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Denaro al medico di struttura convenzionata - è concussione - figura 1

Denaro al medico di struttura convenzionata. É concussione?

La Corte di Cassazione (sez. VI Penale, sentenza 17 settembre – 20 ottobre 2020, n. 28952) torna ad occuparsi della questione circa la configurabilità del reato di concussione commesso da un medico di struttura convenzionata.

Autore

Annamaria VenereAvv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.


IL FATTO

All’imputato è stato contestato di aver, in qualità di sanitario che prestava la sua attività professionale di medico chirurgo presso una clinica convenzionata con il Servizio Sanitario Nazionale, costretto S.R., sua paziente affetta da stenosi alla spina dosale, a consegnargli una somma di denaro per il compimento di un intervento chirurgico presso la suddetta struttura.

Il medico, tra il dicembre 2012 e il febbraio 2013, era stato più volte contattato dalla paziente che aveva in cura, la quale richiedeva di essere sottoposta ad intervento chirurgico per le gravi sofferenze patite, e alle sue richieste aveva temporeggiato limitandosi a prescriverle medicinali, così costringendola a promettergli il pagamento della somma non dovuta (trattandosi di intervento a carico del Servizio Sanitario Nazionale) di 1.000,00 Euro.

Assicuratosi la disponibilità del denaro, il medico fissava l’intervento senza neppure visitarla.

Il denaro veniva consegnato dalla figlia della paziente, due giorni dopo l’intervento, una volta che il medico si era assicurato della assenza nella stanza del personale infermieristico.

Il medico propone ricorso per cassazione denunciando:

1) Vizio di motivazione (art. 606 c.p.p., lett. e) in ordine alla valutazione delle prove liberatorie indicate nell’appello e in ordine alle testimonianze di C. , C. , B. e M. .

La sentenza impugnata avrebbe fondato la condanna del medico sull’assunto della pacifica attendibilità della parte civile, senza valutare, almeno su tale punto, le prove testimoniali di segno contrario.

Secondo il ricorrente la Corte di appello avrebbe ritenuto sufficiente la credibilità delle persone offese senza considerare il loro risentimento per la morte della loro congiunta tesi avvalorata dal rilievo che, nella querela, le predette si erano concentrate sugli aspetti professionali piuttosto che sull’episodio concussivo in sé.

Il ricorrente, in particolare, faceva presente che:

  1. a) Il racconto della figlia (quanto all’episodio della dazione dei soldi all’imputato), confermato dalle altre parti civile solo de relato, è stato seccamente smentito dalla infermiera chiamata in causa;
  2. b) L’altra infermiera della clinica (C.A. ) ha smentito di aver assistito o avuto conoscenza di dazioni di denaro all’imputato.

Dati che, nella prospettazione del ricorrente, sono in grado di travolgere la logicità della motivazione.

  1. c) Illogicamente la Corte di appello aveva ritenuto confortata la tesi accusatoria sulla base delle testimonianze di due ex pazienti (M. e B. ) del medico che non avevano subito fatti concussivi, ma che si erano limitati ad una spontanea regalia a titolo di ringraziamento di qualche centinaio di euro.
  2. d) Illogicamente la Corte di appello aveva ritenuto inattendibile la versione fornita dalla ex paziente M. solo perché sproporzionata alle sue entrate e non consentita la sua accettazione dal codice comportamentale dei pubblici dipendenti.
  3. e) Ininfluente a sostenere la tesi accusatoria era il riscontro del pegno degli oggetti, posto che in ogni caso risultava non coincidente la somma ricavata con quella indicata come prezzo della concussione.

2) Violazione di legge in relazione all’art. 317 c.p. quanto alla qualifica soggettiva in capo al ricorrente (art. 606 c.p.p., lett. b).

L’attività svolta dal ricorrente, secondo la tesi difensiva, doveva essere inquadrata in un rapporto esclusivamente privatistico in quanto la prima visita era stata fatta a domicilio e in clinica non vi era alcuna lista di attesa per l’intervento richiesto di guisa che alcun favoritismo e abuso era stato compiuto dal medesimo nel programmare l’intervento pacificamente necessario.

3) Violazione di legge in relazione all’art. 317 c.p., in ordine all’elemento oggettivo del reato (art. 606 c.p.p., lett. b).

Difetta, secondo il ricorrente, nella condotta accertata alcuna forma di costrizione nella consegna del danaro quale contropartita dell’intervento chirurgico.

Era stata la stessa figlia della paziente ad aver affermato che la somma venne “concordata” come compenso per la sua prestazione professionale.

Era comunque emerso che la paziente si era rivolta al medico in quanto la sua vicina M. le aveva raccontato della sua esperienza e della regalia versata spontaneamente.

Alla prima visita il medico aveva escluso un intervento per il peso della paziente e la richiesta sarebbe stata fatta solo durante una telefonata e la consegna sarebbe avvenuta ad intervento effettuato.

Ne consegue, secondo la linea difensiva del medico, un rapporto paritetico tra cliente e professionista, nel quale era stata la S. ad insistere per effettuare l’intervento che poteva effettuare liberamente altrove e nella stessa clinica (nella quale non c’era lista di attesa) e ad effettuare la dazione ad intervento riuscito (il che avvalorerebbe la tesi della spontaneità).

I fatti, invero, andavano qualificati, sin dall’inizio, nell’alveo della induzione indebita ovvero, in caso di errore della vittima nella doverosità delle somme consegnate, in quello della truffa.

4) Violazione di legge in relazione all’art. 62 c.p., n. 4 e art. 323-bis c.p., in trattandosi di fatto di particolare tenuità (art. 606 c.p.p., lett. b).

La Corte di appello avrebbe tralasciato di considerare i motivi di appello relativi al grado dell’offesa e che il reato avrebbe consentito all’imputato di conseguire il modesto profitto di 1.000,00 Euro.

Il ricorrente, inoltre, denuncia la palese illogicità della motivazione là dove ha ritenuto attendibili le dichiarazioni della parte civile F.A. nonostante palesi contraddizioni intrinseche ed estrinseche, rappresentate dalle dichiarazioni dei testi B. e M. (relative a dazioni di regalie a fronte di efficaci prestazioni mediche), da quelle delle infermiere C. e C. (che aveva escluso di aver assistito a dazioni di danaro); dall’ira dimostrata dalle parti civili nei confronti dell’imputato alla morte della congiunta, tanto da richiedere l’intervento della polizia (dato pretermesso dalla Corte di appello e indicato nei motivi di appello); dalla mancanza di un vantaggio immediato per la S. nel pagamento della somma di danaro (non vi era alcuna lista di attesa e alcun favoritismo per il ricovero).

LA DECISIONE

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso.

La prestazione professionale, oggetto dell’imputazione, in ordine alla quale è contestata all’imputato la condotta di abuso costrittivo, riguardava l’effettuazione di un intervento chirurgico presso una clinica accreditata con il Servizio Sanitario Nazionale (di seguito SSN) in regime di convenzione (ovvero i cui oneri economici erano addebitati al SSN, fatta salva la compartecipazione dell’utente con il pagamento del ticket).

Si trattava, pertanto, non del normale sviluppo del rapporto professionale privato (già esistente tra il medico e la paziente) bensì del segmento relativo al ricovero ed intervento della paziente presso una clinica convenzionata, quindi di un rapporto parificato dalla normativa di settore al rapporto pubblico (D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502).

La qualifica pubblicistica del medico che svolge la sua attività professionale presso una struttura convenzionata, rileva la Corte, è stata da tempo affermata dalla giurisprudenza di legittimità.

Nella fattispecie in esame, l’attività delle strutture convenzionate e di coloro che in essa operano trova la sua fonte nella legge istitutiva del servizio sanitario nazionale atteso che “le convenzioni tra il SSN e le case di cura o minori strutture private hanno natura di contratto di diritto pubblico e danno vita a rapporti che si inquadrano nelle concessioni amministrative di pubblico servizio, in quanto con tali convenzioni vengono attribuite a soggetti privati, in funzione integrativa e di supporto della struttura pubblica, attività proprie del servizio sanitario nazionale” (Cassazione SS.UU., n. 7958 del 27.3.1992).

Principi ritenuti applicabili anche a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 502 del 1992, che ha riordinato la disciplina in materia sanitaria, essendosi affermato che “la natura del rapporto tra struttura privata e ente pubblico non è mutata con la nuova disciplina, che resta di tipo concessorio, atteso che la prima, a seguito del provvedimento di accreditamento, viene inserita in modo continuativo e sistematico nell’organizzazione della P.A., venendo investita dello svolgimento di attività funzionale al perseguimento dell’interesse generale alla realizzazione del diritto alla salute” (Cassazione civile SS.UU. n. 16336 del 18.6.2019).

Esclusa, pertanto, la natura privata dell’attività svolta dal medico nella struttura privata accreditata in relazione a prestazioni sanitarie erogate in regime di convenzione, va chiarito quale sia la sua qualifica soggettiva – pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio – stante la rilevanza della questione ai fini della configurabilità del reato di concussione ratione temporis, trattandosi di fatto commesso prima della riforma della L. n. 69 del 2015, che ha (nuovamente) inserito tra i soggetti attivi del delitto de quo l’incaricato di un pubblico servizio.

La qualifica di pubblico ufficiale deve essere, invero, riconosciuta a quei soggetti che (pubblici dipendenti o semplici privati, quale che sia la loro posizione soggettiva) “possono e debbono, nell’ambito di una potestà regolata dal diritto pubblico, formare e manifestare la volontà della pubblica amministrazione oppure esercitare, indipendentemente da formali investiture, poteri autoritativi, deliberativi o certificativi, disgiuntamente e non cumulativamente considerati, mentre sono incaricati di pubblico servizio, a tenore dell’art. 358 c.p., coloro i quali, pure agendo nell’ambito di attività disciplinata nelle forme della pubblica funzione, mancano dei poteri tipici di questa, purché non svolgano semplici mansioni di ordine, nè prestino opera meramente materiale”  (Sez. Unite, n. 7958 del 27.3.1992).

Nel concetto di “poteri autoritativi” rientrano non soltanto i poteri coercitivi, ma tutte quelle attività che sono esplicazione, comunque, di un potere pubblico discrezionale nei confronti di un soggetto, che viene a trovarsi così su un piano non paritetico – di diritto privato – rispetto all’autorità che tale potere esercita.

La nozione dei “poteri certificativi” attiene a tutte indistintamente quelle attività di documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia probatoria, quale che ne sia il grado.

In applicazione di questi principi, si è affermato che “il sanitario che presta la sua opera libero-professionale per una casa di cura convenzionata, in virtù di un rapporto di natura privatistica, è pubblico ufficiale, in quanto partecipe delle pubbliche funzioni che il SSN svolge per il tramite della struttura privata mediante la convenzione.

Egli agisce così per la pubblica amministrazione, concorrendo a formare ed a manifestarne la volontà in materia di pubblica assistenza sanitaria, nonché esercitando in sua vece poteri autoritativi e poteri certificativi con riferimento alla compilazione della cartella clinica, di ricette, impegnative di cura e di ricoveri ed attestazioni di malattie rilevanti nei rapporti di lavoro pubblico e privati, nonché nello status assistenziale o previdenziale del paziente.

Con effetti che incidono quindi su questo, sul medesimo servizio sanitario e su altri enti pubblici, tenuti ad erogare i farmaci e le prestazioni assistenziali o previdenziali prescritte o riconosciute, nonché in relazione alla salute pubblica, sull’intera collettività” (Sez. Unite, n. 7958 del 27/03/1992, Delogu, cit.).

Nel solco di questa linea interpretativa “è stata riconosciuta al medico convenzionato con il SSN la qualifica di pubblico ufficiale in relazione all’attività con la quale egli prescrive esami, svolge la sua attività, indipendentemente dal rapporto fiduciario esistente con il paziente, per mezzo di poteri pubblicistici di certificazione, che si estrinsecano nella diagnosi e nella correlativa prescrizione” (Sez. 6, n. 35836 del 22.2.2007).

Appare corretta, secondo la Suprema Corte, la qualificazione di pubblico ufficiale attribuita all’imputato, quale medico chirurgo operante presso una casa di cura accreditata.

Le contestate condotte costrittive sarebbe state poste in essere dall’imputato abusando di tale pubblica qualità, in base alla quale gestiva un apposito “spazio operatorio” per conto del SSN e con mansioni che non venivano a limitarsi alla sola attività sanitaria, ma implicavano scelte (quanto ai tempi di esecuzione) e poteri certificativi (la cartella clinica), questi ultimi tra l’altro funzionali all’erogazione del rimborso delle prestazioni da parte del SSN.

Fondato è, invece, secondo la Suprema Corte, il motivo con il quale il ricorrente contesta, sotto vari profili, la motivazione in ordine alla affermata responsabilità per il reato contestato.

Se, invero, non appare contestabile la prova della dazione della somma di danaro all’imputato per l’intervento chirurgico eseguito in regime di convenzione con il SSN (in quanto basata su plurimi elementi, seri, gravi e convergenti) a diverse conclusioni deve pervenirsi per la dimostrazione che la ragione di tale dazione fosse da identificarsi nell’abuso costrittivo, che connota la condotta di concussione.

Preliminarmente, quindi, occorre distinguere tra la condotta di costrizione e quella di induzione richiamate rispettivamente dall’art. 317 (come sostituito dalla riforma del 2012) e dall’art. 319-quater c.p.

Fattispecie penali che sono accomunate, oltre che da uno stesso evento (dazione o promessa dell’indebito), da una medesima modalità di realizzazione: l’abuso della qualità o dei poteri dell’agente pubblico, ovvero dalla “strumentalizzazione da parte del soggetto pubblico di una qualità effettivamente sussistente (abuso della sua qualità) o delle attribuzioni ad essa inerenti (abuso dei suoi poteri) per il perseguimento di un fine immediatamente illecito“.

In sostanza, nelle richiamate norme, l’abuso è indicativo dell’esistenza, in capo all’agente pubblico, di un diritto all’uso della qualità o dei poteri, che viene però deviato dalla sua funzione tipica e si atteggia come contrapposto logico dell’uso così come positivamente delineato e, in quanto tale, inclusivo di imprescindibili limiti.

L’abuso non è quindi un presupposto del reato ma integra un elemento essenziale e qualificante della condotta di costrizione o di induzione, nel senso che costituisce il mezzo imprescindibile per ottenere la dazione o la promessa dell’indebito.

L’abuso, in altri termini, è legato da un nesso di causalità con lo stato psichico determinato nel soggetto privato ed è idoneo, in ulteriore sequenza causale e temporale, a provocare la dazione o la promessa dell’indebito.

Quanto in particolare all’abuso di qualità, le Sezioni Unite hanno chiarito che “esso consiste nell’uso indebito della posizione personale rivestita dal pubblico funzionario e, quindi, nella strumentalizzazione da parte di costui non di una sua attribuzione specifica, bensì della propria qualifica soggettiva – senza alcuna correlazione con atti dell’ufficio o del servizio – così da fare sorgere nel privato rappresentazioni costrittive o induttive di prestazioni non dovute.

Ovviamente l’abuso della qualità, per assumere rilievo come condotta costrittiva o induttiva, deve sempre concretizzarsi in un facere (non è configurabile in forma omissiva) e deve avere una efficacia psicologicamente motivante per il soggetto privato; costui cioè deve comunque avvertire la possibile estrinsecazione dei poteri del pubblico agente, con conseguenze per sé pregiudizievoli o anche ingiustamente favorevoli e, proprio per scongiurare le prime o assicurarsi le seconde, decide di aderire all’indebita richiesta.”

Le Sezioni Unite Maldera hanno precisato che “il delitto di concussione viene a caratterizzarsi per l’abuso costrittivo, quale tipico mezzo di coazione, che, attraverso la violenza o, più frequentemente, la minaccia (quale prospettazione di un male o danno ingiusto anche realizzata con toni velati o allusivi), obblighi il soggetto passivo a tenere un comportamento che altrimenti non avrebbe tenuto.

La modalità costrittiva rilevante nel delitto di concussione va enucleata quindi dalla combinazione dei comportamenti tenuti dall’intraneus con il risultato che i medesimi producono, e trova la sua genesi nell’abuso della qualità o dei poteri.”

È il contenuto di tale abuso, che si concretizza, al di là del dato formale, nel prospettare alla vittima un danno ingiusto (contra ius), a integrare la costrizione ed a porre il soggetto passivo in una condizione di sostanziale mancanza di alternativa, vale a dire con le spalle al muro: evitare il verificarsi del più grave danno minacciato, che altrimenti si verificherà sicuramente, offrendo la propria disponibilità a dare o promettere una qualche utilità (danno minore) che sa non essere dovuta (certat de damno vitando).

Deve rimanere, in altri termini, estranea alla sfera psichica e alla spinta motivante dell’extraneus qualsiasi scopo determinante di vantaggio indebito, considerato che, in caso contrario, il predetto non può essere ritenuto vittima agli effetti dell’art. 317 c.p., perché finisce per perseguire, con la promessa o con il versamento dell’indebito, un proprio tornaconto, divenendo co-protagonista della vicenda illecita.

Nell’induzione (che qualifica la diversa fattispecie di cui all’art. 319-quater c.p.) si è invece in presenza dell’alterazione del processo volitivo altrui, che, pur condizionato da un rapporto comunicativo non paritario, conserva, rispetto alla costrizione, più ampi margini decisionali, che l’ordinamento impone di attivare per resistere alle indebite pressioni del pubblico agente e per non concorrere con costui nella conseguente lesione di interessi di importanza primaria, quali l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione.

Si tratta quindi di verificare gli effetti che si riverberano sulla volontà del privato ovvero se quest’ultima, nel suo processo formativo ed attuativo, sia stata “piegata” dall’altrui sopraffazione ovvero semplicemente “condizionata” od “orientata” da pressioni psichiche di vario genere, diverse però dalla violenza o dalla minaccia e prive del relativo carattere aggressivo e coartante.

La tipicità della fattispecie induttiva è, in definitiva, integrata dall’abuso prevaricatore del pubblico agente e dal fine determinante di vantaggio indebito dell’extraneus.

Le Sezioni Unite hanno evidenziato, inoltre, come la corretta qualificazione giuridica del fatto come concussione piuttosto che come induzione indebita vada parametrata anche dal confronto e dal bilanciamento tra i beni giuridici coinvolti nel conflitto decisionale: quello oggetto del male prospettato e quello la cui lesione consegue alla condotta determinata dall’altrui pressione.

Le Sezioni Unite, sul punto, hanno fatto l’esempio di una condotta concussiva, richiamando quella del primario dell’unità operativa di cardiochirurgia di una struttura pubblica, il quale, per operare personalmente e con precedenza su altri un paziente, pretenda dal medesimo, allarmandolo circa l’urgenza dell’intervento “salvavita“, una certa somma di denaro.

In tal caso il paziente, accondiscendendo alla richiesta del medico, pur assicurandosi un trattamento di favore rispetto ad altri pazienti non disposti a cedere all’abuso, è gravemente condizionato dalla componente coercitiva evincibile dall’intero contesto (l’intervento al cuore potenzialmente salvifico, condizionato al pagamento indebito, omettendo il quale, il paziente avverte di esporre a grave rischio la propria vita).

In continuità con tali principi, la Suprema Corte ha ravvisato “l’abuso costrittivo nella condotta del dirigente ospedaliero che aveva subdolamente prospettato alla paziente che intendeva sottoporsi ad un intervento di interruzione di gravidanza l’esistenza di impedimenti burocratici e difficoltà organizzative presso la pubblica struttura per dare forza alle sue pretese di dirottare la stessa, dietro pagamento del suo compenso, al suo studio privato. In tal caso la paziente aveva subito una brutale forma di pressione, posta di fronte all’alternativa di subire un male ingiusto, consistente in un danno alla sua salute e alla sua riservatezza se non avesse accettato l’unica soluzione prospettata come praticabile di sottoporsi ad un aborto clandestino a pagamento nello studio privato” (Sez. 6, n. 13411 del 5.3.2019).

Nel caso in esame, secondo il Giudice di legittimità, la Corte di appello ha semplicisticamente richiamato i suddetti principi, senza esaminare il contesto in cui la vicenda si è articolata, per inferirne che la persona era stata “costretta” al pagamento della somma indebita in quanto posta di fronte all’alternativa cruciale di continuare a soffrire o di essere operata dall’imputato, pagando a questi una somma di danaro per una prestazione a lei dovuta.

La Corte, peraltro, sottolinea che per le prestazioni farmaceutiche, specialistiche e ospedaliere l’accesso è subordinato ad apposita prescrizione, proposta o richiesta compilata sul modulario del Servizio sanitario nazionale (D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 8-bis) da sanitario operante per conto di tale servizio.

Pertanto, venendo alla vicenda in esame, ai fini dell’intervento specialistico era pur sempre necessaria una proposta di ricovero da parte di un medico prescrittore del SSN (medico ospedaliero, medico di base, medico della c.d. guardia medica).

Su tale punto la sentenza del Tribunale e della Corte di Appello nulla dicono.

Tale circostanza, invece, assumeva rilievo al fine della prospettazione dell’alternativa sofferenza – intervento dietro pagamento, posto che la necessità dell’intervento doveva (come poi lo è stato) essere in ogni caso stabilita, per l’accesso al SSN, da un medico prescrittore.

Quanto poi alle modalità di effettuazione dell’intervento specialistico, va considerato che le Regioni garantiscono le prestazioni sanitarie attraverso soggetti “accreditati” (strutture autorizzate, pubbliche o private e i professionisti che ne facciano richiesta – sulla base di appositi accordi contrattuali).

In tal modo è ampliata la piattaforma dei servizi sanitari offerti all’utente da parte del SSN, così da evitare tendenzialmente i tempi di attesa.

Le strutture accreditate non sono, tuttavia, libere di effettuare le prestazioni sanitarie con la mera presentazione della richiesta sul modulario SSN, ma devono attenersi – per ragionevoli limiti della spesa pubblica – al volume di prestazioni che il SSN ha programmato per la struttura o per il professionista privato accreditato.

Gli appositi accordi contrattuali definiscono infatti i programmi di attività con la indicazione dei volumi (in termini di budget) e delle tipologie di prestazioni erogabili e la remunerazione corrispettiva.

Solo nell’ambito del programma definito dall’accordo, il soggetto accreditato assume la qualifica di gestore del servizio pubblico.

In tale prospettiva, gli utenti che intendano scegliere per il loro ricovero, proposto con ricetta SSN, una determinata struttura privata accreditata possono ottenere soddisfazione a seconda del raggiungimento o meno del volume massimo di prestazioni erogabili da tale struttura.

Nel caso in esame, in sede di merito è stato accertato che l’imputato operava in una struttura privata convenzionata come libero professionista utilizzando un determinato “spazio operatorio assegnato” dalla clinica, che poteva gestire con autonomia quanto ai tempi necessari di esecuzione degli interventi e senza lista di attesa.

Ebbene, anche con riferimento a tale situazione, la Corte di appello non ha spiegato, pur a fronte di precise contestazioni della difesa, perché l’intervento presso la struttura accreditata, una volta ottenuta la proposta di ricovero su ricetta SSN, fosse “l’unica speranza” per la paziente, là dove era pur sempre possibile il ricorso a strutture pubbliche o comunque ad altre cliniche private accreditate.

Non sono invero emerse – né la Corte di appello ne ha fatto cenno – forme di strumentalizzazione da parte dell’imputato nella gestione della malattia della persona offesa (l’imputazione contestava all’imputato di aver temporeggiato sui tempi di effettuazione dell’intervento), tali da creare una situazione di pressione sulla paziente in funzione della soluzione “salvifica” dell’intervento presso la struttura convenzionata.

Tale ultimo aspetto della vicenda, secondo la Suprema Corte, si connette ad un altro profilo critico della motivazione in ordine all’accertamento del fatto-reato.

L’abuso costrittivo ad opera dell’imputato è stato, invero, ricostruito attraverso le testimonianze dei parenti della paziente, deceduta prima dell’inizio delle investigazioni.

In particolare, è la figlia della paziente a riferire di come la stessa le abbia raccontato del contenuto della proposta avanzata dall’imputato nel corso di una telefonata (“doveva operarsi ma il problema erano i soldi“).

È poi il marito della paziente a riferire che la donna gli aveva confidato in lacrime della medesima telefonata fatta dall’imputato per richiedere denaro per operarla.

Il tema della attendibilità delle loro testimonianze si doveva quindi “confrontare non solo con i principi in tema di valutazione della prova dichiarativa proveniente dalla parte civile, ovvero da persona portatrice di pretese economiche – che richiedono una verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto e, qualora risulti opportuna l’acquisizione di riscontri estrinseci” (ex multis, Sez. U, n. 41461 del 19.7.2012) – ma anche significativamente con la natura indiretta o mediata della prova stessa.

Nel caso in esame, l’impossibilità di esaminare la fonte diretta (e la mancanza in ogni caso di dichiarazioni direttamente acquisite dalla stessa nel corso delle indagini preliminari) se non determinava alcuna limitazione al valore probatorio delle testimonianze indirette – che devono essere configurate, al pari di ogni altra prova storica, come rappresentazione dello stesso fatto che si assume di voler provare, sia pure soggettivamente mediata attraverso il testimone indiretto –  imponeva tuttavia al giudice di apprezzare con particolare attenzione e prudenza il mezzo di prova, nella misura in cui attraverso tali testimonianze mediate doveva essere ricostruito lo stato di costrizione della persona offesa.

Era quindi necessaria sul punto una adeguata motivazione, nella specie mancante.

E ciò vale anche con riferimento a quei dati distonici quanto alle modalità costrittive adoperate, provenienti dalle testimonianze di coloro che erano venuti in “diretto contatto” con l’imputato, liquidate in modo semplicistico dalla Corte di appello come inattendibili.

In particolare, la teste M.M. “aveva consigliato la persona offesa di rivolgersi al Dott. R. , per le sue capacità professionali, precisando che ad avvenuta guarigione gli aveva consegnato 400 Euro a titolo di pura liberalità”.

Suggerimento rivolto dalla M. anche al cognato della persona offesa, B.E. , che aveva riferito di “aver appreso da costei che per farsi operare dal R. bisognava consegnargli una somma di danaro extra, che costui aveva poi effettivamente versato al predetto senza essere stato sollecitato”.

In definitiva, le loro testimonianze, per come sintetizzate in motivazione, dimostravano che “il dottore R. era stato scelto e consigliato per le sue capacità professionali e che la dazione della somma di danaro in suo favore – al di là della spontaneità o meno della stessa – era stata riconnessa alla possibilità di essere operati da lui stesso, mentre nulla hanno riferito in merito al collegamento del medico alla struttura convenzionata”.

Sulla base delle superiori considerazioni la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso con rinvio alla Corte di Appello per un nuovo giudizio idoneo a colmare le carenze motivazionali riscontrate.

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