Dott. Ranieri de Maria, giurista, sociologo della salute e bioeticista, si interessa dei temi del rapporto terapeutico. Ha insegnato diritto pubblico, bioetica e sociologia sanitaria in diverse università.
È membro del Consiglio della Fondazione Chirurgo e Cittadino.
Lo sviluppo della medicina come autonoma branca della conoscenza ha coinciso con l’imporsi del modello operativo del metodo scientifico sperimentale, basato fondamentalmente sull’analisi sistematica, attraverso l’osservazione e la sperimentazione dei fenomeni e dell’organizzazione degli stessi, e sulla loro interpretazione. Caratteristica di questo metodo è la netta distinzione fra soggetto osservante e oggetto osservato, la formulazione di ipotesi e loro verifica mediante l’esperienza, all’interno di un paradigma concettuale predefinito e condiviso. In tale paradigma l’ambito conoscitivo della scienza non è la verità in sé, bensì l’esattezza delle ipotesi date, ai fini di una prevedibilità di regolarità di occorrenze, definite leggi di natura.
Conseguenza del metodo è l’adozione nella pratica medica del modello riduzionistico. Esso trae origine dal dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, e conduce a ritenere la malattia una deviazione meccanica dalla regola di variabili biologiche misurabili, e quindi oggettive, risultante dall’azione di cause definibili con effetti prevedibili. La malattia diviene quindi un “guasto” capace di manifestarsi oggettivamente, qualcosa che oppone resistenza e può essere spezzato, e ciò consente di individuarlo e di tentare di ripararlo. Il medico è considerato come l’esperto tecnico che, sulla scorta delle sue conoscenze, è in grado di identificare la malattia e di stabilire la soluzione più efficace: di riparare il guasto.
«In questa prospettiva il malato diviene quasi un accessorio, un complesso di organi e funzioni, portatore della malattia e recettore passivo delle decisioni del medico. Il parossismo della scientificità medica trova coagulo nella figura estetica del medico che, in perfetta antitesi con lo stregone, tratta la malattia come mero fenomeno, senza preoccuparsi del paziente, che egli non vede, non osserva, non interroga, se non attraverso gli occhi tecnici degli esami clinici, e che, al limite, non cura. […] Se può, spesso, risolvere la sua malattia, egli non si fa carico del paziente, il quale non è percepito come un individuo, un’unità psicofisica della quale ristabilire l’equilibrio e della cui felicità preoccuparsi, bensì come un mero portatore di sintomi, da cui eradicare il male attraverso il metodo sperimentale. Significativo il motto principale di questa figura estetica: “sono diventato medico per curare le malattie, non le persone”» (de Maria).
La distinzione tra anima e corpo, tra mente o intelletto e fisico, tra spirito e carne e ossa, è in realtà un tratto culturale che non ha alcun fondamento scientifico, che deriva dalla tradizione aristotelica prima e giudaico-cristiana poi. Il neuroscienziato statunitense di origine portoghese Antonio Damasio critica l’idea cartesiana secondo cui sarebbe il controllo delle tendenze animali attraverso pensiero, ragione e volontà a renderci umani. Poiché il complesso mente-cervello è organismo indissolubile, egli critica il concetto di un controllo ottenuto mediante un agente non fisico, che non potrebbe essere pensato come avulso dalla dimensione corporale. Ciò non comporta un materialismo integrale, perché, invece, la comprensione della cultura e della civiltà «richiede tanto la neurobiologia e la biologia generale quanto le metodologie delle scienze sociali». Ne consegue che la distinzione tra res cogitans e res extensa è un’illusione. Il medico non può illudersi di curare solo il corpo, perché corpo e mente non sono separati e distinguibili, e l’oggetto dell’agire del medico è l’individuo, la persona nella sua complessità e completezza.
Il distacco fisico e psicologico dal paziente, proprio della Evidence Based Medicine, genera due effetti negativi. Diminuiscono i dati a disposizione del medico, capaci di orientare correttamente la sua azione, e diminuisce l’appropriatezza, affidata a soli modelli teorici, come linee-guida, buone pratiche o protocolli sperimentati. Ben più grave, l’oggettivazione dell’individuo toglie valore persino al fine assoluto, kantiano, della salvezza della vita del paziente, pretto oggetto sperimentale. L’oggettivazione riduce l’essere umano ad hardware, strumento e non fine dell’azione, che oltrepassa l’umanità del curare infirmos per raggiungere finalità psicologiche diverse (l’adempimento di un dovere di ufficio, il progresso della conoscenza, il tacitamento della coscienza morale, l’indulgere nel piacere intellettuale, la coltivazione dell’autostima, etc.). È evidente che in questa prospettiva è impossibile un modello deliberativo dei rapporti della salute, è impossibile una reale negoziazione della salute, è impossibile una corretta relazione terapeutica: è impossibile l’alleanza terapeutica.
Il paradosso contenuto nell’oggettivazione del paziente appare di tutta evidenza ove si consideri che l’esigenza di assoluta oggettività che caratterizza la medicina tecnico-scientifica contemporanea è in realtà del tutto fittizia, poiché l’oggetto della terapia è comunque costituito da soggetti, da individui, portatori di valori, idee e sentimenti.
È inoltre soggetto stesso il medico, il quale nella propria attività, che lo desideri o meno, che ne sia cosciente o meno, coinvolge nel profondo la propria soggettività, trasfondendo necessariamente nel trattamento un apporto psicologico decisivo ed essenziale.
«Sarebbe degno di lode se ci si rendesse conto delle differenze che esistono tra la medicina scientifica e la vera e propria arte medica. In fondo si tratta del divario che sussiste tra un sapere generale e l’applicazione concreta di tale sapere al caso singolo […] si può studiare il sapere in generale, ma non la sua applicazione particolare, che invece deve maturare lentamente attraverso la propria esperienza e la propria capacità di giudicare» (Gadamer).
L’arte medica è una delicata sintesi fra la scienza e la tecnologia, ma a questa sintesi devono sempre venire aggiunte l’esperienza sapiente e l’identità personale del medico. Senza umanità non esiste medicina. Senza umanità non esiste medico. Per poter curare, il medico infatti deve essere “soggetto” e considerare tale anche l’infermo; egli, insomma, non può pensarsi come avulso dalla sua condizione di umana fragilità, anche fisica.
Sovviene la nota frase di Nietzsche, «Medico aiuta te stesso. Così aiuti anche il tuo paziente kaletra precio. Questo sarà il suo miglior aiuto: vedere con i suoi occhi colui che guarisce se stesso».
Un medico “senza ferita” non è in grado di fare la sua parte per attivare il processo naturale di riequilibrio a cui il paziente deve tendere, poiché non può allearsi con lui per sconfiggere una malattia che non conosce, non comprende e con la quale non ha nulla a che fare. Presso la popolazione Dangaleat, in Ciad, la malattia ha un valore iniziatico: non si diviene medico se non attraverso il percorso della malattia, e per il fatto stesso di esser stati malati (Pouillon). E lo stesso mito di Chirone è molto significativo in questo senso.
L’attività terapeutica è caratterizzata da un’insopprimibile qualità dialogica. Nell’ambito della medicina, il dialogo non
rappresenta una semplice introduzione o una preparazione alla cura. È già una forma di assistenza e prosegue nel trattamento successivo che deve portare alla guarigione. Il tutto si esprime anche nel termine tecnico “terapia” che deriva dal greco: θεραπεία significa servizio. Il dialogo richiede il riconoscimento dell’“altro” come interlocutore paritario; tuttavia il medico è abituato ad arroccarsi nella sua posizione di sapienza tecnica, e non abbandona facilmente il suo ruolo di demiurgo che cura il corpo e deve disinteressarsi dell’anima. La riprova si ha nella circostanza che il medico tende a essere infastidito dall’affievolirsi dell’asimmetria informativa con il paziente; il fatto che il paziente sia critico e informato spesso lo spazientisce, perché attenta al ruolo di centralità nel rapporto terapeutico a cui il medico non desidera rinunciare. Il medico si considera più facilmente un funzionario della specie che il tutore di un singolo. Egli invece dovrebbe essere in grado di guidare la relazione con il paziente, indirizzando correttamente le informazioni che gli fornisce o che già possiede. Ma il medico teme la sofferenza del paziente, e la sua morte, teme il fallimento, ossia non essere capace di salvare il paziente dalla sofferenza e dalla morte, e, soprattutto, nel contempo teme di condividere questa sofferenza. Teme quello che viene chiamato “emotional distress”, di veder vulnerata – soprattutto con se stesso – la propria immagine nel proprio ruolo. Quindi il distacco psicologico, la fuga dall’empatia è una forma di difesa, attitudine incoraggiata dal frequente indulgere nell’“errore di Cartesio” della Evidence Based Medicine. Ma è possibile prendersi cura di un paziente, curarlo e perseguire la sua salute, aiutandolo a migliorare la sua autonomia personale, a esercitare le sue competenze e a coltivare le sue relazioni, senza comprendere la sua condizione? È possibile ottenere dal paziente attenzione, fiducia e compliance senza dimostrare di comprendere la sua condizione e la sua sofferenza? Può insomma il medico perseguire la salute del paziente senza costruire con lui un’alleanza terapeutica? Può il medico costruire un’alleanza terapeutica con il paziente senza conoscere i suoi interessi, i suoi desideri, le sue paure?
Può, insomma, fare il medico senza empatia?
«Le doti morali per essere un buon medico sono la saggezza, la giustizia, la liberalità, l’affabilità e lo spirito di sacrificio. Doti tutte, codeste, che presuppongono, per svilupparsi nel discente,
un fondamento di bontà d’animo e di amore […] L’affabilità è la chiave magica per aprire lo scrigno in cui sono custoditi i pensieri che caratterizzano la personalità umana, che il medico deve conoscere se vuole sollevarne la sofferenza, infondendole fede e speranza […] Io dico che vero Medico è chi sa penetrare e scrutare nell’anima dei suoi malati» (Condorelli).
Ma cosa è l’empatia? Etimologicamente significa “sentire dentro”. Ma l’empatia non è il “soffrire e gioire con l’altro”, è la capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui, ossia stabilire un contatto emotivo. È dunque un processo: essere con l’altro. Questo carattere profondamente “umano” dell’empatia ha fatto sì che essa venga tradizionalmente considerata come una “competenza non tecnica” dell’operatore della salute, qualcosa che non si impara e che fa parte del bagaglio personale dell’individuo, del carattere. In quanto caratteristica personale, e quindi soggettiva, l’empatia non viene neanche immaginata come strumento operativo del medico, ed è erroneamente considerata né essenziale né importante nell’attività professionale.
In realtà è possibile definire con precisione l’empatia nelle cure mediche, e persino misurarla. La Thomas Jefferson University ha realizzato un metodo per la misurazione dell’empatia dei medici, il Jefferson Scale of Empathy, tradotto in 56 lingue e utilizzato in 85 Paesi (https://www.jefferson.edu/university/skmc/research/research-medical-education/jefferson-scale-of-empathy.html).
«Empathy in patient care» è stata definita come «a cognitive attribute that involves an ability to understand the patient’s pain, suffering, and perspective combined with a capability to communicate this understanding and an intention to help» (Hojat, 2016).
Uno studio TJU – tra gli altri – ha mostrato che 891 pazienti diabetici curati da medici più empatici hanno avuto outcomes clinici migliori (Hojat et al., 2011). Esistono molti altri studi, anche recenti, che dimostrano come «patients’ perceptions of the physicians’ empathy predict health outcomes» (Mercer).
L’empatia è quindi una competenza tecnica professionale del medico, essenziale per l’esercizio della sua attività, e, come tale, deve essere insegnata al medico e da lui appresa ed esercitata.
Innumerevoli studi dimostrano peraltro che le capacità empatiche dell’operatore della salute possono essere sviluppate attraverso uno specifico addestramento all’uso di tecniche di comunicazione adeguate (ex multis, solo tra i più recenti: Yamada et al.; Kaplan-Liss et al.; Kataoka et al.).
La valutazione delle capacità comunicative ed empatiche del medico deve fare parte della formazione e della formazione continua. Un medico incapace di empatia è infatti mutilato nelle sue capacità e attitudini professionali, e deve fare ogni sforzo per addestrarsi a porre in essere comportamenti empatici.
La funzione dell’arte medica è prendersi cura degli uomini. In questo, si tratta dell’attività più alta e nobile. Ma solo se non perde di vista la sua umanità.
Bibliografia
Campo R. (1998). The Desire to Heal: A Doctor’s Education in Empathy, Identity, and Poetry. New York: W.W. Norton & Co.
Condorelli L. (2015). Sull’educazione etica del Medico. Roma: De Luca.
Damasio A.R. (1994). Descartes’ Error: Emotion, Reason and the Human Brain. New York: Avon Books
de Maria R. (2009) (a cura di). Rischio clinico e negoziazione della salute. Milano: FrancoAngeli.
Gadamer H.G. (1994). Dove si nasconde la salute. Milano: Cortina.
Hojat, M. et al. (2011). Physicians’ empathy and clinical outcomes for diabetic patients. Academic Medicine, 86, 3: 359. DOI: 10.1097/ACM.0b013e3182086fe1.
Hojat M. (2016). Empathy in Health Professions. Education and Patient Care. Zurich: Springer.
Halpern J. (2011). From Detached Concern to Empathy: Humanizing Medical Practice. New York: Oxford University Press.
Kaplan-Liss E. et al. (2018). Teaching Medical Students to Communicate With Empathy and Clarity Using Improvisation. Academic Medicine, 93, 3: 440. DOI: 10.1097/ACM.0000000000002031.
Kataoka H. et al. (2019). Can communication skills training improve empathy? A six-year longitudinal study of medical students in Japan. Medical Teacher, 41, 2: 1. DOI: 10.1080/0142159X.2018.1460657.
Mercer S.W. et al. (2016). General Practitioners’ Empathy and Health Outcomes: A Prospective Observational Study of Consultations in Areas of High and Low Deprivation. The Annals of Family Medicine, 14, 2: 117. DOI: 10.1370/afm.1910.
Nietzsche F. (1976). Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno. Milano: Adelphi.
Pouillon J. (1993). Le cru et le su. Paris: Seuil.
Yamada Y. et al. (2018). Changes in Physicians’ Intrapersonal Empathy After a Communication Skills Training in Japan. Academic Medicine, 93, 12: 1821. DOI: 10.1097/ACM.0000000000002426.