Dott. Roberto Urso – Dirigente Medico U.O. di Ortopedia e Traumatologia Ospedale Maggiore, Bologna
Il “Second-look Surgery” (tab.1), termine coniato anni orsono negli Stati Uniti, è l’approccio chirurgico su una persona affetta, il più delle volte, da una patologia neoplastica. Il paziente, attende il ciclo di chemioterapia, dopo procedura chirurgica chiamata cito-riduzione atto a ridurre le dimensioni di un tumore ovarico o del colon-retto; seguirà una procedura di second-look chirurgico per determinare se l’area è esente da cancro.
Nel settore chirurgico addominale, spesso si intende un intervento di revisione per asportazione di aderenze post-chirurgiche in pazienti affetti da endometriosi e precedentemente operati oppure in pazienti che soffrono di un blocco intestinale parziale o completo e sono a rischio di sviluppare ischemia intestinale (morte del tessuto intestinale dovuta a mancanza di ossigeno). La chirurgia risulta essere fondamentale per rimuovere il segmento malato dell’intestino e una procedura di second-look viene generalmente eseguita per garantire che rimangano solo tessuti sani e che la nuova connessione intestinale (chiamata anastomosi) stia guarendo correttamente.
In ambito ortopedico il termine Second-look non ha una vera ispirazione di origine chirurgica addominale. Se ne fa uso da tempo, in quanto eredità di maestri chirurghi che sovente lo inserivano nella dicitura chirurgica per spiegare un secondo intervento ortopedico a riparazione di un primo intervento che non aveva portato a risultato ottimale.
Nel campo ortopedico gli interventi chirurgici di Second-look possono essere applicati a tutti i segmenti scheletrici del corpo umano, ma in questa sessione ci dedicheremo a case report inerenti una chirurgia definita “di precisione”.
Sappiamo che chirurgicamente il femore, la tibia o comunque ogni altro grosso segmento osseo, può perdonare molto nell’ambito dell’allineamento; al contrario, la chirurgia dei piccoli segmenti è lavoro di precisione, accurato, che necessita non solo di esperienza e abilità chirurgica, ma anche di tempo e delle più moderne tecnologie che permettano di arrivare a un risultato finale ottimale.
Il second-look dei grossi segmenti il più delle volte è dovuto a un fallimento determinato da una rottura di placca, chiodo e altro mezzo di sintesi metallica. La non guarigione del segmento osseo e la pseudoartrosi instaurata portano spesso a un cedimento strutturale, causato da uno stress di sovraccarico, sulle linee di torsione-tensione, della placca o chiodo.(fig.1)
La struttura mano-polso
La mano è una struttura ad altissima complessità e la stessa rappresenta, per l’uomo, le importanti funzionalità della prensione e del tatto.
La perfezione della sua motilità, nelle articolazioni delle 4 dita con il pollice, dà luogo al movimento della presa di opposizione, cioè a uno dei movimenti più perfetti del corpo umano, diventando così il completo organo di esecuzione dei movimenti.
La motilità delle ultime 4 dita, assieme al 1° dito opponente, è di tale precisione che determina, in sincronia con il senso della vista e il cervello, la sensazione della profondità e della dimensione degli oggetti e delle cose che ci circondano; risulta pertanto l’organo ideale per la percezione sensoriale e per la definizione e il controllo delle informazioni.
Alterando questo equilibrio, in particolar modo l’adattabilità della forma della mano alle cose, si determina una modificazione della percezione stessa delle cose e si crea, quindi, un’alterazione di quella perfetta, sincrona, funzionalità cervello-arto superiore.
Per tale motivo, se le fratture dei metacarpi e delle falangi non verranno trattate in modo adeguato, determineranno un grave disequilibrio prensionale e tattile, portando a una grave compromissione della normale vita di relazione dell’individuo.
Così come anche le fratture del polso, se non ben curate, si concluderanno in gravi deficit funzionali, determinando un outcome di pericolosa destabilizzazione della articolazione della radio-carpica.
Le fratture di polso nell’ambito delle patologie ortopediche vengono spesso sottovalutate o sottostimate, forse per causa della grande frequenza con cui si presentano, forse per l’ormai abituale sovraffollamento del pronto soccorso, forse anche dall’inesperienza. Un trattamento non adeguato di tali fratture porterà a una grave limitazione funzionale dell’articolazione del polso e a un inevitabile calo e mal utilizzo della mano, deteriorando le nostre quotidiane attività, sia esse di lavoro che di svago. Le fratture di polso hanno una classificazione complessa. Autorevoli colleghi ne hanno descritto le diverse tipologie distinguendo le fratture articolari, pluriframmentarie e a dislocazione volare (Goyrand, Smith, Gartland). Quando si parla di frattura di Colles, si intende più comunemente la frattura della epifisi distale del radio con associato il distacco della stiloide ulnare, quindi la classificazione di Frykman è, fra tutte, la più idonea. (fig.2)
Nell’ambito delle fratture di polso ve ne sono alcune molto complicate; tra queste si annovera la frattura definita “mista”, in quanto classificabile sia come tipo IV che come tipo VIII, con l’aggravante dell’interessamento articolare, dato dal collasso del muro cartilagineo centrale del radio, all’interno della spongiosa ossea. Il trattamento di siffatte fratture, con questa zone di collasso osseo, somigliante a una carie, sovente vengono affrontate con un approccio chirurgico, per cercare di ridurre il più anatomicamente possibile il piano articolare di scorrimento della filiera del carpo sul radio. Un intervento di questo tipo, tuttavia, rappresenta un’invasione di strutture nobili che, a fine riduzione e sintesi della frattura, vanno suturate e/o ricostruite.
Le fratture metacarpali e delle falangi differiscono dalle fratture dei grandi segmenti per un motivo specifico: non hanno una vera e propria classificazione.
Il chirurgo ortopedico, di fronte a un grande segmento fratturato, può definirla “sottocapitata”, “sotto trocanterica” se di fronte a un femore, “sovra-condiloidea” o del “collo chirurgico” se di fronte a un omero o ad altro grande segmento; ma sempre e comunque attribuibile a una specifica classificazione (sia essa redatta da un singolo autore sia essa riconosciuta a livello internazionale).
Le fratture dei piccoli segmenti dovrebbero subire la stessa tipologia di trattamento, ma nell’uso quotidiano vengono più comunemente definite fratture della “falange prossimale” o “intermedia”, oppure “fratture trasverse della diafisi metacarpale”, e così via…
La seguente e semplice classificazione di Barton rimane una delle più efficaci nell’ambito della traumatologia della mano (fig.3):
Nella figura 3 si possono osservare le varie tipologie fratturative, sia a livello metacarpale, che a livello falangeo.
Sono descritte le fratture ricorrenti all’osservazione del medico di Pronto Soccorso.
Le lesioni falangee e metacarpali necessitano quindi di un’accurata valutazione per decidere il trattamento più idoneo alla guarigione.
Tali fratture, quando scomposte, irriducibili o multiple, richiedono sempre un trattamento chirurgico, atto a ripristinare la perfetta riduzione della stessa.
Per l’approccio chirurgico la frattura va valutata nella sua complessità e il planning operatorio attentamente codificato.
La moderna osteosintesi ha in parte abolito tecniche attuate con fili di Kirshner o mezzi di sintesi inadeguati.
Vero è che la sintesi con i fili di Kirshner – attuale per tante indicazioni chirurgiche – applicata a una frattura spiroide, non potrà mai dare una sicurezza di buona tenuta e non garantisce l’allineamento, in quanto tali fratture ruotano su se stesse.
Se ne conclude che la funzionalità della mano va ripristinata in modo corretto e completo. Non ci si deve assolutamente accontentare. L’approssimazione non è più accettata.
La tecnologia è venuta in aiuto ai chirurghi, creando placche sempre più sottili, ma con modulo di elasticità assolutamente adeguato, composte in lega di titanio e con viti di minime dimensioni, ma da altissima tenuta.
I presidi chirurgici che ci supportano sono tali che, il più delle volte, nel post-operatorio non vengono più applicati mezzi di immobilizzazione in gesso, tutori o steccature rigide come solitamente accadeva, permettendo di mantenere libero l’arto operato diminuendo enormemente i rischi di rigidità.
Case report 1:
Paziente di sesso femminile, di anni 77; frattura del polso destro Tipo IV Frikman. Un primo tentativo di riduzione in gesso dà esito negativo. Successiva decisione di eseguire intervento chirurgico di riduzione a cielo aperto e osteosintesi con placca volare.
La paziente giunse alla nostra visione dopo circa 30 giorni dal primo intervento. La obbiettività clinica che la paziente presentava era di un polso estremamente dolente, edematoso, con retrazione cicatriziale e in blocco articolare totale (fig.2).
Una prima radiografia dimostrò un’articolazione sub-lussata dorsalmente causa instabilità dei frammenti dorsali non stabilizzati al primo intervento. Il sospetto di una compromissione articolare data da mezzi di sintesi che sporgevano in zona articolare
determinando un blocco meccanico dell’articolazione fu evidenziato dall’esame TAC, che mostrava la protrusione delle viti distali a livello articolare fino al semilunare (fig.2).
In considerazione del totale blocco articolare che comprometteva totalmente l’articolazione, si decise di eseguire un intervento di salvataggio in Second look.
Sfruttando la medesima via di accesso, con incisione a losanga per asportare la cute retratta, venne eseguito un primo scollamento dei tessuti sottostanti. La placca asportata e, come si vede nella fig. 4, la porzione ossea si presentava estremamente deteriorata; l’articolazione lussata era irriducibile, pertanto si decise di iniziare l’approccio chirurgico dorsale. Incisa la cute e caricati gli estensori, la porzione ossea rimasta beante troppo tempo risultava malacica e non aggredibile causa la friabilità. Si eseguì pulizia delle lacinie fibrotiche e successivamente, previa parziale riduzione dell’articolazione, una sintesi con placca dorsale con innesto osseo di banca (fig.5).
Tale soluzione venne adottata per ricostruire quanto meglio possibile un tetto che impedisse all’articolazione di lussarsi nuovamente in sede dorsale. Le immagini ampliscopiche (fig.3) mostrano in “range of motion” raggiunto intra-operatoriamente. La stabilità dell’articolazione radio-ulnare distale fu mantenuta da un sistema di fissazione esterna articolato di polso, dotato di archetto che mantenesse ridotta anche l’ulna distale (fig.5). Tale dispositivo lasciava libere ai movimenti le dita (fig.6) e permise di iniziare, a 14 giorni, la mobilizzazione del polso. Dopo 3 settimane fu asportato e la paziente proseguì la terapia riabilitativa con il terapista occupazionale.
A circa 50 giorni dall’intervento, le immagini della fig.7 mostrano un’articolazione radio-carpica sicuramente rigida e con un ROM ridotto rispetto a un polso sano, ma con possibilità di usare l’arto per le comuni attività e privo di dolore. La paziente fu soddisfatta, oltre che dal risultato ottenuto, dalla corretta retrazione cicatriziale che determinava ulteriore dolore aggiunto al danno subito dalla radio-carpica distale.
Case report 2:
Giovane donna, professionista del settore, con un uso quotidiano delle mani per lavori di precisione. Giunta alla nostra osservazione a circa 6 mesi da evento traumatico che portò alla frattura diafisaria spiroide del 3° medio del 4° metacarpo della mano sinistra. Successivamente trattata con ostesintesi con placca e viti, sviluppò una pseudoatrosi con vizio rotazionale che le procurava, oltre a continui dolori da instabilità residua, anche impossibilità alla prensione causa la rotazione esterna del 4°metacarpo che veniva sovrapposto al 5°.
Nella fig.8 si evidenzia la tipologia di frattura, il trattamento chirurgico eseguito e il risultato a distanza di quasi 6 mesi. La evidence clinica era il gap osseo a livello del focolaio di frattura dato dal processo pseudoartrosico. Tale situazione clinica era assolutamente inadatta e non accettabile, in quanto la qualità di vita e lavorativa era compromessa.
Il plannig operatorio portò alla decisione di eseguire un Second-look al 4° metacarpo: fu eseguita una incisione a losanga (seguendo la vecchia linea di incisione e asportando il cheloide estremamente fastidioso che si era creato) fig.9°. Caricando gli estensori si giungeva al piano osseo per evidenziare una placca sovradimensionata per il tipo di lesione e già mobilizzata nelle sue viti (fig.9B). La placca venne asportata: nella fig.9C si evidenzia la pseudoartrosi del focolaio di frattura. Il focolaio fu rivitalizzato e allineato. L’ipotesi di un innesto osseo da cresta iliaca fu abbandonato a causa della già sofferenza prolungata del metacarpo pseudoartrosico, mantenendo la rivitalizzazione dei monconi come unica scelta.
Questa scelta, chiaramente, avrebbe mantenuto il moderato accorciamento del metacarpo, ma le possibilità di guarigione sarebbero state più elevate.
Nel secondo step fu determinato l’allineamento della lesione e la frattura fu sintetizzata con una placca a rettangolo a 10 fori, basso profilo (0,6mm di spessore, Medartis) fig.9D, con viti corticali prossimali al focolaio e a stabilità angolare distale.
Durante il terzo step venne inserito gel Dynavisc (fig.9E) lungo il decorso dei tendini. Tale presidio avrebbe permesso di evitare un eventuale incollamento sui tendini dei tessuti sovrastanti. Infine, dopo prova passiva, fu eseguita sutura intradermica con supporto di steril-strip. Nessun gesso, stecca o valva nel post-operatorio: fu applicato un tutore precedentemente costruito dalla terapista occupazionale (fig.10), a sola protezione della porzione metacarpale dorsale, in materiale termo-plastico, con il 4° e 5° dito in sindattilia. Tale presidio consentì alla paziente di iniziare immediatamente la mobilizzazione nel post-operatorio. Per 30 giorni furono eseguite applicazioni di CEMP con bio-stim
Nella fig.11 il controllo clinico a 60 giorni dall’intervento comparato alla situazione clinica prima del Second-look. La paziente, nell’immediato post-op, non ha mai abbandonato le normali attività quotidiane.