somministrazione di un farmaco i cui effetti non sono in discussione e che (come è pacifico) venne di fatto assunto autonomamente dalla stessa paziente.
Per quanto riguarda la censura relativa al contestato difetto di consenso informato, la Corte ritiene “il ricorso infondato anche se la motivazione della sentenza impugnata va in parte corretta” dando seguito all’orientamento ormai consolidato che ha riconosciuto l’autonoma rilevanza, ai fini di una eventuale responsabilità risarcitoria, della mancata prestazione del consenso da parte del paziente al trattamento medico.
Sul punto, la Corte riassume alcuni principi di diritto ormai consolidati.
a) la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni:
– Un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti.
– Un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, invocabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute.
La Corte ribadisce, ancora una volta, la legittimità della pretesa, per il paziente, di conoscere con la necessaria e ragionevole precisione le conseguenze probabili (non anche quelle assolutamente eccezionali ed altamente improbabili) dell’intervento medico, al fine di prepararsi ad affrontarle con maggiore e migliore consapevolezza, stante che la nostra Costituzione “sancisce il rispetto della persona umana in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua essenza psicofisica, in considerazione del fascio di convinzioni morali, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive.”
Alla corretta e completa informazione consegue:
– Il diritto, per il paziente, di scegliere tra le diverse opzioni di trattamento medico.
– La facoltà di acquisire, se del caso, ulteriori pareri di altri sanitari.
– La facoltà di scelta di rivolgersi ad altro sanitario e ad altra struttura, che offrano maggiori e migliori garanzie (in termini percentuali) del risultato sperato, eventualmente anche in relazione alle conseguenze post-operatorie.
– Il diritto di rifiutare l’intervento o la terapia – e/o di decidere consapevolmente di interromperla.
– La facoltà di predisporsi ad affrontare consapevolmente le conseguenze dell’intervento, ove queste risultino, sul piano post-operatorio e riabilitativo, particolarmente gravose e foriere di sofferenze prevedibili (per il medico) quanto inaspettate (per il paziente) a causa dell’omessa informazione.
Secondo la Suprema Corte possono, pertanto, prospettarsi le seguenti situazioni:
– Omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico a cui il paziente avrebbe, in ogni caso, scelto di sottoporsi nelle medesime condizioni, hic et nunc: in tal caso, il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente morale e relazionale.
– Omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente.
– Omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento, sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute – da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l’intervento non sarebbe stato eseguito – andrà valutata in relazione alla situazione differenziale tra quella conseguente all’intervento e quella (comunque patologica) antecedente ad esso.
– Omessa informazione in relazione ad un intervento che non ha cagionato danno alla salute del paziente (e che, di conseguenza, sia stato correttamente eseguito): in tal caso, la lesione del diritto all’autodeterminazione costituirà oggetto di danno risarcibile, sul piano puramente equitativo, tutte le volte che, e solo se, il paziente abbia subito le inaspettate conseguenze dell’intervento senza la necessaria e consapevole predisposizione ad affrontarle e ad accettarle, trovandosi invece del tutto impreparato di fronte ad esse.
Secondo la Suprema Corte “condizione di risarcibilità di tale tipo di danno non patrimoniale sarà quella che esso varchi la soglia della gravità dell’offesa secondo i canoni dettati dagli arresti del 2008 di questa Corte (Cass. Sez. U, Sentenze n. 26972 e n. 26975 del 11/11/2008), predicativi del principio per cui il diritto leso, per essere oggetto di tutela risarcitoria, deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento con il principio di solidarietà secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico.”
Il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione (che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, necessario e correttamente eseguito secundum legem artis ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato) potrà conseguire alla allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, onerato della relativa prova, che potrà essere fornita anche mediante presunzioni “fondate, in un rapporto di proporzionalità inversa, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione.”
Ribaditi i superiori principi, la Corte di Cassazione osserva che “nella sentenza impugnata viene chiaramente affermato che dalle prove testimoniali era emerso che il consenso al trattamento era stato espresso esplicitamente dalla paziente (oralmente, come peraltro deve certamente ritenersi possibile, specie in considerazione della situazione concreta e della natura del trattamento stesso), dopo che le erano stati adeguatamente illustrati sia i potenziali rischi che comportava la sua sintomatologia, sia le ragioni che consigliavano la scelta terapeutica, sia le relative conseguenze.”