Psicologia

Me, identità alimentare e anoressia nervosa: una visione diagnostica e clinica

Dr. Vittorio Catalano, Attività indipendente nell’ ambito della psicologia clinica ad approccio analitico, delle neuroscienze, del coaching psicologico ed in ambito psicoeducazionale, focalizzati sulla cura, la prevenzione, e la promozione della salute psicosociale, Cagliari
blank

La parola identità, [dal latino identitas, da idem (“stessa cosa”), che riproduce il lemma greco ταὐτότης], è un termine e un principio filosofico che genericamente indica l’eguaglianza di un oggetto rispetto a sé stesso. In relazione ad altri oggetti l’identità, è tutto ciò che rende un’entità definibile e riconoscibile, perché possiede un insieme di qualità o di caratteristiche, che la rendono ciò che è distinguendola da tutte le altre entità.
Il prof. William James nel suo lavoro “Principi di Psicologia”, introduce il concetto di identità (Sé empirico) o Me, con la definizione “la somma complessiva di tutto ciò che un individuo può dire suo: non solo il proprio corpo e le sue facoltà psichiche, ma i propri abiti, e la sua casa, sua moglie, i figli, gli antenati e gli amici, la propria reputazione, e il suo lavoro, le sue terre, e i suoi cavalli, la propria barca, e il conto in banca”. Propone poi, un ulteriore suddivisione degli elementi costitutivi del sé: il sé materiale, costituito da corpo, abiti, famiglia, amici, dalla casa … ; il sé sociale, ossia il riconoscimento che si ottiene dai propri simili; il sé spirituale quale essere interiore o soggettivo dell’uomo e le sue disposizioni e facoltà psichiche; infine, l’ego puro o nucleo identitario primario, cioè, quella corrente di coscienza trascendentale e atemporale, che permette a ogni uomo di riconoscere sé stesso sempre e ovunque.
Il momento presente della conoscenza, l’istante che sfugge, diventa così, il punto più oscuro, il gancio da cui pende la catena dei sé passati, un continuo punto di partenza, che permette di riconoscerci nell’immediato, e di riconoscere gli eventi passati come parte di noi stessi.Queste evidenze riflesse, ci indirizzano verso una visione socio-clinica: il rapporto che intercorre tra la società e l’individuo, quello che intercorre tra la sofferenza dell’individuo e la sua manifestazione sociale e, infine, il rapporto che intercorre tra l’identità personale e, in questo caso, tra la classe patologica dei disturbi psicogeni del comportamento alimentare.
Esiste un’identità individuale alimentare? Come funziona? La Pediatra Clara Marie Davis, ha illustrato tutto ciò (Winnetka, Ill. U.S.A) con uno studio svolto in un orfanotrofio, trasformato in laboratorio per ricerche nutrizionali. A esso parteciparono 15 bambini, durò in totale sei anni e la permanenza dei bambini variò dai sei mesi ai quattro anni e mezzo. Venne registrata la quantità di ogni alimento mangiato o rifiutato; periodicamente venivano controllate le misure antropometriche (quali altezza e peso), monitorate le funzioni biologiche come il transito intestinale, eseguite radiografie ossee e analisi sanguigne. All’inizio del test i bambini avevano appena cominciato lo svezzamento (6-11 mesi), pertanto non conoscevano nessun altro alcun oltre il latte. Inoltre, non erano stati ancora influenzati dalle abitudini alimentari degli adulti. Durante i pasti giornalieri, gli alimenti venivano separati, quindi le operatrici non potevano – in nessun modo – stimolare i bambini a scegliere un alimento o a preferirlo a un altro. La preparazione dei cibi era molto semplice. 34 furono gli alimenti utilizzati: acqua, latte intero, latticello, sale marino integrale (proposto da solo, non per condire), frutta (mele, banane, succo d’arancia, ananas, pesche), ortaggi (pomodori, barbabietole rosse, carote, piselli, rape, cavolfiori, cavolo, spinaci, patate, lattuga), cereali (fiocchi d’avena, farina di mais, crackers di segale, grano in chicchi, orzo in chicchi), carne (manzo, agnello, midollo osseo, gelatina di ossa, pollo, animelle, cervello, fegato, rognone), pesce (merluzzo). I 15 bambini riuscirono sempre a trovare quello che volevano mangiare, avevano appetito e sono cresciuti vigorosamente. La costipazione fu rara e i lassativi non vennero mai usati. I raffreddori e le influenze durarono sempre tre giorni e senza complicazioni di alcun tipo. A parte un caso di tonsillite e un’epidemia di mononucleosi, durante i sei anni non ci furono malattie serie. Alcuni dei bambini non erano in buone condizioni prima di cominciare l’osservazione: erano denutriti e sottopeso; quattro in particolare, erano affetti da rachitismo. Nel vassoio di uno dei rachitici venne proposto anche un bicchierino con olio di fegato di merluzzo: il bambino lo sceglieva e lo beveva di tanto in tanto, fino a quando le analisi sanguigne e le radiografie mostrarono che il rachitismo era guarito. Agli altri tre bambini rachitici non venne proposto l’olio di fegato di merluzzo, ma guarirono esattamente allo stesso modo e negli stessi tempi dell’altro, senza ricevere né farmaci, né integratori, né raggi ultravioletti. Indipendentemente dalle loro condizioni iniziali, tutti i bambini giunsero alla stessa situazione di salute ottimale. L’apporto calorico giornaliero medio era nei limiti stabiliti dagli standard per la loro fascia di età, a eccezione dei bambini che erano denutriti all’inizio dell’analisi, i quali durante i primi sei mesi oltrepassarono le quantità previste. Sul totale delle calorie assunte nel corso dello studio, le proteine costituirono il 17%, i lipidi il 35% e i glucidi il 48%. A seconda del bambino e dell’età, la percentuale delle proteine variava dal 9% al 20% e diminuiva con la crescita e con l’incremento dell’attività fisica. Le diete scelte dai bambini rispecchiavano il rapporto tra nutrienti, consigliato dai pediatri e dai nutrizionisti, e ogni dieta era diversa dalle altre.
Lo studio dunque descrive ed evidenzia, l’esistenza di un meccanismo innato, che regola l’equilibrio nell’assunzione dei nutrienti essenziali, e più in generale l’alimentazione.
Ė dunque possibile evidenziare una correlazione tra il senso di identità personale, quello di identità alimentare e la terrificante azione dei disturbi alimentari psicogeni, quali l’anoressia nervosa?
Uno spunto molto eloquente, che fa chiarezza su questo quesito, è fornito dal famoso test della “prigione simulata” del prof. Philip Zimbardo. Dopo la conclusione dell’esperimento, i ricercatori chiesero agli studenti che vi avevano partecipato, di descrivere le sensazioni relative alle esperienze vissute nel carcere simulato. In una di queste interviste il numero 416 (Clay), un “detenuto” disse:
“Ho cominciato ad avere l’impressione di perdere la mia identità. La persona che chiamo Clay, la persona che mi ha messo in questo posto, la persona che si è offerta volontaria per entrare in questo carcere, perché per me era un carcere, per me è ancora un carcere, non lo considero un esperimento o una simulazione: è un carcere gestito da uno psicologo invece che dallo stato. Ho cominciato ad avere l’impressione che l’identità, la persona che ero, che aveva deciso di andare in carcere, fosse lontana da me, fosse remota, che in fin dei conti non fossi io. Io ero il “416”. Ero davvero il mio numero, e il 416 doveva decidere cosa fare, ed è stato allora che ho deciso di digiunare. Ho deciso di digiunare perché era l’unica ricompensa che le “guardie” ti davano. Minacciavano sempre di non farmi mangiare, ma dovevano darti da mangiare. E’ cosi ho smesso di mangiare. Allora ho avuto una specie di potere su qualcosa, perché avevo trovato l’unica cosa su cui non potevano farmi niente. Alla fine sarebbero stati nella merda se non mi avessero fatto mangiare. E cosi, essere capace di digiunare significava umiliarli ”. Ancora più specificamente, in uno studio qualitativo sull’ “anoressia mentale e l’identità personale” (Tan, Hope, Stewart), si è evidenziata una chiara consapevole corrispondenza nelle descrizioni delle pazienti di questa relazione duale. Intervistatore: “Che cosa significa l’anoressia nervosa per te? Figlia A: “Come ho detto prima, significa abbastanza. Risulta come se fosse la mia identità ora e risulta … suppongo di essere preoccupata del fatto che la gente non conosca, loro non conoscono la me reale”. Intervistatore: “Diciamo che sei arrivata a questo punto e che qualcuno dica di poter muovere una bacchetta magica, in modo tale che non ci sia più l’anoressia nervosa. Figlia A: “Non potrei”. L’intervistatore: “Tu non potresti?”. Figlia A: “Ė una parte di me adesso”. L’intervistatore: “Bene. Dunque sembra che stia perdendo una parte di te?” Figlia I: “Perché era la mia identità”. Intervistatore: “Chi è la tua anoressia nervosa?” Figlia C: “Non è qualcosa che tu conosci bene, un sacco di gente cerca di considerarla come una sorta di animale che si siede sulla tua spalla o qualcosa del genere; ma io la vedo come se fosse una sorta di metà della mia mente, o qualcosa del genere e posso separarla e la vedo come una parte diversa di me”.
Concludendo, gli aspetti descrittivi e di indagine, rinforzati dalle evidenze scientifiche e cliniche, mostrano una visione di questa classe di disturbi, spesso lontana dalla descrizione e rappresentazione comune che tutti noi abbiamo. Pare anche evidente che ignorare queste manifestazioni in ambito diagnostico e clinico possa lenire o inficiare qualsiasi metodologia terapeutica che mira alla risoluzione del disturbo clinico. Tale problematica è spesso evidente e riscontrabile. In generale, in tutti i disturbi riguardanti la salute mentale, nonché la psicosomatica, tenere conto di queste dinamiche può certamente essere risolutivo.