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In un precedente contributo si è avuto modo di affrontare le prime questioni afferenti l’obbligatorietà della vaccinazione anti COVID-19, prevista e disciplinata dall’art. 4 del Decreto Legge n. 44/2021 per tutte le professioni e gli operatori del comparto sanitario e ciò, naturalmente, per la variegata compresenza di valori etici e giuridici, diffusamente (e sovente con argomentazioni affatto estranee al diritto) presente in tutti i settori della comunicazione.

Autore

vaccinoAvv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.

Non sarebbe stato difficile prevedere, peraltro, che i Tribunali si sarebbero trovati, ben presto, ad affrontare la problematica sollevata dai ricorsi con i quali, a vario titolo, settori del comparto sanitario avrebbero contestato la legittimità delle previsioni normative circa la vaccinazione.

Ad un primo esame, la risposta della Magistratura Amministrativa (pur con i dovuti distinguo) sembra, pressoché univocamente, indirizzata nel ritenere la legittimità dei provvedimenti delle strutture sanitarie che hanno ordinato l’allontanamento dal luogo di lavoro e la sospensione della retribuzione per il personale privo del requisito essenziale per la prestazione dell’attività lavorativa rappresentato dalla mancata accettazione a sottoporsi alla vaccinazione Covid 19.

Con la recentissima sentenza n. 261 del 10.9.2021 il T.A.R. Trieste (Friuli-Venezia Giulia) si è occupato, funditus, della questione.

Per quanto attiene ai profili tecnico-scientifici delle censure (vale a dire le generali considerazioni sulla sicurezza e sull’efficacia dei vaccini contro il SARS-CoV-2), il Tribunale rileva che “non si può prendere in considerazione l’alluvionale quantità di documenti, della più varia natura, provenienza ed attendibilità (che spaziano da interviste ed opinioni di esperti, ad articoli di stampa ufficiale e non, fino a studi scientifici di decine e decine di pagine), depositati dalla ricorrente.

Nell’ambito di una disciplina caratterizzata, per il suo stesso statuto epistemologico, da un ineliminabile margine di incertezza, il giudice non può essere chiamato a “pesare” e valutare ogni singola opinione o fonte informativa, né avrebbe il potere e la competenza per farlo, ma deve fondare il proprio convincimento sulle informazioni ufficiali, veicolate dalle competenti autorità pubbliche, nello specifico l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS).”

Con la sottoposizione alla vaccinazione di gran parte della popolazione nazionale (39.072.107 persone, pari al 72,34% della popolazione di età superiore ai 12 anni, alla data dell’8.9.2021) – prosegue il Tar – nonché grazie alla diffusione capillare degli strumenti diagnostici “si è resa disponibile un’enorme mole di dati ed evidenze statistiche. Il livello di conoscenze acquisite quanto ai profili di efficacia e sicurezza dei vaccini contro il SARS-CoV-2 rende dunque la presente vicenda per nulla sovrapponibile a quella relativa all’uso terapeutico dell’idrossiclorochina (Cons. Stato, sez. III, 11 dicembre 2020, n. 7097), nell’ambito della quale il giudice, in un contesto di grande incertezza scientifica, aveva ritenuto non potersi applicare rigidamente i principi propri dell’evidence based medicine.”

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Con il primo motivo di ricorso, invero, si censura la disposizione applicata “sotto il profilo della carenza di oggetto e dell’impossibilità di raggiungimento dello scopo e ciò in quanto non potrebbe contestarsi una “inosservanza dell’obbligo vaccinale” (art. 4, comma 6 del d.l. 44 del 2001) in mancanza di sostanze propriamente efficaci contro l’infezione da SARS-CoV-2 e quindi idonee al perseguimento dello scopo sotteso all’obbligo. Di conseguenza, sarebbe impossibile rinvenire un interesse superindividuale e pubblicistico a supporto della misura legislativa.”

Per il Giudice Amministrativo “è errato il presupposto fattuale di entrambi gli argomenti, cioè quello secondo cui i prodotti in uso nella campagna di vaccinazione sarebbero inefficaci nel prevenire l’infezione da SARS-CoV-2, ma agirebbero solo sui relativi sintomi (quindi in chiave di prevenzione della malattia). Evidenze opposte emergono, infatti, dall’ultimo bollettino sull’andamento dell’epidemia prodotto dall’ISS, organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale, istituzionalmente investito – tra le altre – delle funzioni di ricerca e controllo in materia di salute pubblica (art. 1 del relativo Statuto, approvato con D.M. 24.10.2014).”.

Il documento cui si fa riferimento è liberamente consultabile online presso il sito internet dell’ente (https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/Bollettino-sorveglianza-integrata-COVID-19_1-settembre-2021.pdf) e considera i dati relativi a tutti i casi di infezione da virus SARS-CoV-2 registrati nel periodo 4 aprile – 31 agosto 2021, confermati tramite positività ai test molecolari e antigenici.

Esso conclude riconoscendo che “l’efficacia complessiva della vaccinazione incompleta nel prevenire l’infezione è pari al 63,2% (95%IC: 62,8%-63,5%), mentre quella della vaccinazione completa è pari al 78,1% (95%IC: 77,9%-78,3%). Questo risultato indica che nel gruppo dei vaccinati con ciclo completo il rischio di contrarre l’infezione si riduce del 78% rispetto a quello tra i non vaccinati“.

Può affermarsi dunque – rileva il Tar – “con l’evidenza dei dati statistici, che la vaccinazione ha efficacia preventiva, oltre che dei sintomi della malattia, anche della trasmissione dell’infezione”, sottolineandosi, peraltro, che “il ragionamento della ricorrente non sarebbe comunque condivisibile laddove afferma che un’eventuale efficacia preventiva della sola malattia confinerebbe la scelta vaccinale del sanitario in una dimensione strettamente individuale e quindi in nessun modo coercibile.”

L’interesse a prevenire lo sviluppo della malattia da Covid-19 in capo agli operatori sanitari, nel contesto dell’emergenza pandemica, assume – secondo il Giudice – un’indubbia valenza pubblicistica, giacché garantisce la continuità delle loro prestazioni professionali e, quindi, l’efficienza del servizio fondamentale cui presiedono e, sotto altro profilo, “è di valenza pubblicistica anche l’interesse a mitigare l’impatto sul SSN – in termini, soprattutto, di ricoveri e occupazione delle terapie intensive – che potrebbe comportare l’incontrollata diffusione della malattia da Covid-19 in capo a soggetti naturalmente esposti, in misura maggiore rispetto alla media, al rischio di contagio e che costituiscono un insieme numericamente considerevole della popolazione nazionale (dai dati ISTAT 2019 si contano nel nostro paese 241.945 medici, tra generici e specialisti, 51 954 odontoiatri, 17.253 ostetriche, 367.684 infermieri, 75.000 farmacisti, senza contare OSS, dipendenti di RSA e altri operatori di interesse sanitario).”

profilassi vaccinale

Del pari privo di fondamento è il secondo motivo di ricorso col quale si afferma che “l’obbligo sancito dall’art. 4 del d.l. 44 del 2021, avendo ad oggetto un trattamento sanitario sperimentale, contrasterebbe con la Costituzione e con una serie di norme di fonte sovranazionale che tutelano la dignità umana e il diritto ad esprimere un consenso informato.”

Anche in questo caso è errata la premessa del ragionamento (cioè quella secondo cui i vaccini attualmente disponibili si troverebbero ancora in fase di sperimentazione) atteso che i quattro prodotti ad oggi utilizzati nella campagna vaccinale sono stati invece regolarmente autorizzati dalla Commissione, previa raccomandazione dell’EMA, attraverso la procedura di autorizzazione condizionata (c.d. CMA, Conditional marketing authorisation), disciplinata dall’art. 14-bis del Reg. CE 726/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio e dal Reg. CE 507/2006 della Commissione.

Si tratta – precisa il Tar – di un’autorizzazione che può essere rilasciata anche in assenza di dati clinici completi, “a condizione che i benefici derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari“.

Il carattere condizionato dell’autorizzazione non incide, peraltro, sui profili di sicurezza del farmaco (dal sito dell’ISS, che richiama a sua volta quello dell’EMA: “una autorizzazione condizionata garantisce che il vaccino approvato soddisfi i rigorosi criteri Ue di sicurezza, efficacia e qualità, e che sia prodotto e controllato in stabilimenti approvati e certificati in linea con gli standard farmaceutici compatibili con una commercializzazione su larga scala“), né comporta che la stessa debba essere considerata un minus dal punto di vista del valore giuridico, ma impone unicamente al titolare di “completare gli studi in corso o a condurre nuovi studi al fine di confermare che il rapporto rischio/beneficio è favorevole“.

La CMA è, peraltro, uno strumento collaudato e utilizzato già diverse volte prima dell’emergenza pandemica, come attesta il report disponibile sul sito istituzionale dell’EMA, relativo ai primi dieci anni di utilizzo della procedura: nel periodo di riferimento – dal 2006 al 2016 – sono state concesse ben 30 autorizzazioni in forma condizionata, nessuna delle quali successivamente ritirata per motivi di sicurezza (https://www.ema.europa.eu/documents/report/conditional-marketing-authorisation-report-ten-years-experience-european-medicines-agency_en.pdf).

Anche in questa forma – prosegue l’iter argomentativo del Giudice – “l’autorizzazione si colloca a valle delle usuali fasi di sperimentazione clinica che precedono l’immissione in commercio di un qualsiasi farmaco, senza alcun impatto negativo sulla completezza e sulla qualità dell’iter di studio e ricerca. Al contrario, la ricerca del vaccino contro il Covid-19, divenuta una priorità assoluta per tutte le potenze mondiali, ha potuto beneficiare di ingenti risorse umane ed economiche, di procedure valutative rapide e ottimizzate (c.d. rolling review), della partecipazione di un elevatissimo numero di volontari “circa dieci volte superiore a quello di studi analoghi per lo sviluppo di altri vaccini” (si vedano le FAQ dell’Aifa, prodotte sub doc. 7 dall’amministrazione).”

La “sperimentazione” dei vaccini si è dunque conclusa con la loro autorizzazione all’immissione in commercio, all’esito di un rigoroso processo di valutazione scientifica e non è corretto – sottolinea fermamente il Giudice – affermare che “la sperimentazione sia ancora in corso solo perché l’autorizzazione è stata concessa in forma condizionata” sicchè l’equiparazione dei vaccini a “farmaci sperimentali“, dunque, è frutto di “un’interpretazione forzata e ideologicamente condizionata della normativa europea.”

Nessuna attinenza con la questione della sicurezza dei vaccini ha poi – prosegue il Tar – il c.d. “scudo penale” concesso agli operatori somministranti dall’art. 3 del d.l. 44 del 2021.

Secondo la relazione illustrativa, la disposizione “è espressione dei principi generali dell’imputazione soggettiva in materia di responsabilità penale per colpa e, in un’ottica di una maggiore certezza giuridica, mira a rassicurare il personale sanitario e in genere i soggetti coinvolti nelle attività di vaccinazione“; la finalità è dunque quella di evitare che “la prospettiva di incorrere in possibili responsabilità penali…” possa “ingenerare allarme tra quanti sono chiamati a fornire il proprio contributo al buon esito della campagna di vaccinazione nazionale…“.

L’intervento del legislatore si giustifica, dunque, “in chiave eminentemente simbolica, per la volontà di scongiurare atteggiamenti di medicina difensiva che potrebbero ostacolare e ritardare la campagna vaccinale.”.

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Dal punto di vista strettamente giuridico la norma non sembra presentare elementi di particolare innovatività giacché i presupposti cui ricollega l’operatività dell’esimente (“quando l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione“) altro non delineano che una condotta conforme alle norme cautelari specifiche che naturalmente presiedono all’attività di somministrazione del vaccino.

Deve dunque “rifiutarsi una strumentalizzazione della norma come indiretto riconoscimento della natura sperimentale del vaccino o della sua particolare pericolosità.

Quanto al profilo relativo alla natura discriminatoria della misura e alla sua contrarietà con il Reg. UE 2021/953, il Tar rileva che quest’ultimo disciplina il “certificato COVID digitale dell’UE” nel quadro della libera circolazione delle persone nel territorio degli stati membri e appare del tutto estraneo alla fattispecie.

Al citato considerando numero 36 – che peraltro, nel testo italiano fa riferimento ai soggetti non vaccinati “per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti COVID-19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate” – non può quindi attribuirsi il preteso valore interpretativo.”

Con il terzo motivo, la ricorrente contesta la ragionevolezza della disposizione, nella parte in cui fa conseguire alla mancata sottoposizione al vaccino la sospensione dall’esercizio della professione e quindi la radicale impossibilità di ottenere un reddito.

Non si ravvisa – secondo il Tar – alcun difetto di ragionevolezza della disposizione atteso che “del tutto giustificata appare l’individuazione dei soggetti cui l’obbligo è riferito: “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario” entrano quotidianamente in relazione con una collettività indifferenziata, composta anche di individui fragili o in gravi condizioni di salute, che non può scegliere di sottrarsi al contatto, né informarsi sullo stato di salute dei sanitari e sulla loro sottoposizione alla profilassi vaccinale.

Quanto al bilanciamento di interessi sotteso alla misura, si ritiene che la primaria rilevanza del bene giuridico protetto, cioè la salute collettiva, giustifichi la temporanea compressione del diritto al lavoro del singolo che non voglia sottostare all’obbligo vaccinale: ogni libertà individuale trova infatti un limite nell’adempimento dei doveri solidaristici, imposti a ciascuno per il bene della comunità cui appartiene (art. 2 della Cost.)”

Dal punto di vista della proporzionalità, si evidenzia – sottolinea il Tar – che l’art. 4 del d.l. 44 del 2021 “prevede comunque un meccanismo di esenzione dall’obbligo vaccinale, per i casi di “accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale”, e che la sospensione, anche nelle ipotesi di permanente e ingiustificato inadempimento, ha natura temporanea, estendendosi “fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”.

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Le conseguenze negative derivanti dall’inadempimento dell’obbligo vaccinale, dunque, sono scongiurate in caso di accertata impossibilità di sottoporsi al vaccino e, in ogni caso, temporalmente predeterminate.

Con il quarto motivo, la ricorrente censura la carenza dei presupposti per imporre con legge un trattamento sanitario (art. 32 Cost.) e ciò in quanto l’obbligo vaccinale, in particolare, “sacrificherebbe in modo rilevante il diritto fondamentale alla salute di ciascun individuo, senza al contempo tutelare la salute collettiva, risultando strumento inidoneo alla prevenzione generale dei contagi.”

Il Tar precisa che “le condizioni necessarie all’imposizione di una vaccinazione obbligatoria sono state di recente ribadite dalla Corte costituzionale (Corte cost., 18 gennaio 2018, n. 5), che ha dichiarato la conformità a Costituzione delle dieci vaccinazioni imposte ai minori fino a sedici anni di età con il d.l. 73 del 2017 (convertito in l. 119 del 2017).

Secondo la Corte, “la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990)“.

Tutti e tre i presupposti, invero, sussistono nel caso in esame.

Quanto all’inesistenza di conseguenze negative per chi è sottoposto al trattamento, che vadano oltre la normalità e la tollerabilità (seconda condizione), si deve partire dal presupposto che il vaccino, come tutti i farmaci, non può essere considerato del tutto esente da rischi.

Il giudizio in questione deve dunque guardare ai profili di sicurezza dei vaccini contro il Covid-19 disponibili sul mercato e al favorevole rapporto costi/benefici della loro somministrazione su larga scala.

Il monitoraggio costante di questi aspetti compete al sistema di farmacovigilanza, cui è preposta l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), che raccoglie e valuta tutte le segnalazioni di eventi avversi.

I dati raccolti all’esito di tali attività sono liberamente consultabili da chiunque sul sito internet dell’ente, oltre ad essere esposti e dettagliatamente analizzati in rapporti pubblicati periodicamente.

Quanto, in particolare, alla farmacovigilanza sui vaccini Covid-19, con i dati aggiornati al 26.7.2021 (e ricavati dalla somministrazione di 65.692.591 dosi di vaccino) gli episodi sfavorevoli verificatisi dopo la somministrazione, a prescindere dalla riconducibilità alla stessa dal punto di vista causale, sono stati 84.322, con un tasso di segnalazione (misura del rapporto fra il numero di segnalazioni inserite nel sistema di Farmacovigilanza e numero di dosi somministrate) – pari a 128 ogni 100.000 dosi.

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Di queste, solo il 12,8% ha avuto riguardo ad eventi gravi (con la precisazione che ricadono in tale categoria, definita in base a criteri standard, conseguenze talvolta non coincidenti con la reale gravità clinica dell’evento).

Di tutte le segnalazioni gravi (16 ogni 100.000 dosi somministrate), solo il 43% di quelle esaminate finora è risultata correlabile alla vaccinazione.

Si tratta – rimarca il Tar – “di dati comparabili a quelli emersi in esito all’attività di farmacovigilanza condotta sugli altri vaccini esistenti (alcuni dei quali già oggetto di somministrazione obbligatoria ai sensi del d.l. 73 del 2017), che sono parimenti consultabili sul sito dell’AIFA, nello specifico rapporto (https://www.aifa.gov.it/documents/20142/241052/Rapporto_Vaccini_2019.pdf).”

Le risultanze statistiche evidenziano dunque l’esistenza di un bilanciamento rischi/benefici assolutamente accettabile.

I danni conseguenti alla vaccinazione per il SARS-CoV-2 devono ritenersi, considerata l’estrema rarità del verificarsi di eventi rari e correlabili, rispondenti ad un criterio di normalità statistica.

L’esistenza di un meccanismo indennitario per l’ipotesi di danni ulteriori (terza condizione), esso è previsto – sottolinea il Tar – dalla legge 210 del 1992, che riconosce il diritto alla corresponsione di indennizzo da parte dello Stato a fronte di ogni “menomazione permanente della integrità psico-fisica” conseguente ad una vaccinazione obbligatoria.

Tale deve senz’altro considerarsi, per gli operatori sanitari, la vaccinazione prescritta dall’art. 4 del d.l. 44 del 2021.

A ciò si aggiunga che il campo applicativo dell’indennizzo è stato comunque esteso dalla Corte costituzionale anche alle vaccinazioni c.d. “raccomandate” (Corte cost., 23 giugno 2020, n. 118): ciò che rileva è l’obiettivo di tutela della salute collettiva attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale, non invece lo specifico strumento – obbligo o raccomandazione – adoperato a tal fine.

La menzionata sentenza n. 5 del 2018 della Corte Costituzionale riconosce, dunque, il preminente rilievo del diritto alla salute nella sua dimensione collettiva, rispetto alla libertà di autodeterminazione dei singoli.

Afferma, infatti, che pur riscontrandosi oggi una “più spiccata sensibilità per i diritti di autodeterminazione individuale anche in campo sanitario” (par. 8.2.3), che ha portato a prediligere politiche vaccinali basate sulla sensibilizzazione e sulla raccomandazione, “il ricorso alla dimensione dell’obbligo è costituzionalmente legittimo quando lo strumento persuasivo appaia carente sul piano dell’efficacia (par. 8.2.4) rispetto alla situazione da fronteggiare in concreto.”

L’obbligo vaccinale ampio e generalizzato previsto dal d.l. 73 del 2017 è stato ritenuto dalla Corte strumento ragionevole e adeguato a fronteggiare una situazione di “flessione preoccupante delle coperture“, che non presentava certo i caratteri di gravità dell’attuale situazione pandemica.

Traslando il ragionamento alle presenti vicende, non pare – precisa il Tar – ipotizzabile l’incostituzionalità di una disposizione che, nel contesto di un’emergenza sanitaria senza precedenti, introduce un obbligo della vaccinazione riferito ad una determinata categoria professionale, particolarmente esposta al contagio e a divenire veicolo di trasmissione del virus.

Merita, infine, di essere sottolineato come la Corte si sia già espressa in termini critici nei confronti della dilagante disinformazione in materia vaccinale e in particolare della “convinzione che le vaccinazioni siano inutili, se non addirittura nocive: convinzione, si noti, mai suffragata da evidenze scientifiche, le quali invece depongono in senso opposto“.

Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta un vizio di motivazione dell’atto, ancora una volta partendo dal presupposto – su cui già si è detto – della natura sperimentale del vaccino, che imporrebbe un onere giustificativo rafforzato.

Non pare possibile imputare – rileva il Tar – al provvedimento impugnato vizi riconducibili alla violazione del consenso informato, che sarebbe stato acquisito al momento della somministrazione del farmaco (ma la ricorrente non si è mai presentata all’appuntamento fissato d’ufficio dall’Azienda sanitaria).

L’atto, invero, si limita ad accertare il fatto oggettivo del mancato adempimento all’obbligo sancito dall’art. 4, comma 1 del d.l. 44 del 2021 e lo fa in maniera esaustiva, ricapitolando – con puntuale riferimento ai diversi atti endoprocedimentali – tutti i passaggi dell’iter previsto dalla legge.

Nell’ambito di un procedimento dettagliatamente disciplinato e improntato a celerità, “l’amministrazione non può essere tenuta a dare risposta a contestazioni che fuoriescono dal perimetro delle circostanze valutabili, tanto più se evidentemente pretestuose – si veda ad esempio quella con cui la ricorrente richiede di indicare “quale sostanza intendete inocularmi allo scopo della prevenzione del virus SARS-CoV-2, dato che le quattro sostanze allo stato ammesse in Italia in via condizionata (Comirnaty di Pfizer/BioNTech, Moderna, AstraZeneca/Vaxzevria e Janssen di Johnson e Johnson) non prevengono l’infezione con il virus SARS-CoV-2.

Del pari non incombe sull’amministrazione “il dovere di accertare la ricorrenza di eventuali ragioni di esenzione in concreto dall’obbligo, essendo compito degli interessati illustrare, nei termini e nelle modalità di legge (cfr. art. 4, commi 2 e 5), possibili cause ostative documentate.”

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Con il sesto motivo la ricorrente lamenta “la mancata considerazione del proprio stato di immunità naturale, rispetto al quale produce specifica documentazione (referto di test anticorpale del -OMISSIS-”).

Il motivo, secondo il Tar, è infondato in quanto “il referto medico prodotto costituisce, in verità, prova dell’esatto contrario di quanto sostenuto nel ricorso, attestando la radicale assenza di risposta immunitaria rispetto al SARS-CoV-2 e smentendo l’affermazione circa una pregressa (pur asintomatica) esposizione al virus. I valori di anticorpi IgG riscontrati dal test -OMISSIS- si collocano, infatti, macroscopicamente al di sotto della soglia minima di riferimento ai fini del giudizio di positività, come illustrata nello stesso referto (pari rispettivamente a 50 AU/ml e 7.1. BAU/ml).”

In conclusione sembra potersi affermare, con un ragionevole grado di certezza, che l’approccio del Giudice Amministrativo sia orientato a ritenere pienamente legittimi i provvedimenti adottati dalle strutture sanitarie in applicazione del più volte citato art. 4 Decreto Legge n. 44/2021.

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Sempre crescente attenzione solleva la delicatissima questione dell’obbligatorietà della vaccinazione anti COVID-19, prevista e disciplinata dall’art. 4 del Decreto Legge n. 44/2021 per tutte le professioni e gli operatori del comparto sanitario, per la variegata compresenza di valori etici e giuridici.

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Avv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.

Premesso che la disposizione vede la sua operatività temporalmente limitata sino al 31 dicembre 2021 e, comunque, riferita al solo settore della sanità, essa determina rilevanti conseguenze sul rapporto di lavoro per coloro che volessero rifiutare la vaccinazione.

L’art. 4 comma 6 prevede, specificamente, che l’inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte di coloro che “svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche o private, nelle farmacie o parafarmacie e negli studi professionali” determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.

Il successivo comma 8 prevede che “il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse […], con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio. Quando l’assegnazione a mansioni diverse non è possibile, per il periodo di sospensione […], non è dovuta la retribuzione, emolumento, comunque denominato”.

L’obbligatorietà dei vaccini e la correlata questione della legittimità dell’art. 4 del D.L. 44/2021 va, pertanto, scrutinata, in relazione all’art. 32 della Costituzione che sancisce:

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Evidente è la duplicità della tutela prevista dalla norma costituzionale: da un lato, il diritto del cittadino alla salute e alla libertà di scegliere le cure e, dall’altro, l’interesse pubblico alla salute, che può comportare, naturalmente, l’imposizione di obblighi a carico dei singoli di sottostare a trattamenti disposti, peraltro, solo in forza di legge e nei limiti imposti dal rispetto della persona umana.

La Corte Costituzionale, in più occasioni, ha chiarito i presupposti in presenza dei quali l’obbligo vaccinale è rispettoso dei principi dell’art. 32 della Costituzione.

In particolare:

Se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale.” (cfr. sentenza n. 307 del 1990);

Se vi è la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili“;

Se nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio – ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica – sia prevista comunque la corresponsione di una “equa indennità” in favore del danneggiato.

In altri termini, la legittimità dell’obbligo vaccinale presuppone e richiede un corretto bilanciamento tra la tutela della salute del singolo e la concorrente tutela della salute collettiva, entrambe costituzionalmente garantite.

La disamina della legislazione degli altri Paesi consente di affermare che, allo stato, nessuna nazione ha previsto l’obbligatorietà del vaccino anti COVID-19.

La Risoluzione n. 2361 del Consiglio d’Europa, peraltro, ha espressamente escluso che gli Stati possano rendere obbligatoria la vaccinazione anti COVID (punto 7.3.1) e ha, inoltre, vietato di usarla per discriminare lavoratori o chiunque decida di non avvalersene (punto 7.3.2).

Dal canto suo l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali italiana ha dichiarato che non è pensabile di poter effettuale un passaporto vaccinale sanitario stante la delicatezza dei dati che vi sarebbe contenuti, la variabilità e temporaneità della certificazione stessa in assenza di presupposti scientifici accertati e certi.

Infine, il recentissimo Rapporto pubblicato il 13.3.2021 dall’I.S.S. e redatto insieme a Ministero, A.I.FA. e I.N.A.I.L. precisa che:

Una persona vaccinata con una o due dosi deve continuare a osservare tutte le misure di prevenzione quali il distanziamento fisico, l’uso delle mascherine e l’igiene delle mani, poiché, come sopra riportato, non è ancora noto se la vaccinazione sia efficace anche nella prevenzione dell’acquisizione dell’infezione e/o della sua trasmissione ad altre persone. … non è ancora noto se le persone vaccinate possano comunque acquisire l’infezione da SARS-CoV-2 ed eventualmente trasmetterla ad altri soggetti.…

Infine, è verosimile che alcune varianti possano eludere la risposta immunitaria evocata dalla vaccinazione, e, quindi, infettare i soggetti vaccinati.

Segnalazioni preliminari suggeriscono una ridotta attività neutralizzante degli anticorpi di campioni biologici ottenuti da soggetti vaccinati con i vaccini a mRNA nei confronti di alcune VOC, come quella Sudafricana, e un livello di efficacia basso del vaccino di AstraZeneca nel prevenire la malattia di grado lieve o moderato nel contesto epidemico sud-africano. … a persona vaccinata considerata “contatto stretto” deve osservare, purché sempre asintomatica, un periodo di quarantena di 10 giorni dall’ultima esposizione con un test antigenico o molecolare negativo effettuato in decima giornata.

Non è, pertanto, revocabile in dubbio che, allo stato attuale, siano carenti i presupposti di certezza scientifica per imporre l’obbligatorietà del vaccino, il quale dovrebbe rispondere al duplice obiettivo di tutela della salute pubblica, impedendo il contagio dei pazienti da parte del personale sanitario vaccinato, e di tutela immunitaria del personale sanitario dal virus, nonché dalla complicanze vaccinali.

La situazione di inevitabile sperimentalità dei vaccini anti COVID-19 non garantisce nessuno di questi due obiettivi: non vi è certezza di non trasmissibilità del virus da parte delle persone vaccinate e non vi è certezza di immunità dal virus.

Al contrario si registrano evidenze – seppur statisticamente poco rilevanti – di complicanze vaccinali talvolta anche fatali.

La conferma dei dubbi e delle incertezze che connotano i vaccini anti COVID-19 è significativamente manifestata dall’art. 3 D.L. 44/2021 che, come noto, introduce un’esimente penale a favore dei sanitari per i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose conseguenti a reazioni fatali in soggetti sottoposti a vaccinazione.

In questa situazione di obiettiva incertezza scientifica e di inevitabile sperimentalità è, pertanto, non solo eticamente doveroso che i vaccini restino una libera scelta del singolo individuo ma è anche giuridicamente dovuto nel rispetto dei massimi principi posti a tutela della persona.

Da un punto di vista prettamente giuridico, e prescindendo da ogni considerazione in materia sanitaria e scientifica, l’incostituzionalità dell’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 4 del DL 44/2021 sembra più che fondata.

E’ ipotizzabile, peraltro, che i professionisti e gli operatori sanitari dissenzienti dall’obbligo di vaccinazione non potranno agevolmente tutelare il loro diritto di scelta essendo verosimile che gli Ordini professionali e i datori di lavoro applicheranno, infatti, il citato disposto dell’art. 4 del D.L. 44/2021.

I lavoratori (che si riterranno penalizzati) non potranno percorrere altra strada che il contenzioso giudiziale innanzi al Giudice del lavoro.

Questi, a sua volta, se riterrà non manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità della norma, sospenderà il giudizio di merito in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale, che dovrà, a sua volta, accertare il contrasto della più volte citata disposizione con la Costituzione.

In conclusione non può non ribadirsi che l’emergenza COVID-19, ormai perdurante da oltre 18 mesi, sta mettendo a dura prova i delicatissimi rapporti fra la tutela della salute pubblica e i valori fondamentali della libertà umana.

Il pensiero non può non andare, in disparte l’obbligo vaccinale, alle misure di contenimento del contagio che vedono contrapposti, anche in modo serrato, i fautori della libertà “a ogni costo” contro la “dittatura sanitaria” dell’Esecutivo e i fautori della inevitabilità di misure fortemente coercitive quale unico baluardo contro la diffusione del coronavirus.

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Con la recentissima sentenza 18.2.2021 n. 4424, la terza sezione civile della Corte di Cassazione torna a occuparsi delle questioni correlate alla incompleta redazione della cartella clinica.

Autore

Avv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.

I FATTI

I sig.ri C.A. e F.R., in proprio e nella loro qualità di genitori di C.E., hanno convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli, la ASL Napoli (OMISSIS), il Dott. I.B. e la sig.ra M.M. per ottenere la condanna degli stessi al risarcimento dei danni (biologico del figlio e danno parentale) derivati dalle gravissime lesioni patite dal minore in data (OMISSIS) all’atto della nascita (tetraparesi spastica), previa dichiarazione di responsabilità, per negligenza, imperizia ed imprudenza, nell’intervento di estrazione del nascituro con ventosa, effettuato dal Dott. I., coadiuvato dalla ostetrica M., presso la struttura ospedaliera (OMISSIS).

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La sig.ra F., ricoverata alle ore 8:00 del (OMISSIS), all’epoca primipara di (OMISSIS) in stato di gravidanza alla 41esima settimana, alle ore 21:00 dava segni di imminente parto e alle ore 00:45 del giorno successivo era condotta in sala parto.

La equipe medica decideva di effettuare l’intervento con applicazione di ventosa ostetrica in presenza di una chiara difficoltà a partorire, senza operare una scelta alternativa meno rischiosa per la mamma ed il bambino in relazione al quadro clinico oramai delineatosi, sicché il piccolo E. riportava una grave asfissia con areflessia con conseguente paralisi cerebrale  infantile  che  non migliorava nel tempo, talché i due genitori dovevano costantemente provvedere alle esigenze del figlio, sconvolgendo la loro vita privata.

Nel giudizio di primo grado si sono costituiti l’ASL e il Dott. I. chiedendo il rigetto della domanda attorea, mentre la sig.ra M. è rimasta contumace.

Espletata l’istruttoria con escussione di testimoni e disposta CTU medico-legale, il Tribunale di Napoli ha dichiarato la responsabilità dell’ASL e del Dott. I. e li ha condannati in via tra loro solidale al risarcimento per complessivi Euro 2.108.544,00, oltre spese di giudizio.

Avverso la sentenza, ha proposto appello la ASL e appello incidentale il Dott. I.

Si sono costituiti i sig.ri C.- F. per chiedere conferma della sentenza, nonché la sig.ra M. per chiedere il rigetto delle domande formulate dagli appellanti nei suoi confronti.

La Corte d’Appello di Napoli ha rigettato gli appelli promossi dalla ASL e dal Dott. I., e, per quanto d’interesse, ha confermato la sentenza di prime cure in ordine alla condanna al risarcimento del danno biologico e del danno morale, e ha condannato la Azienda sanitaria e il Dott. I. alla rifusione delle spese di lite in via tra loro solidale.

La Corte d’Appello – sulla scorta degli  esiti  dell’istruzione  probatoria svoltasi in prime cure con l’acquisizione di una CTU – ha ritenuto la responsabilità del  medico per condotta negligente consistente nell’omessa “forma minimale di sorveglianza” del benessere fetale, nei 45 minuti precedenti al parto, e in particolare per mancato utilizzo del cardiotocografo o, comunque, per mancato rilievo intermittente del battito cardiaco del nascituro, consigliato dalla letteratura scientifica, rilevando che fosse altamente probabile che il corretto adempimento della prestazione sanitaria avrebbe potuto evidenziare tempestivamente la sofferenza fetale ed anticipare l’intervento estrattivo, eliminando o quantomeno riducendo gli effetti dell’ipossia, occorsa a causa del giro di cordone  ombelicale stretto al collo.

Nella sentenza si è dato rilievo al fatto che la cartella clinica, dalle ore 0,40 sino all’atto della nascita difettava di qualsivoglia annotazione valutativa, mentre sino a quell’ora risultavano tre tracciati con cardiotocografi e l’assenza di alcun fattore di rischio.

Si è data rilevanza alla testimonianza resa da una teste presente in sala parto, quale congiunta della partoriente, di professione infermiera, che ha riferito che, in quel frangente, il medico aveva assistito un’altra partoriente e lasciato la ricorrente nelle mani dell’ostetrica.

La Corte d’appello, ha ritenuto che, nel caso specifico, le parti convenute non erano state in grado di offrire la prova liberatoria, richiesta dall’art. 1218 c.c., che l’esito peggiorativo o infausto del parto sia stato determinato da un evento imprevedibile e inevitabile alla fine del periodo espulsivo, secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento, pur essendo pacifico che l’apossia era stata determinata dall’attorcigliamento del cordone ombelicale attorno al collo del nascituro.

Ha proposto ricorso per cassazione il Dott. B. I.

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LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE

Con il primo motivo, si contesta che la Corte d’Appello, facendo proprie le risultanze della CTU espletata in prime cure, avrebbe erroneamente ritenuto provato il nesso causale e la colpa del sanitario, in quanto avrebbe in tesi fondato la responsabilità del Dott. I. esclusivamente sul mancato utilizzo del cardiotocografo (CTG), sebbene – come rilevato anche dal  consulente tecnico di parte – l’omessa sorveglianza fetale mediante CTG non assuma rilievo medico-legale, sia perché questa fu eseguita fino alla fase di dilatazione completa della cervice uterina con risultato rassicurante, sia per i limiti di validità della metodica in questione, soprattutto durante il secondo stadio del parto.

La causa della sofferenza ipossico-asfittica del neonato, dunque, si sarebbe verificata alla fine del periodo espulsivo a causa di un giro di cordone stretto attorno al collo del nascituro, evento imprevedibile ed inevitabile, che limitò l’apporto di ossigeno al feto e causò i danni alla salute lamentati da parte attrice.

Si adduce la carenza di motivazione là dove la sentenza assume la mancata sorveglianza da parte del medico del benessere fetale durante l’ultima fase del parto, da un lato, sulla base di prove documentali che non esistono e, dunque, su una prova negativa ed inesistente (il silenzio della cartella clinica) e, dall’altro, sulla prova testimoniale dell’infermiera presente al parto che, “tutto sommato“, non era così dirimente della responsabilità del medico/ginecologo.

Si denuncia il mancato svolgimento del giudizio controfattuale, nell’ambito della fattispecie concreta, poichè né la sentenza, né la CTU, avrebbero motivato in ordine ad acquisizioni scientifiche indubitabili in forza delle quali poter affermare l’idoneità ex ante di un taglio cesareo eseguito d’urgenza ad impedire lo stato di successiva sofferenza del nascituro; né hanno verificato l’efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito consistente, nel caso concreto, nell’utilizzo di CTG che, infatti, non sarebbe stato in grado di accertare “del tutto” il giro di cordone stretto intorno al collo del feto.

Secondo la Suprema Corte, sul punto, la Corte di merito, nel caso concreto, con motivazione esaustiva ed esente da vizi logico-giuridici ha vagliato specificamente gli elementi costitutivi della fattispecie di inadempimento contrattuale dedotto – danno, condotta, nesso causale ritenendone la sussistenza secondo corretti principi.

In particolare la sentenza gravata dimostra di avere adeguatamente applicato il principio di diritto secondo il quale “mentre è onere del creditore della prestazione sanitaria provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento o l’insorgenza della situazione patologica e la condotta del sanitario, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio è, invece, onere della parte debitrice (il sanitario e la struttura in cui egli opera) provare la causa imprevedibile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione” (Cass., Sez. 3 -, Sentenza n. 28991 dell’11/11/2019; Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 26700 del 23/10/2018; Sez. 3 -, Sentenza n. 18392 del  26/7/2017).

Nel caso concreto, la Corte d’Appello – in adesione alle risultanze della CTU – ha ritenuto che la condotta del personale sanitario avesse determinato, “con elevato grado di probabilità”, gli esiti sfavorevoli osservati successivamente nel neonato mentre il ricorrente non aveva dimostrato l’esatto adempimento o l’impossibile adempimento per causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).

Sottolinea la Corte che “in tema di responsabilità professionale sanitaria, l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente, quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno” (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 28991 del 11/11/2019; Sez. 3 -, Sentenza n. 27561 del 21/11/2017; Sez. 3, Sentenza n. 12218 del 12/6/2015; Sez. 3, Sentenza n. 1538 del 26/1/2010).

In relazione al danno, peraltro, la Corte di appello ha ritenuto pacifico inter partes che la cerebropatia neonatale debba ricollegarsi all’ipossia avvenuta intra partum a causa dello strozzamento da cordone ombelicale, e non prima, quando vi è stato un tracciamento diagnostico che evidenziava una situazione di normalità.

Quanto alla condotta colposa del sanitario, il giudice di secondo grado la identifica “nella mancata indicazione nella cartella clinica di qualsivoglia attività di indagine diagnostica nella fase finale del parto, idonea ad evidenziare in tempo utile una sofferenza fetale e nella conseguente mancata prova di un pronto intervento da parte del medico.

Ciò in quanto, non sono state allegate alla cartella clinica, né prodotte dalle parti, le attività eseguite in sala parto dopo l’ultimo tracciato CTG delle ore 0,40, dacchè si poteva evincere una valutazione di normale decorso del parto solo fin quando le annotazioni in cartella sono state fatte (e dunque con riguardo al primo tracciato CTG e agli ultimi due – l’ultimo delle ore 0:40-), mentre per la fase finale del parto è mancata qualsiasi annotazione in cartella clinica delle attività medico-sanitarie espletate e, comunque, vi è una testimonianza circa la mancanza di adeguata sorveglianza da parte del medico sulla partoriente, lasciata nelle mani di un’ostetrica per assistere un’altra partoriente nel frattempo sopraggiunta in sala.”

L’omessa sorveglianza sul benessere fetale in un arco temporale di quarantacinque minuti non è collegata esclusivamente al fatto che non risultino ulteriori CTG ma ad ulteriori dati obiettivi osservati, e in particolare al fatto che:

  1. i) non risulta essere stata effettuata l’auscultazione intermittente del battito fetale con stetoscopio di Pinard o strumento Doppler, da ripetersi ogni 15 minuti nel primo stadio del parto ed ogni cinque minuti nel secondo stadio come  consigliato da tutte le più autorevoli linee guida internazionali e nazionali, comprese le “Linee-guida per l’assistenza alla gravidanza ed al parto normale in Regione Campania” (approvate dal Comitato tecnico-scientifico del Programma speciale D.Lgs. n. 502 del 1992, ex art. 12, comma 2, lett. b) e pubblicate sul B.U.R.C. n. 41 del 15 settembre 2003);
  2. ii) la cartella clinica risulta carente anche del partogramma (grafico sostanzialmente imposto dalle richiamate “Linee-guida per l’assistenza alla gravidanza e al parto normale in Regione Campania”), pacificamente non compilato, che invece avrebbe dovuto contenere l’annotazione non solo della dilatazione della cervice (dato comunque rilevabile dalla cartella clinica), ma anche del livello della testa fetale rispetto al canale del parto, oltre che le misurazioni del battito cardiaco fetale, della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca materna, del colore del liquido amniotico ed ogni altra indicazione utile circa l’andamento del travaglio (p. 9 della sentenza impugnata).

La Corte, infine, precisa, sul piano della causalità giuridica, che la sentenza della Corte di appello ha fatto il ragionamento dovuto, dando rilievo alla circostanza che la condotta medica avrebbe dovuto, nelle circostanze concrete, essere “vigile ed operosa” e “nel rispetto di tutte le regole e degli accorgimenti tecnici della professione sanitaria, anzichè attendista e negligente”.

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Il corretto adempimento della prestazione sanitaria avrebbe, quindi, potuto evidenziare tempestivamente la sofferenza fetale ed anticipare l’intervento estrattivo, eliminando o quantomeno riducendo gli effetti dannosi dell’ipossia.

Il comportamento omissivo del personale sanitario, pertanto, dà luogo a responsabilità perché gli indicati accertamenti, se disposti, avrebbero posto in evidenza, via via, la progressione del feto nel canale del parto ed i segni di sofferenza fetale, offrendo così al medico maggiori possibilità di avvedersi per tempo della reale condizione in cui versava il feto, e di comportarsi di conseguenza.

Il ritardo nel porre in essere ogni attività necessaria per salvaguardare la salute del feto ed il mancato rispetto delle linee guida sono da considerare, quindi, atti di negligenza.

La Corte di merito, sotto tale profilo, ha ritenuto indimostrata l’imprevedibilità ed inevitabilità dell’evento dedotta dal medico (e ciò in relazione a tutte le sopra menzionate circostanze di inadempimento ad esso imputabili e valutate nel caso concreto).

Con giudizio controfattuale ha ritenuto che la condotta di sorveglianza cui egli era tenuto, nei fatti mancata, sarebbe stata astrattamente idonea ad evitare, con alta probabilità, l’evento di danno o quanto meno a ridurne le conseguenze.

In particolare, la Corte ha ritenuto che “non è sufficiente, al fine di escludere la responsabilità del medico, accertare l’insorgenza di una complicanza, ma se ne deve dimostrare l’imprevedibilità e l’inevitabilità, nonchè l’adeguatezza  della  condotta  del medico per porvi rimedio.

Come il mancato raggiungimento di tale  prova, anche il mero dubbio sull’esattezza di tale adempimento, ricade a carico della struttura sanitaria e del medico.

A ciò si aggiunga che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui, anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato.

Principi che operano non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico tra la sua condotta e le  conseguenze dannose subite.

Il corretto adempimento della prestazione sanitaria, quindi, avrebbe potuto evidenziare tempestivamente la sofferenza fetale e anticipare l’intervento estrattivo, eliminando o quantomeno riducendo gli effetti dannosi  dell’ipossia.

Nel campo medico-sanitario, sottolinea la Suprema Corte, sussistono due cicli causali da considerare, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle. La prova della causalità materiale spetta al danneggiato e consiste nella prova, anche presuntiva, del rapporto di causa – effetto tra la prestazione professionale e la situazione patologica.

Tale prova può essere raggiunta in via presuntiva anche per il tramite di una cartella medica compilata in maniera incompleta, posto che tale circostanza non può, in linea di principio, tradursi in un danno nei confronti di colui il quale abbia diritto alla prestazione sanitaria, quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno.

La prova della causalità giuridica spetta, invece, al danneggiante il quale, ove il creditore abbia assolto al suo onere probatorio, deve dimostrare l’esatto adempimento ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, – oppure l’intervento di una causa esterna, imprevedibile alla stregua dell’ordinaria diligenza di cui all’art. 1176 c.c., comma 1, ed inevitabile sotto il profilo strettamente oggettivo e causale.

Diritto Sanitario

Con la sentenza  23 dicembre 2020, n. 29469 la Corte di Cassazione torna a occuparsi della delicata questione della libertà e del diritto dei Testimoni di Geova di rifiutare le emotrasfusioni.

Autore

Avv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.


IL FATTO

[dropcap color=”#008185″ font=”0″]D[/dropcap].G.M.G. convenne in giudizio innanzi il Tribunale di Milano la (OMISSIS) e D.A. chiedendo il risarcimento del danno, e la restituzione di quanto corrisposto per l’opera professionale, in relazione alle trasfusioni di sangue eseguite nonostante la contrarietà manifestata dall’attrice, Testimone di Geova, a seguito di emorragia conseguente a parto con taglio cesareo eseguito il giorno (OMISSIS).

Il Tribunale adito rigettò la domanda.

La Corte d’appello di Milano rigettò l’appello, osservando che la CTU aveva affermato che “le trasfusioni somministrate il (OMISSIS) erano indispensabili, stante il contesto di malattia emorragica acuta con valore di emoglobina inferiore a 6 g/dl e perdita ematica stimata di oltre il 40% del volume normale, e che la dichiarazione resa al momento di ingresso in ospedale non poteva più considerarsi operante davanti ad una situazione fortemente mutata e con serio pericolo di vita.”.

Aggiunse che il Tribunale “a fronte del rilievo dell’attrice secondo cui, come da testimonianze assunte, essa aveva continuato a rifiutare la sottoposizione a trasfusione, aveva osservato che non era necessario stabilire se le testimonianze fossero pienamente attendibili o se la paziente con lo scuotimento del capo o l’allargamento delle braccia volesse esprimere dissenso rispetto alla trasfusione, perché era certo che la paziente non ritenne di rifiutare l’intervento chirurgico connesso alle trasfusioni.

Osservò, inoltre, la Corte di appello che “mancava la prova che al momento di esprimere il rifiuto preventivo alla trasfusione l’appellante intendesse già rifiutare di sottoporsi a trasfusione anche nell’ipotesi di pericolo di vita, posto che dalla CTU era emerso che la trasfusione si era resa solo successivamente indispensabile per la sopravvivenza della paziente.

Aggiunse, infine, che “l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa implicava l’accettazione di tutte le sue fasi, non essendo contestabile che acconsentendo all’intervento la paziente avesse implicitamente, ma chiaramente, manifestato il desiderio di essere curata e non di morire per evitare di essere trasfusa.”

I MOTIVI DI RICORSO

D.G.M.G., col primo motivo di ricorso, osserva, che “la motivazione della sentenza di appello è incomprensibile, e dunque apparente, perché pur riconoscendo che erano state acquisite testimonianze nel senso del dissenso attuale alle trasfusioni, rifiuta di statuire in base alle prove acquisite, dichiarando espressamente non necessario valutarne l’attendibilità, per avere deciso di basare la decisione solo sulla dichiarazione di rifiuto del giorno precedente le trasfusioni, considerandolo preventivo e non attuale.”

Con il secondo motivo osserva la ricorrente che “la corte territoriale ha erroneamente qualificato la fattispecie in termini di rifiuto preventivo, che invece riguarda i pazienti incapaci o incoscienti, mentre la D.G. dopo l’intervento di taglio cesareo era cosciente e mentalmente capace, sicché attualizzava e confermava il dissenso espresso.

Aggiunge che la D.G. “dopo avere ricevuto le informazioni sui rischi dell’intervento, aveva dichiarato di rifiutare il consenso alle trasfusioni “in qualsiasi circostanza” e che in assenza del consenso del paziente l’intervento medico è del tutto illecito, stante il diritto del paziente di rifiutare le cure.

Osserva ancora che il rifiuto delle emotrasfusioni derivava da motivi religiosi (come ribadito dalla sentenza della Corte Edu 10 giugno 2010, “Testimoni di Geova vs. Russia”) e che tale forma di rifiuto, in quanto basata sulla fede, non costituisce il mero esercizio del diritto di autodeterminazione sanitaria ma è una vera e propria forma di obiezione di coscienza, radicata in ragioni religiose, per cui non si tratta di rispettare solo il corpo della persona nella sua fisicità, ma di rispettare la persona umana nella sua interezza, ossia nei suoi valori morali, etici e religiosi.”

Aggiunge, altresì, che “ai fini della responsabilità del medico per violazione del consenso informato rileva la lesione all’obiezione religiosa della ricorrente alle trasfusioni di sangue, con inoltre un effetto discriminatorio nei confronti della stessa.”

Con il terzo motivo deduce la ricorrente che “il consenso prestato all’intervento di laparotomia esplorativa non può essere considerato come implicito consenso prestato alla trasfusione, non essendo configurabile un consenso presunto o per facta concludentia” e che “la laparotomia esplorativa (intervento assentito dalla paziente) e le trasfusioni di sangue (trattamento rifiutato) sono trattamenti distinti, che richiedono consensi separati, posto che la trasfusione di sangue comporta l’assunzione di specifici rischi, tant’è che il D.M. Salute 3 marzo 2005 prescrive il consenso scritto per le trasfusioni di sangue da parte di un paziente cosciente.”

Osserva, ancora, che “l’obbligo di consenso informato prevede che non possa essere somministrato il trattamento sanitario senza il corretto adempimento dell’obbligo informativo sulla base di informazioni che devono essere le più esaurienti possibili” e che “la D.G. aveva il pieno diritto di prestare il consenso alla laparotomia esplorativa, ma di rifiutare di acconsentire alle trasfusioni di sangue, e che con il consenso alla laparotomia la paziente aveva prestato il consenso all’unica opzione che desse qualche possibilità di arrestare l’emorragia post- partum costituente pur sempre un rischio nel parto e nel taglio cesareo, senza acconsentire a trasfusioni di sangue.”

Rileva, altresì, che “se i sanitari fossero stati consapevoli del consenso rilasciato non avrebbero avuto bisogno di chiedere un’autorizzazione alla direzione sanitaria o al magistrato di turno presso la Procura della Repubblica e che quanto detto dal Dott. I. (“me la vedo io con il suo Dio”) costituiva grave violazione della coscienza religiosa della paziente, in stato peraltro di debolezza emotiva e fisica per avere perso quasi metà del suo volume ematico.”

LA DECISIONE DELLA CORTE

La Corte di Cassazione ha ritenuto, complessivamente, fondati i motivi di ricorso.

Rileva la Suprema Corte che “il paziente ha sempre diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte; tuttavia, il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare così il medico dal potere – dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale: non è sufficiente, dunque, una generica manifestazione di dissenso formulata “ex ante” ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure.” (Cass. 15 settembre 2008, n. 23676, relativa proprio ad un caso in cui paziente era un Testimone di Geova).

In materia di rifiuto di determinate terapie, alla stregua di un diritto fondato sul combinato disposto dell’art. 32 Cost., della L. 28 marzo 2001, n. 145, art. 9 (recante “ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina“) e art. 40 codice di deontologia medica – sottolinea la Corte – “pur in presenza di un espresso rifiuto preventivo, non può escludersi che il medico, di fronte ad un peggioramento imprevisto ed imprevedibile delle condizioni del paziente e nel concorso di circostanze impeditive della verifica effettiva della persistenza di tale dissenso, possa ritenere certo od altamente probabile che esso non sia più valido e praticare, conseguentemente, la terapia già rifiutata, ove la stessa sia indispensabile per salvare la vita del paziente” (Cass. 23 febbraio 2007, n. 4211, anche tale pronuncia relativa ad un caso in cui paziente era un Testimone di Geova).

Il giudice di merito, invero, ha affermato che “vi è assenza di prova che al momento di esprimere il rifiuto preventivo alla trasfusione l’appellante intendesse già rifiutare di sottoporsi a trasfusione anche nell’ipotesi di pericolo di vita” e che “l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa implicava l’accettazione di tutte le sue fasi.”

La Corte d’appello ha così condiviso la valutazione del Tribunale la quale, secondo quanto risulta dalla decisione impugnata, era stata nel senso che “fosse irrilevante accertare se vi fosse stato effettivo dissenso rispetto alla trasfusione una volta che la paziente non avesse ritenuto di rifiutare l’intervento chirurgico connesso alle trasfusioni.”

La ratio decidendi, quindi, secondo la Suprema Corte, è nel senso che “non potesse considerarsi l’esistenza di un espresso, inequivoco ed attuale dissenso all’emotrasfusione perché l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa implicava l’accettazione di tutte le sue fasi, ivi compresa la necessità della trasfusione per il caso di pericolo di vita.”

Siffatta ratio è, espressamente, contestata rilevandosi che “lo stato di coscienza della paziente, successivamente al parto mediante taglio cesareo, comportava la piena consapevolezza in ordine alla gravità della propria situazione, in secondo luogo affermando che il consenso prestato all’intervento di laparotomia non comportava consenso all’emotrasfusione alla luce del diritto all’autodeterminazione della paziente e dell’incoercibilità del credo religioso della stessa, Testimone di Geova.”

In altre parole, il consenso al trattamento sanitario “non può essere qualificato anche come consenso all’emotrasfusione, dato che il diritto all’autodeterminazione ed il credo religioso impedirebbero di interpretare il consenso al trattamento come consenso anche all’emotrasfusione.”

L’art. 32 Cost., comma 2, come noto, dispone che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge“.

Dovendosi, quindi, identificare i principi costituzionali rilevanti deve essere verificato “se, in relazione alle circostanze del caso ed alla tipologia dei principi concorrenti, questi siano suscettibili di attuazione graduata nell’ambito di un bilanciamento, secondo la specifica natura che li distingue dalle regole, o possano trovare piena attuazione, non essendovi questione di ponderazione con un principio di segno contrario.

Infine – sottolinea la Corte – il Giudice formula il giudizio, il quale consta “non della diretta applicazione del principio costituzionale, ma della regola di diritto formulata per il caso concreto sulla base della combinazione del detto principio, se del caso bilanciato con altro principio concorrente, con le circostanze del caso.”

Il fatto, come noto, è quello della sottoposizione di Testimone di Geova a trasfusione di sangue ed è, altresì, nota “la contrarietà della trasfusione di sangue al credo religioso per i Testimoni di Geova, fondata, come si legge in Cass. n. 4211 del 2007, su una particolare lettura di alcuni brani delle Scritture: Gen. 9, 3-6; Lev. 17, 11; Atti 15, 28, 29.

Il divieto di assumere sangue costituisce precetto religioso per il Testimone di Geova.”

La ricorrente fa valere, quindi, sia il diritto di autodeterminazione con riferimento al trattamento sanitario che la libertà di manifestazione del proprio credo religioso atteso che “quella dei Testimoni di Geova non costituisce una mera autodeterminazione sanitaria, ma una vera e propria forma di obiezione di coscienza e che se un Testimone di Geova accettasse volontariamente una trasfusione di sangue, ciò equivarrebbe ad un atto di abiura della propria fede.”

La posizione soggettiva fatta valere dalla ricorrente risulta, quindi, qualificata dal duplice e concorrente riferimento al principio di autodeterminazione circa il trattamento sanitario e alla libera professione della propria fede religiosa.

I principi costituzionali che, così, entrano in gioco sono quelli per un verso riconducibili all’autodeterminazione sanitaria, per l’altro alla libertà religiosa.

Con riferimento al primo “la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2, 13 Cost. e art. 32 Cost., comma 2.

Affermazione, peraltro, coerente a quanto già affermato dalla giurisprudenza costituzionale: “il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”” (Corte Costituzionale 23 dicembre 2008, n. 438).

Quanto al profilo della libertà religiosa, la Suprema Corte ha già, in passato, posto in evidenza il collegamento del diritto di rifiutare il trattamento sanitario all’art. 19 Cost. in relazione a casi in cui il paziente era Testimone di Geova (Cass. 7 giugno 2017, n. 14158 e 15 maggio 2019, n. 12998, quest’ultima richiamata anche da Cass. 15 gennaio 2020, n. 515).

La libertà religiosa, peraltro, secondo la Corte Costituzionale (sentenza 5 dicembre 2019, n. 254) “è garantita dall’art. 19 Cost. ed è un diritto inviolabile, tutelato al massimo grado dalla Costituzione.

Garanzia costituzionale avente valenza anche “positiva“, giacché il principio di laicità che contraddistingue l’ordinamento repubblicano è “da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze n. 63 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità” (sentenza n. 67 del 2017)“.

A sostegno del diritto di rifiutare l’emotrasfusione vi è, così, il complesso concorso di principi rappresentato da quello all’autodeterminazione in materia di trattamento sanitario e quello di libertà religiosa.

Tale osmosi di principi costituzionale – secondo l’iter argomentativo della Corte – non incontra nel caso di specie principi di segno contrario suscettibili di bilanciamento.

L’accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito evidenzia, esclusivamente, la circostanza della necessità dell’emotrasfusione per il mantenimento in vita della paziente.

La tutela della salute (quale diritto dell’individuo, sancito dall’art. 32 Cost.) è dunque un principio nuovamente riconducibile alla posizione soggettiva della ricorrente e non ad un bene – interesse contrapposto a tale posizione (non potendosi ritenere il riferimento nella norma costituzionale all’interesse della collettività alla salute dell’individuo in contraddizione al principio di autodeterminazione enunciato nella medesima norma).

Il complesso di principi evidenziati non incontra, quindi, principi costituzionali di segno opposto i quali impongano una forma di bilanciamento sicché non essendovi materia di ponderazione con altri principi costituzionali, essi possono trovare piena e diretta attuazione.

La regola di giudizio che si trae dall’identificata osmosi di principi costituzionali, con riferimento alle circostanze del caso, è che “il Testimone di Geova ha diritto di rifiutare l’emotrasfusione.

Sulla base della fonte costituzionale “sorge uno specifico rapporto giuridico contrassegnato dall’obbligazione negativa del sanitario di non ledere la sfera giuridica vantata dal Testimone di Geova, cui spetta la titolarità attiva del rapporto.

La ratio decidendi della decisione impugnata è, invece, nel senso “che non potesse considerarsi l’esistenza di un espresso, inequivoco ed attuale dissenso all’emotrasfusione perché l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa implicava l’accettazione di tutte le sue fasi, ivi compresa la necessità della trasfusione per il caso di pericolo di vita.

Siffatta ratio è stata impugnata denunciandosi che “il consenso prestato all’intervento di laparotomia non comportava consenso all’emotrasfusione alla luce del diritto all’autodeterminazione della paziente e dell’incoercibilità del credo religioso della stessa.”

La tesi della ricorrente, secondo la Suprema Corte, è da reputare fondata sulla base dell’evidenziata regola di giudizio in quanto “la Testimone di Geova, sotto la copertura del complesso di principi costituzionali evidenziati, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione anche con dichiarazione formulata prima del trattamento sanitario.

L’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa non ha implicato l’accettazione anche dell’emotrasfusione.

La dichiarazione anticipata di dissenso all’emotrasfusione, che possa essere richiesta da un’eventuale emorragia causata dal trattamento sanitario, non può dunque essere neutralizzata dal consenso prestato a quest’ultimo.”

È doveroso precisare – sottolinea la Corte – con lo sguardo alla L. 22 dicembre 2017, n. 219, che “la posizione del medico non è esente da garanzie in circostanze come quella del caso di specie” atteso che l’art. 1, comma 6 citata legge, dispone non solo che “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale“, ma anche che “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali“.

In tale ottica, quindi, “prestare il consenso ad un intervento chirurgico, al quale è consustanziale il rischio emorragico, con l’inequivoca manifestazione di dissenso all’esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri, significa esigere dal medico un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale.

A fronte di tale determinazione del paziente il medico non ha obblighi professionali.”

Il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione è, quindi, il seguente :

Il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita.

La Corte di Appello ha reputato conforme a diritto l’esecuzione della terapia trasfusionale nei confronti della paziente, Testimone di Geova, sul presupposto che il consenso al trattamento sanitario implicasse il consenso all’emotrasfusione.

Nel giudizio di rinvio – conclude la Suprema Corte – facendo applicazione dell’enunciato principio di diritto (che riconosce il diritto di rifiutare la terapia trasfusionale anche in presenza di consenso al trattamento sanitario) il giudice di merito dovrà accertare “se sia intervenuto un informato, inequivoco, autentico ed attuale dissenso della paziente all’emotrasfusione.

Diritto Sanitario

Con la sentenza n. 8166 del 18.12.2020 la terza sezione del Consiglio di Stato ha riformato la sentenza del Tar Lazio (sezione terza quater) n. 11991 del 16.11.2020 con la quale era stato accolto il ricorso proposto dal Sindacato dei Medici Italiani – SMI, e da alcuni medici di medicina generale, proposto avverso alcuni provvedimenti adottati dalla regione Lazio per il contrasto all’emergenza COVID.

Autore

Avv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.

 

Con la sentenza n. 8166 del 18.12.2020 la terza sezione del Consiglio di Stato ha riformato la sentenza del Tar Lazio (sezione terza quater) n. 11991 del 16.11.2020 con la quale era stato accolto il ricorso proposto dal Sindacato dei Medici Italiani – SMI, e da alcuni medici di medicina generale, proposto avverso alcuni provvedimenti adottati dalla regione Lazio per il contrasto all’emergenza COVID.

Nello specifico, in primo grado, era stato chiesto l’annullamento:

a) dell’Ordinanza del Presidente della Regione Lazio n. Z00009 del 17.3.2020, recante «Ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-2019. Ordinanza ai sensi dell’art. 32, comma 3, della legge 23 dicembre 1978, n. 833 in materia di igiene e sanità pubblica»;

b) del provvedimento della Regione Lazio – Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria prot. «Int. 0314552.10-04-2020», recante «Procedura speciale legata all’emergenza COVID. Programma di potenziamento cure primarie. Avviso volto ad acquisire manifestazione di interesse per svolgere attività nella USCAR»;

c) della Determinazione della Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria – Area Risorse Umane, recante «Approvazione del regolamento di funzionamento USCAR LAZIO» e del Regolamento ivi accluso;

d) della Determinazione della Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria – Area Risorse Umane, recante «Procedura speciale legata alla Emergenza Covid. Programma di potenziamento cure primarie — USCAR Lazio – approvazione elenchi manifestazione di interesse di medici e infermieri» e degli ivi acclusi «Elenco Medici – Uscar», «Elenco Infermieri – Uscar», e «Allegato C – Ammessi con riserva»;

e) della Nota della Regione Lazio, Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria Direzione Regionale per l’Inclusione Sociale prot. 301502 del 9.4.2020, avente ad oggetto «Ulteriori indicazioni per prevenire l’infezione da nuovo coronavirus SARS-COV-2 (COVID- 19) nelle strutture territoriali residenziali sanitarie, sociosanitarie e socioassistenziali», nonché dell’ivi accluso «Programma di potenziamento delle cure primarie – Emergenza COVID 19».

In sintesi, dinanzi al primo Giudice, i ricorrenti sostenevano che, in conseguenza dei provvedimenti regionali impugnati, i medici di medicina generale sarebbero stati investiti di una funzione di assistenza domiciliare ai pazienti Covid del tutto impropria, spettante, in base all’art. 8 D.L. n. 14/2020 prima ed art. 4-bis D.L. n. 18/2020 (conv. in L. 27/2020) poi, unicamente alle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (c.d. USCA) istituite dal Legislatore nazionale d’urgenza proprio ed esattamente a questo scopo.

Funzione che “distrarrebbe i ricorrenti dal loro precipuo compito, che è quello di prestare l’assistenza ordinaria, a tutto detrimento della concreta possibilità di assistere i tanti pazienti non Covid, molti dei quali affetti da patologie anche gravi.

Il TAR ha accolto il ricorso, ritenendo fondata la tesi dei ricorrenti, affermando che “Nel prevedere che le Regioni istituiscono una unità speciale per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero, la citata disposizione rende illegittima l’attribuzione di tale compito ai MMG, che invece dovrebbero occuparsi soltanto dell’assistenza domiciliare ordinaria (non Covid)”.

* * * *

La regione Lazio, al fine di fronteggiare l’emergenza pandemica in atto, ha dato ulteriore sviluppo al modello organizzativo regionale varato in attuazione dell’art. 1 legge n. 189/2012.

Modello che, da tempo, ha visto la costituzione di Unità di Cure Primarie UCP (ossia forme organizzative monoprofessionali), nonché di Unità Complesse di Cure Primarie (forme organizzative invece multiprofessionali) aventi essenzialmente lo scopo di creare una rete sanitaria immediatamente reperibile, utile a evitare il sovraffollamento dei presidi di emergenza e urgenza.

La Regione Lazio, in sintesi, ha ritenuto di poter adeguatamente rispondere all’emergenza epidemiologica anche attraverso l’utilizzo delle succitate aggregazioni territoriali, individuando in ciascuna di esse un Referente COVID, dotato di tutti i presidi di prevenzione, cui affidare l’assistenza, anche a domicilio, dei pazienti affetti dal virus, così affiancando tale modulo di intervento all’Unità Speciale di Continuità Assistenziale Regionale (USCAR) per COVID-19, pure istituita ai sensi della disposizione nazionale prevista dall’art. 4 bis D.L. 17/03/2020, n. 18 per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 non necessitanti di ricovero ospedaliero.

Secondo il Tar Lazio l’art. 4 – bis D.L. n. 18/2020, nel prevedere che le Regioni “istituiscono” una unità speciale “per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID- 19 che non necessitano di ricovero ospedaliero”, implicitamente esonera da tale compito i medici di medicina generale e rende conseguentemente illegittima ogni disposizione regionale che distolga questi ultimi dai compiti “ordinari”.

Secondo gli appellanti, invece, sarebbe erronea l’affermazione secondo la quale “la ratio dell’art. 4 bis DL 18/2020 deve individuarsi nella necessità di non distrarre i medici di base dal proprio compito d’istituto, con attribuzione di compiti del tutto avulsi dal loro ruolo all’interno del SSR”, atteso che:

a) I compiti non sarebbero affatto “avulsi” dal Servizio Sanitario, il quale, in forza dell’art. 4 del DPCM del 12 gennaio 2017 (avente ad oggetto i LEA) e dell’art. 33 dell’Accordo Nazionale che riguarda i medici di medicina generale, assicura le visite domiciliari a scopo preventivo, diagnostico, terapeutico e riabilitativo da parte del medico di medicina generale che ha in carico il paziente, senza che si debba e possa discernere se il paziente ha o meno malattie infettive.

b) Tali compiti sarebbero vieppiù confermati dal recente accordo Nazionale Collettivo che attribuisce ai medici di medicina generale ed ai pediatri di libera scelta, un ruolo proattivo nel rafforzamento delle attività territoriali di diagnostica di primo livello e di prevenzione nella trasmissione della Sars-Cov 2.

c) Nessuna “distrazione” dai propri compiti di istituto vi sarebbe, posto che la visita domiciliare del proprio assistito costituisce parte integrante dei compiti del medico di medicina generale, in ispecie nell’attuale fase epidemiologica in cui l’elevatissimo numero di contagi richiede sinergia degli interventi e pluralità di risorse mediche, non affrontabili con le pur numerose USCAR istituite.

d) In ogni caso le misure adottate rientrerebbero appieno nei profili organizzativi e gestionali della sanità, riservati dall’art. 117 Costituzione alle Regioni.

* * * *

Il Consiglio di Stato, come detto, ha ritenuto fondato il ricorso, assumendo che la sentenza di primo grado si fonda su due inespressi postulati:

a) Il primo, è quello secondo il quale l’esplosione di un evento pandemico e le conseguenze dello stesso sulla salute degli individui, in quanto evento straordinario e non previsto, immuti implicitamente i concetti di malattia acuta e cronica sui quali basano i LEA e i connessi accessi domiciliari nell’ambito della medicina generale.

b) Il secondo è che l’evento pandemico produca una sorta di tabula rasa organizzativa in ambito sanitario, in guisa che le disposizioni legislative emergenziali adottate per affrontare efficacemente l’evento e diminuirne le letali conseguenze epidemiologiche, costituiscano, anche in assenza di esplicite indicazioni in tal senso, strumento esaustivo ed esclusivo, capace di sostituirsi integralmente all’assetto ordinario delle competenze, attraverso non il meccanismo della deroga puntuale ma quello, appunto, dell’azzeramento del pregresso.

Il Giudice di Appello ritiene errati entrambi i postulati.

Il primo non trova alcun appiglio normativo nel D.P.C.M. 12.1.2017 recante “Definizione e aggiornamento dei  livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502”.

L’art. 4 comma 1 prevede infatti che “nell’ambito dell’assistenza sanitaria di base, il Servizio sanitario nazionale garantisce, attraverso i propri servizi ed attraverso i medici ed i pediatri convenzionati, la gestione ambulatoriale e domiciliare delle patologie acute e croniche secondo la migliore pratica ed in accordo con il malato, inclusi gli interventi e le azioni di promozione e di tutela globale della salute”.

La tesi secondo la quale “l’influenza da covid 19 non sarebbe una patologia acuta sussumibile nel disposto appena citato, si risolve in una mera illazione, posto che la patologia acuta è proprio il processo morboso funzionale o organico a rapida evoluzione, cui tipicamente è riconducibile quello conseguente a virus influenzale.”

Non c’è dubbio, quindi, che se il Legislatore non fosse affatto intervenuto, nessuno avrebbe dubitato che i medici di medicina generale, in forza del D.P.C.M. 12.1.2017 e dell’accordo collettivo che ne dà attuazione sul versante della medicina generale, avrebbero avuto l’obbligo di effettuare accessi domiciliari ove richiesto e ritenuto necessario in scienza e coscienza, a prescindere dalla sussistenza in atto di una patologia infettiva, e nel rispetto ovviamente dei protocolli di prevenzione e tutela.

Il Legislatore è, tuttavia, intervenuto, approntando soluzioni organizzative emergenziali.

Qui, secondo il Consiglio di Stato, viene il rilievo l’erroneità del secondo postulato.

Le norme emergenziali, anche di carattere organizzativo, sono sempre norme speciali e derogatorie che si innestano in un contesto noto e presupposto dal legislatore, in modo da modellare l’assetto organizzativo ordinario e renderlo maggiormente idoneo a fronteggiare l’emergenza.

È chiaro, dal punto di vista della tecnica legislativa, che per raggiungere tale finalità non occorre confermare espressamente l’ultravigenza di tutte le norme organizzative ordinarie pregresse, vigendo il generale criterio esegetico secondo il quale continua ad applicarsi ciò che non è espressamente derogato dalla norma emergenziale.

Così come è chiaro – prosegue il ragionamento del Giudice di Appello – che “un legislatore che voglia affrontare con la massima rapidità ed efficienza, senza lacune e soluzioni di continuità, una situazione emergenziale, non potrebbe giammai privarsi di un modello organizzativo già funzionante e testato, in favore di un modello interamente nuovo e sostitutivo, la cui concreta implementazione, tra l’altro, è rimessa all’iniziativa di ulteriori soggetti istituzionali e al reperimento di risorse umane e strumentali. Il principio della tabula rasa dell’organizzazione pregressa costituirebbe, in situazione emergenziale, un salto nel vuoto.

L’esegesi dell’art. 4 – bis D.L. n. 18/2020 appare, quindi, al Collegio estremamente chiara.

Esso ha previsto che “Al fine di consentire al medico di medicina generale o al pediatra di libera scelta o al medico di continuità assistenziale di garantire l’attività assistenziale ordinaria, le regioni  e le province autonome di Trento e di Bolzano istituiscono, entro dieci giorni dalla data del 10 marzo 2020, presso una sede di continuità assistenziale già esistente, una unità speciale ogni 50.000 abitanti per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero. L’unità speciale è costituita da un numero di medici pari a quelli già presenti nella sede di continuità assistenziale prescelta. Possono far parte dell’unità speciale: i medici titolari o supplenti di continuità assistenziale; i medici che frequentano il corso di formazione specifica in medicina generale;  in via residuale, i laureati in medicina e chirurgia abilitati e iscritti all’ordine di competenza. L’unità speciale è attiva sette giorni su sette, dalle ore 8,00 alle ore 20,00, e per le attività svolte nell’ambito della stessa ai medici è riconosciuto un compenso lordo di 40 euro per ora.

Il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta o il medico di continuità assistenziale comunicano all’unità speciale di cui al comma 1, a seguito del triage telefonico, il nominativo e l’indirizzo dei pazienti di cui al comma 1. I medici dell’unità speciale, per lo svolgimento delle specifiche attività, devono essere dotati di ricettario del Servizio sanitario nazionale e di idonei dispositivi di protezione individuale e seguire tutte le procedure già all’uopo prescritte”.

Il senso della disposizione emergenziale è quello di alleggerire i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta e i medici di continuità assistenziale, dal “carico” derivante dall’esplosione pandemica, affiancando loro una struttura capace di intervenire a domicilio del paziente, a richiesta dei primi, ove questi, attanagliati da un fase di così diffusa morbilità e astretti dalle intuibili limitazioni temporali e fisiche, o anche legate all’indisponibilità temporanea di presidi efficaci, non possano recarsi al domicilio del paziente, o ritengano, in scienza e coscienza, nell’ambito della propria autonoma e libera valutazione medica, che sia necessaria o preferibile l’intervento della struttura di supporto.

Nessuna deroga ai LEA, quindi, ma “garanzia della loro effettività attraverso un supporto straordinario e temporaneo – gli USCAR – destinato ad operare in sinergia e nel rispetto delle competenze e prerogative dei medici di medicina generale e degli altri medici indicati.

Trarre dalle disposizioni in commento, un vero e proprio divieto per i medici di medicina generale di recarsi a domicilio per assistere i propri pazienti alle prese con il  virus costituirebbe, per converso, un grave errore esegetico, suscettibile di depotenziare la risposta del sistema sanitario alla pandemia e di provocare ulteriore e intollerabile disagio ai pazienti, che già affetti da patologie croniche, si vedrebbero (e si sono invero spesso visti), una volta colpiti dal virus, proiettati in una dimensione di incertezza e paura, e finanche abbandonati dal medico che li ha sempre seguiti.

Del resto, seppur si volesse valorizzare la considerazione circa il rischio di ulteriore veicolazione del virus (legato all’accesso domiciliare del medico di medicina generale) si tratterebbe comunque di rischi che dovrebbero essere previamente ponderati dal Legislatore nell’ambito di una analisi multifattoriale, per poi eventualmente sfociare in un divieto chiaro ed espresso.

Né, invero, non può farsi discendere, da tale ipotizzato rischio, un’esegesi normativa soppressiva del contributo che in questa fase i medici di medicina generale, i pediatri e i medici di continuità assistenziale possono e debbono dare unitamente alle USCAR nella lotta al virus.

In ogni caso, sottolinea il Consiglio di Stato, sussistono ormai chiari indici che tale rischio sia subvalente rispetto al fattivo contributo che le figure mediche or ora menzionate possono dare nella lotta alla diffusione del virus.

Le associazioni maggiormente rappresentative dei medici hanno, sotto tale profilo, già stipulato un accordo che va oltre la visita domiciliare e consente ai medici, in relazione alla grave situazione emergenziale che il Paese sta affrontando, e allo scenario epidemico che si prospetta per il periodo autunno-invernale, l’accesso domiciliare per l’effettuazione di tamponi antigenici rapidi o di altro test di sovrapponibile capacità diagnostica.

L’accordo prevede che “L’attività è erogata nel rispetto delle indicazioni di sicurezza e di tutela degli operatori e dei pazienti, definite dagli organi di sanità pubblica”, opportunamente prevedendo, a prevenzione dei rischi di incremento del contagio che “In assenza dei necessari Dispositivi di Protezione Individuale (mascherine, visiere e camici), forniti ai sensi del precedente comma 5 per l’effettuazione dei tamponi antigenici rapidi, il medico non è tenuto ai compiti del presente articolo e il conseguente rifiuto non corrisponde ad omissione, né è motivo per l’attivazione di procedura di contestazione disciplinare”.

L’accordo sottende e formalizza un principio che – ad avviso del Collegio – era già ricavabile in precedenza dall’ordinamento: quello secondo il quale il medico di medicina generale (e le altre figure mediche operanti sul territorio), in scienza e coscienza ordinariamente valutano e, se necessario, effettuano, l’accesso domiciliare anche per i malati covid, nel rispetto dei protocolli di sicurezza, fruendo, ove necessario o opportuno, anche in considerazione dell’eventuale insufficienza o inidoneità dei dispositivi di protezione disponibili, del supporto dei medici e del personale dell’USCAR.

L’accordo citato, in conclusione, rappresenta indice dell’evoluzione dell’ordinamento verso soluzioni coerenti con l’esegesi che il Collegio fornisce dell’art. 4 bis D.L. n. 18/2020 sulla base degli argomenti sopra illustrati.



Diritto Sanitario

Un medico dipendente di una casa di cura privata convenzionata con l’ssn, presidio ulss, può fare attività libero – professionale presso altre strutture private – convenzionate, se ottiene la non esclusività dalla sua azienda e l’autorizzazione?

L’art. 14 del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per il personale medico dipendente da case di cura, i.r.c.c.s., presidi e centri di riabilitazione, sotto la rubrica “Caratteristiche del rapporto di lavoro”, dispone:

Il rapporto di lavoro del personale medico ha le seguenti caratteristiche:

a) obbligo di svolgere, nell’ambito del reparto e/o del servizio cui è adibito, nel rispetto della qualifica ricoperta, le attività istituzionali della Struttura sanitaria, ivi compresa l’attività ambulatoriale entro l’orario di servizio o in ore di lavoro straordinario.

L’attività ambulatoriale sarà in ogni caso regolamentata in sede aziendale mediante accordo tra Amministrazione e RSM Cimop, sentito il Medico Responsabile e fatte salve le attribuzioni del Direttore sanitario, previa analisi di tutti gli aspetti che detta attività implica sia per la Struttura sanitaria sia per i medici che la svolgono.

Detta attività verrà concordata entro il primo trimestre di ogni anno.

b) possibilità, ove la Struttura e l’organizzazione lo consentano, di svolgere attività in regime libero-professionale intra moenia al di fuori dell’orario di lavoro, in orari concordati consensualmente tra il medico e l’Amministrazione, nel rispetto delle normative nazionali e regionali, nonché del regolamento interno.

Al medico è comunque consentito di esercitare l’attività libero-professionale, al di fuori della Struttura sanitaria, purché non in altre strutture di ricovero (ordinario e in day hospital) e previa valutazione da parte della Struttura, sentita la RSM Cimop, della insussistenza di situazioni di conflitto di interessi;

c) divieto di stabilire rapporti professionali con altre Strutture sanitarie ad eccezione delle attività occasionali di consulenze e consulti.
Il divieto di operare in altre strutture di ricovero non sussiste per i medici assunti a tempo parziale.

I medici assunti a tempo definito possono richiedere alla Casa di cura di appartenenza specifica autorizzazione che verrà concessa previa valutazione da parte della Struttura medesima, sentita la RSM Cimop, della insussistenza di situazioni di conflitto di interesse.


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Diritto Sanitario

Come vanno inquadrati i Massofisioterapisti nelle strutture poliambulatoriali? Regione Veneto! Grazie!

Il massofisioterapista pre 1999, come noto, gode dell’equipollenza automatica con il diploma del fisioterapista in base all’articolo 4, comma 1, della legge 42/99.

Egli è, pertanto, giuridicamente un fisioterapista e per esercitare tale professione sanitaria è tenuto a iscriversi agli albi professionali dei fisioterapisti.

Il massofisioterapista pre 1999, con diploma biennale conseguito in base alla legge 403/71 e diplomatosi entro il 17.3.1999 da corsi statali o autorizzati dal Ministero iniziati entro il 31.12.1995, può chiedere il riconoscimento dell’equivalenza al fisioterapista (non equipollenza).

Il massaggiatore – massofisioterapista formatosi dopo l’anno 1999, da corsi di formazione erogati da istituti privati autorizzati dalla Regione e iniziati dopo il 31.12.1995, è un “operatore d’interesse sanitario” non riconducibile alle professioni sanitarie già esistenti.

L’attestato di qualifica conseguito da tale operatore non è riconducibile per legge ai titoli di studio e di abilitazione del personale delle professioni sanitarie (tra i quali il fisioterapista) né consente l’accesso a percorsi accademici di riconversione.

Per esercitare la sua attività, tale operatore ha la facoltà, ai sensi della legge 145/18 e dell’articolo 5 del decreto 9.8.2019 del Ministero della Salute, di iscriversi entro il 31.12.2019 negli elenchi speciali ad esaurimento dei massofisioterapisti istituiti presso gli Ordini dei tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della prevenzione e della riabilitazione.

Per ciò che concerne l’inquadramento nelle strutture poliambulatoriali, quindi, il massofisioterapista pre 1999 può svolgere, a ogni effetto di legge, le mansioni del fisioterapista.

Fuori da questa ipotesi, al massofisioterapista è precluso lo svolgimento di attività riconducibile al profilo professionale del fisioterapista; in caso contrario sarebbe configurabile il reato di esercizio abusivo della professione.


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Diritto Sanitario

È legale che l’equipe operatoria di una seduta (ernioplastiche, emorroidectomie, videolaparocolecistectomie) sia composta unicamente da un medico specialista e da un medico in formazione (specializzando)?

La questione in ordine alla composizione dell’equipe operatoria si interseca con la questione del ruolo del medico specializzando nelle strutture sanitarie ove è tenuto ad operare.

Numerosi, specie negli ultimi tempi, sono gli interrogativi sul ruolo e sulla funzione dello specializzando.

Il quadro di riferimento normativo (d.gls. 17 agosto 1999, n. 368, di attuazione della direttiva 93/16/CEE) prevede che l’ottenimento del diploma di medico chirurgo specialista sia subordinato, oltre che ad altre condizioni, alla “partecipazione personale del medico chirurgo candidato alla specializzazione, alle attività e responsabilità proprie della disciplina”.

Da ciò si trae una prima considerazione: il medico specializzando non è (e non può essere) un semplice spettatore avulso dalla realtà ospedaliera atteso che egli partecipa alle “attività e responsabilità” che si svolgono nella struttura sede della sua formazione.

Per ciò che concerne, invece, le concrete modalità di svolgimento della formazione, lo specializzando partecipa, in modo guidato, alla totalità delle attività mediche dell’unità operativa con conseguente graduale assunzione di compiti assistenziali.

L’iter formativo prevede l’esecuzione di interventi con autonomia vincolata, necessariamente, alle direttive ricevute dal tutore.

In nessun caso, comunque, l’attività del medico in formazione specialistica può sostituire quella del personale di ruolo.

Con il concetto di autonomia vincolata ci si riferisce a una particolare posizione di soggetti che, pur avendo conseguito la laurea in medicina e chirurgia, essendo in corso la formazione specialistica, godono di limitati margini di autonomia sotto le direttive del tutore.

È importante, peraltro, sottolineare che se lo specializzando non si ritiene in grado di compiere le attività richieste egli deve rifiutarle perché, in caso contrario, se ne assume la responsabilità (c.d. colpa “per assunzione”).

In conclusione, la scelta in ordine alla composizione dell’equipe operatoria (anche in considerazione della natura dell’intervento chirurgico) che preveda la presenza dello specialista e dello specializzando non è connotata da profili di illegittimità e/o di illiceità.


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