Finita l’emergenza sanitaria Covid-19, compressione ed elisione della tutela della privacy diventeranno regola e non più eccezione?

Avv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.
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Con una articolatissima pronunzia, la Corte di Cassazione (sez. III Civile, sentenza 19 aprile 2018 – 18 aprile 2019, n. 10812) torna a occuparsi del delicato rapporto tra condotta del medico e danno dipendente da fattori naturali.
IL FATTO
I sigg. V.G. e M.G. – in proprio e nella qualità di esercenti la potestà sulla figlia minore V.M. , agivano in giudizio per il risarcimento dei danni sofferti in conseguenza dei danni neonatali subiti da V.M., in occasione della nascita avvenuta l’(…), presso la divisione di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale (omissis).
Sia il Tribunale che la Corte di Appello dichiaravano la responsabilità della C., medico quel giorno in servizio presso la suindicata divisione di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale (omissis) , “per non avere sottoposto la M. a tutti gli esami strumentali necessari ed imposti dai dati obbiettivi per accertare la grave sofferenza di un feto e le condizioni di un altro, in parto gemellare, al fine di assicurare un rapido trasferimento della puerpera per il parto presso altra struttura attrezzata con Unità di Terapia Intensiva Prenatale (UTIN)”.
Sulla base della CTU disposta ed espletata in sede di giudizio di appello, la Corte di secondo grado ha ritenuto non addebitabile “la sintomatologia dolorosa lamentata dalla M. al momento del ricovero… ad una minaccia di parto pre-termine, ma, piuttosto al distacco intempestivo di placenta, non diagnosticato e trattato con tocolitici, mentre sarebbe stato urgente il taglio cesareo, per scongiurare danni al feto”; ha per converso “accertato il nesso di causalità materiale tra la condotta omissiva colposa dei sanitari del (…) – consistita nel non praticare il parto cesareo all’insorgere della sofferenza fetale connessa alla crisi di bradicardia, che i predetti non hanno neppure diagnosticato – ed il danno, essendosi la suddetta condotta posta come antecedente idoneo a generarlo, in base al criterio di probabilità relativa del più probabile che non”.
Il Giudice di appello ha, per altro verso, riformato la sentenza del Tribunale nella parte in cui ha ritenuto nel caso non rilevante anche il “distress respiratorio da deficit di surfattante – e, quindi la esistenza di un fattore naturale non imputabile idoneo a generare l’evento dannoso”, pervenendo ad assegnare a quest’ultimo un’incidenza “in misura preponderante sul danno”, nella misura di due terzi.
Ha, pertanto, rideterminato l’ammontare a titolo di risarcimento dei danni liquidato in favore della minore M., calcolandolo sulla base delle Tabelle di Milano, aggiornate al 2014, con aumento del 15% dell’individuato punto tabellare d’invalidità a titolo di personalizzazione e successiva riduzione di due terzi.
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Suprema Corte assume che è stato accertato che la M., “non riuscendo ad avere figli, dopo un primo nato nel 1980 a seguito di gravidanza naturale a termine e dopo una successiva interruzione volontaria della seconda gravidanza, si è rivolta al Dott. Ci. Ca., che l’ha sottoposta ad inseminazione artificiale omologa intraperitoneale, dalla quale è derivata la gravidanza gemellare per cui è causa.
La M. era, ed è, affetta da talassemia minor, che ne determina l’anemia.
In occasione dell’ultimo controllo presso il suo studio professionale la sera del 7 settembre 1993, il Dott. Ci. … dopo l’esame dei feti, uno corrispondente alla trentesima settimana e l’altro alla trentunesima, mentre la gravidanza era giunta alla trentaduesima settimana e stante la riscontrata differenza di peso tra gli stessi, uno dei quali di kg 1,50 e l’altro di kg. 1,00… le
consigliò di sottoporsi ad un esame specialistico di flussimetria doppler”.
Risulta, altresì, accertato che “il giorno successivo la M. , intorno alle 12,00, ha cominciato ad accusare forti dolori addominali, con contrazioni uterine ad intervalli regolari, delle quali ha riferito telefonicamente, alle 12,30, al predetto Dott. Ci.
Questi le ha consigliato di recarsi presso il più vicino ospedale.
Di qui la scelta di andare all’ospedale (omissis), dove è giunta alle ore 14,00 circa e dove è stata visitata dal Dott. F. , che ha riscontrato che il cerchiaggio era ben posizionato, prescrivendo un tracciato cardiotocografico, e terapia farmacologica cortisonica e tocolitica.
Il Dott. F. ha cessato il turno alle 14.30 circa.
La terapia è stata proseguita dalla Dott. C. , giunta in servizio nel turno successivo a quello del Dott. F.
La predetta ha, inoltre, sottoposto la M. a tracciato cardiotocografico (con apparecchio non di ultima generazione e, quindi, non in grado di verificare contemporaneamente due feti), dalle ore 15,23 alle ore 15,58 e, inoltre, prescritto alla paziente assoluto riposo a letto.
Intorno alle ore 19,00, in presenza di forti e dolorose contrazioni uterine, il primario, Dott. R., nel frattempo sopraggiunto, ha eseguito un esame ecografico, in sala operatoria, praticandole, dopo circa novanta minuti, il taglio cesareo, da cui è nata, alla ore 20,30 circa, la piccola M., nonché un secondo feto morto.
Risulta, altresì, che subito dopo la nascita M. ha subito una crisi di ipossia prolungata, superata a seguito di intervento di rianimazione, con massaggio cardiaco, ossigenoterapia e cortisone.
La neonata è stata trasferita in autoambulanza… all’ospedale Aiuto Materno di (…), Divisione di neonatologia e terapia intensiva.
Ivi è giunta poco dopo le ore 2.00 del giorno (…).
Durante il viaggio ha subito altre due crisi di ipossia, di cui una con arresto cardiaco, risolto con massaggio cardiaco e stimolazione.
Dal contenuto della cartella clinica redatta dai medici della divisione di neonatologia e terapia intensiva dell’ospedale Aiuto Materno di (…) si evince che la causa della grave encefalopatia della minore è stata individuata nelle crisi ipossiche subite dopo la nascita, a loro volta causate da deficit da surfactante, o malattia da distress (o delle membrane ialine)”.
Ciò premesso la Suprema Corte chiarisce che la struttura sanitaria risponde a titolo contrattuale dei danni patiti dal paziente:
a) per fatto proprio, ex art. 1218 c.c., ove tali danni siano dipesi dall’inadeguatezza della struttura;
b) per fatto altrui, ex art. 1228 c.c., ove siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui essa si avvale.
La responsabilità contrattuale della casa di cura non rimane esclusa in ragione dell’insussistenza di un rapporto contrattuale che leghi il medico alla struttura sanitaria, in tale ipotesi operando il principio dell’appropriazione o dell’avvalimento dell’opera del terzo di cui all’art. 1228 c.c.
La Corte ribadisce che, in base alla regola di cui all’art. 1228 c.c. (come quella di cui all’art. 2049 c.c.), il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde, dunque, anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, ancorché non siano alle sue dipendenze.
La responsabilità per fatto dell’ausiliario (e del preposto) prescinde, infatti, dalla sussistenza di un contratto di lavoro subordinato, irrilevante essendo la natura del rapporto tra i medesimi intercorrente ai fini considerati, fondamentale rilievo viceversa assumendo la circostanza che dell’opera del terzo il debitore comunque si sia avvalso nell’attuazione della propria obbligazione, ponendo la medesima a disposizione del creditore, sicché la stessa risulti a tale stregua inserita nel procedimento esecutivo del rapporto obbligatorio.
La responsabilità che dall’esplicazione dell’attività di tale terzo direttamente consegue in capo al soggetto che se ne avvale riposa, infatti, sul principio “cuius commoda eius et incommoda” o, più precisamente, come detto, dell’appropriazione dell’attività altrui per l’adempimento della propria obbligazione, comportante l’assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino.
Né, prosegue la Corte, “al fine di considerare interrotto il rapporto in base al quale il debitore è chiamato a rispondere, vale distinguere tra comportamento colposo e comportamento doloso
del soggetto agente (che della responsabilità del primo costituisce il presupposto), essendo al riguardo sufficiente (in base a principio che trova applicazione sia nella responsabilità contrattuale che in quella extracontrattuale) la mera occasionalità necessaria”, sicchè “la struttura sanitaria risponde direttamente di tutte le ingerenze dannose che al dipendente o al terzo preposto (medico), della cui opera comunque si è avvalso, sono state rese possibili dalla posizione conferitagli rispetto al creditore/danneggiato, e cioè dei danni che ha potuto arrecare in ragione di quel particolare contatto cui è risultato esposto nei suoi confronti il creditore (nel caso, la gestante/partoriente e il feto/neonato)”.
La struttura sanitaria è, quindi, direttamente responsabile allorquando l’evento dannoso risulti da ascriversi alla condotta colposa posta in essere dal medico, della cui attività essa si è comunque avvalsa per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale.
È, dunque, importante “delineare i criteri valevoli a delimitare la giuridica rilevanza delle conseguenze dannose eziologicamente derivanti dal danno evento costituenti integrazione del rischio specifico posto in essere dalla condotta (dolosa o) colposa del debitore/danneggiante, che a tale stregua solo a carico del medesimo, e non anche sul creditore/danneggiato, debbono conseguentemente gravare”.
In presenza di danni conseguenza (aggravamento/morte) costituenti effetto o delle eccezionali condizioni personali del danneggiato (es., emofilia, cardiopatia, rara allergia) o del fatto successivo del terzo, e in particolare del medico (cura errata, errato intervento medico), non può, secondo la Suprema Corte, pervenirsi a ridurre o escludere anche il relativo risarcimento in favore della vittima.
Il danneggiato rimane, infatti, agli stessi specificamente esposto in conseguenza dell’antecedente causale determinato dalla condotta colposa (o dolosa) del debitore/danneggiante, quest’ultimo dovendo pertanto risponderne (anche) sul piano risarcitorio.
Diverso è, viceversa, il caso in cui si sia in presenza di un pregresso fattore naturale non legato all’altrui condotta colposa da un nesso di interdipendenza causale.
Allorquando, come nella specie, “un pregresso fattore naturale non imputabile venga individuato quale antecedente che, pur privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario, sia dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, ad esso non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione della struttura dell’illecito, e in particolare dell’elemento del nesso di causalità tra tale condotta e l’evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui quest’ultima si inserisce”.
In altri termini “confermata la validità del principio causale puro (c.d. all or nothing), non essendo ammissibile la comparazione tra causa umana imputabile e causa naturale non imputabile ma solo tra comportamenti umani colposi, deve ribadirsi che la valutazione equitativa attiene propriamente non già all’accertamento del fatto costitutivo del danno risarcibile, e in particolare ad uno degli elementi della struttura dell’illecito e dell’inadempimento qual è – unitamente alla condotta e all’evento – il nesso di causalità, bensì alla – logicamente successiva
(all’accertamento dell’an dell’illecito o dell’inadempimento) – fase della determinazione del quantum (art. 1226 c.c.) del danno – conseguenza risarcibile”.
Unicamente all’esito dell’accertamento della sussistenza del nesso di causalità – sulla base del criterio del “più probabile che non” – tra condotta (dolosa o) colposa e danno evento lesivo, “la considerazione del pregresso stato patologico del creditore/danneggiato può invero valere a condurre ad una limitazione dell’ammontare dovuto dal debitore/danneggiante, in occasione del diverso e successivo momento della delimitazione dell’ambito del danno risarcibile e della determinazione del quantum di risarcimento”.
Sul punto, prosegue la Corte, si è affermato che sono a carico del debitore/danneggiante, costituendo integrazione del rischio specifico posto in essere dalla sua antecedente condotta (dolosa o) colposa, le conseguenze costituenti effetto:
a) delle eccezionali condizioni personali del danneggiato;
b) del fatto successivo del terzo.
Ove sia possibile pervenire ad attribuire a tale antecedente una concorrente – seppure autonoma – incidenza causale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica del paziente/danneggiato, trattandosi di ipotesi di concorso di più cause efficienti nella determinazione del danno, va invero “escluso che possa farsene derivare l’automatica riduzione dell’ammontare risarcitorio dovuto alla vittima/danneggiato in proporzione del corrispondente grado percentuale di incidenza causale”.
Essendo stata, nel caso di specie, “accertata la sussistenza di una (eccezionale) ipotesi di pregresso fattore naturale non ascrivibile a condotta umana imputabile, priva di incidenza causale sulla (successiva e autonoma) condotta colposa dei sanitari che hanno assistito al parto, al detto fattore naturale non imputabile (privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario, ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata) non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l’evento dannoso, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno”.
Il principio sancito dalla Corte di Cassazione è, in conclusione, il seguente.
“Al fattore naturale non imputabile privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario, ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l’evento dannoso (appartenendo a una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce la condotta del sanitario) bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire – sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concrete – solamente a una delimitazione del quantum del risarcimento”.









Con l’ordinanza 16 aprile 2018 – 26 febbraio 2019, n. 5487 la Corte di Cassazione fornisce alcuni chiarimenti sui criteri relativi alla distribuzione dell’onere della prova in materia di responsabilità medica.
IL FATTO
In data (OMISSIS), alle ore 18.30, G.G.R. decedeva a seguito di un malore occorsogli, pochi minuti prima, mentre era in auto con la moglie B.M.A. e la figlia S.
Lo stesso, lamentando “dolore al fianco sinistro” anche da “digitocompressione dell’emicostato sinistro”, era stato appena visitato, alle 17.45 dello stesso giorno, da un medico del Presidio della Guardia Medica di (OMISSIS) (struttura alla quale si era rivolto, per la stessa ragione, già i precedenti (OMISSIS), essendogli in entrambe tali occasioni somministrato, in via intramuscolare, un antidolorifico, con prescrizione di un controllo dal medico curante), essendo, anche in quel caso, “rinviato a domicilio”.
A seguito di denuncia – querela contro ignoti, il procedimento penale si chiudeva con un provvedimento di archiviazione, che recepiva le conclusioni dal consulente nominato dalla Procura della Repubblica di Venezia nella propria relazione.
Tale elaborato pur rilevando che “l’invio del G., il (OMISSIS), presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di (OMISSIS) (struttura ubicata nello stesso edificio del Presidio di Guardia Medica) avrebbe quantomeno permesso di defibrillare il paziente e quindi di consentire al Sig. G. maggiori probabilità di sopravvivenza”, concludeva che “la grandezza statistica di tale probabilità, da un punto di vista penalistico, non assurge(va) però ai richiesti parametri della “ragionevole certezza”” dell’esito salvifico, potendo, nondimeno, trovare ampia dignità in responsabilità civile, a fronte dell’assunto giuridico del cosiddetto più probabile che non”.
La moglie e i figli del defunto, quindi, convenivano in giudizio civile la AULSS n. (OMISSIS), affinchè la stessa, riconosciuta responsabile del decesso del loro congiunto, per fatto del personale operante presso il suddetto Presidio di Guardia Medica, fosse condannata a risarcire i danni ad essi cagionati.
In primo grado la domanda veniva accolta.
La Corte di Appello di Venezia riformava la sentenza, escludendo la responsabilità della struttura.
Rilevava il Giudice di appello che il Tribunale aveva attribuito rilevanza causale “al fatto della mancata presenza del G. presso il PS al momento dell’episodio, presumibilmente ischemico, che lo condusse al decesso e, quindi, al fatto del mancato utilizzo tempestivo del defibrillatore.”
L’omissione imputata ai sanitari del Presidio di Guardia Medica, quindi, “non si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di danno, ma si configura come una sorta di occasione mancata, riferita al luogo di soccorso in collegamento con il mancato utilizzo del defibrillatore, ovvero una circostanza priva di efficacia causale o concausale.”
Precisa la Corte di appello che “non vi è riscontro probatorio circa la presenza di personale di PS pronto ad intervenire immediatamente con il defibrillatore e, soprattutto, non è dato sapere (essendo impossibile dirlo, secondo la stessa valutazione fatta dal consulente del Pubblico Ministero in sede penale) se il suo utilizzo sarebbe stato salvifico, e ciò anche in ragione del fatto che il decesso è stato quanto mai improvviso e repentino”.
Su tali premesse la Corte di appello ha rigettato la domanda risarcitoria, rilevando che nè il Tribunale né il consulente del Pubblico Ministero avevano spiegato “in base a quali regole o dati scientifici si poteva sostenere che le possibilità di sopravvivenza del G. certamente sussistevano”, senza neppure esplicitare quale fosse tanto “la grandezza statistica delle asserite maggiori probabilità di sopravvivenza, quanto i dati scientifici di supporto di detto assunto.”
Contro la decisione della Corte di Appello è proposto ricorso per cassazione con il quale si lamenta che la sentenza impugnata non si sarebbe curata di accertare “se la diligenza dei sanitari della Guardia Medica fosse stata provata (come era suo onere) dalla convenuta, così realizzando una prima violazione del principio della vicinanza della prova, e ciò, oltretutto, avendo parte attrice evidenziato quali fossero i profili di negligenza imputati ad essi.”
I sanitari, invero, si sarebbero limitati “chi a consigliare un controllo del medico curante (eventualmente anche per un’impegnativa di elettrocardiogramma) chi invece a somministrare una terapia con antinfiammatori non steroidei, senza disporre essi stessi l’elettrocardiogramma, o un rilievo per la Tropomina 1, oppure l’emo-gasanalisi, mostrando così di reputare non grave nè urgente la situazione clinica del paziente.”
I familiari del paziente deceduto, invero, dopo aver provato il contatto sociale tra il paziente e la struttura precisano che “la prescrizione – da parte di uno dei sanitari che ebbero in cura il paziente – di accertamenti più approfonditi, al fine di scongiurare la presenza di una patologia cardiaca, avrebbe evitato la morte del G. per attacco ischemico” e che la struttura sanitaria non aveva fornito la prova che all’esito della loro esecuzione “nulla sarebbe stato riscontrato sotto il profilo cardiologico.”
La sentenza della Corte di Appello, inoltre, sarebbe errata laddove afferma (in assenza di riscontri in tal senso) che “i sanitari si sarebbero addirittura comportati con diligenza, giacchè senza le risultanze degli esami che furono, invece, omessi non può in alcun modo essere provato che i sintomi di un’ischemia non vi fossero.”
In conclusione, secondo i ricorrenti, “poichè la morte del G. fu causata da un problema cardiaco e l’esecuzione degli esami omessi avrebbe consentito una diagnosi tempestiva e permesso di monitorare la situazione, evitando la morte per ischemia”, sarebbe spettato alla struttura sanitaria “provare che la morte sarebbe egualmente avvenuta oppure che la sua causa andava rinvenuta in altro evento imprevisto e/o imprevedibile.
E ciò, a maggior ragione, a fronte delle risultanze di una consulenza secondo cui gli accertamenti diagnostici omessi e l’utilizzo del defibrillatore il giorno della morte avrebbero consentito la sopravvivenza del paziente, secondo la regola del più probabile che non.
Si contesta, infine, l’affermazione della Corte di appello secondo cui “non vi è riscontro probatorio circa la presenza di personale di PS pronto ad intervenire immediatamente con il defibrillatore e, soprattutto, non è dato sapere se il suo utilizzo sarebbe stato salvifico, atteso che l’incertezza sulla sussistenza del nesso causale grava sul presunto danneggiante (struttura/medico) e non sul paziente.”
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Suprema Corte accoglie il ricorso con alcune precisazioni.
La Corte, preliminarmente, ribadisce i principi in tema di responsabilità per attività medico – chirurgica, precisando che “nei giudizi risarcitori da responsabilità sanitaria, si delinea un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle.
Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante.
Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto).”
Ne consegue, dunque, che “la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerti la causa del danno o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto. Il ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile.”
Nel caso di specie, prosegue la Suprema Corte, gli eredi del paziente deceduto dovevano dimostrare che l’omissione addebitata ai sanitari era stata “più probabilmente che non” la causa del decesso, ovvero, che l’intervento omesso avrebbe “più probabilmente che non” scongiurato l’evento letale.
Seppur errano i ricorrenti nel sostenere che “nei giudizi per malptractice sanitaria, l’incertezza sulla sussistenza del nesso causale tra evento dannoso e condotta dei sanitari grava sul presunto danneggiante (struttura/medico) e non sul paziente”, sottolinea la Corte che la sentenza impugnata è egualmente incorsa in una falsa applicazione delle norme in tema di accertamento del nesso causale “avendo operato – erratamente – una segmentazione della complessiva condotta omissiva della struttura sanitaria, indicata dagli attori come potenzialmente idonea a cagionare il decesso del G.”
La Corte di appello, invero, avrebbe incentrato la propria valutazione esclusivamente sull’ultimo episodio (in cui l’uomo ebbe a rivolgersi ai medici del Presidio della Guardia Medica di (OMISSIS), limitando la propria indagine alla verifica se, prontamente inviato lo stesso presso il Pronto Soccorso, sarebbe stato possibile sottoporlo ad un intervento salvifico, mediante defibrillazione.
L’attenzione del giudice di appello, tuttavia, si è concentrata su un singolo episodio, inserito in una sequenza più ampia, considerato che il G., già il (OMISSIS) ed il (OMISSIS), ebbe a rivolgersi ai sanitari di quella stessa struttura, per lamentare, anche in quei casi, dolore al fianco sinistro anche da digitocompressione dell’emicostato sinistro.
In entrambe tali occasioni, tuttavia, il solo intervento praticato consistette nella somministrazione, in via intramuscolare, di un antidolorifico, con prescrizione di un controllo dal medico curante, senza che si fosse reputato necessario disporre ulteriori accertamenti di natura cardiologica.
Errato è, dunque, considerare – come ha fatto la decisione impugnata – la mancata presenza del G. presso la struttura di Pronto Soccorso come una mera “occasione mancata”, per giunta affermando che essa “non si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di danno.”
Quello indicato è stato, infatti, solo l’ultimo anello di una catena di omissioni che andavano tutte adeguatamente indagate, specie di fronte delle risultanze della consulenza tecnica disposta in sede penale, ritenuta, peraltro, sufficiente dal primo giudice per l’accoglimento della domanda risarcitoria.
La Corte di Appello di Venezia, precisa la Suprema Corte, avrebbe operato un’indebita “parcellizzazione” dei singoli episodi in cui si articolava l’unitario contegno omissivo addebitato alla struttura sanitaria “ignorando del tutto i due che hanno preceduto quello del (OMISSIS), sul quale ha concentrato la propria attenzione, disattendo, per giunta, le risultanze di un elaborato (quello predisposto in sede penale) che offriva elementi idonei a riscontrare positivamente l’ipotesi della sussistenza del nesso causale, senza fare neppure ricorso ad un’ulteriore indagine tecnica che potesse affiancare, integrandola, la prima.”