Dott.ssa Annamaria Venere Sociologa Sanitaria
Amministratore Unico AV Eventi e Formazione
Direttore editoriale Medic@live Magazine
Nell’ambito delle professioni sanitarie, il tatto merita assolutamente un discorso a parte per l’importanza che assume nella pratica professionale. Il tatto rappresenta un modello remoto di comunicazione affettiva e sociale vissuto e sperimentato da ciascuno di noi sin da bambini che riveste un ruolo di rilevante importanza per una crescita armonica sia negli uomini che negli animali. Sfortunatamente da adulti questa modalità comunicativa tanto profonda quanto intuitiva viene esperita con piena coscienza solo di rado benché la necessità del contatto fisico con un’altra persona sia un bisogno primario in qualsiasi stagione della vita. Basti pensare quanto piacere provochi una pacca sulla spalla per esprimere le congratulazioni, anche se a farla è solo un conoscente, o il valore di comunicazione profonda che riveste l’abbracciare forte un amico per esprimergli il cordoglio per un caro venuto a mancare, senza dimenticare quanto sia ricca di baci e carezza la dimensione amorosa. Esempi di comunicazione che toccano corde profonde dell’animo umano senza dovere necessariamente verbalizzare. Il tatto non è un senso circoscritto ad un solo organo ma si estende su tutta la superficie del corpo. Può essere utilizzato anche come forma di richiamo quando, ad esempio, tocchiamo il braccio o la spalla di qualcuno per richiamarne l’attenzione. A differenza della vista non è un senso che usiamo in modo immediato ed automatico ma, ciononostante, è in grado di cogliere analiticamente l’informazione. Nel contesto di cura, il contatto fisico ha un potenziale comunicativo straordinario. Le sensazioni trasmesse attraverso il tocco che rappresenta alleviamento e che aiuta, è valutato come necessario nella cura del malato. Il tocco rappresenta uno strumento d’indispensabile rilevanza per andare incontro alle necessità conoscitive e affettive dei pazienti. Una relazione basata dalla corporeità, a quale concreta forma di assistenza è relativa e che caratteristiche possiede? È principalmente per mezzo del corpo che impostiamo e ampliamo le nostre relazioni: se esiste un corpo che comunica, necessitiamo obbligatoriamente di un altro che sappia e voglia ricevere i nostri segnali, che ci permetta di “raggiungerlo” anche quando questi sembra essere difficilmente accessibile. Nel momento in cui una persona si ammala la capacità relazionale del suo corpo, si altera, diviene difficoltosa, confusa. In una situazione patologica fatta di sofferenza, di riduzione delle capacità neuro-motorie, il corpo si trasfigura e la recettività relazionale si basa su canali differenti. Con tempi e modi diversi il paziente accetta e sopporta quella che considera una specie di attacco esterno al proprio corpo (come nel caso di esami diagnostici invasivi e cruente manovre terapeutiche) pur continuando a stabilire delle relazioni. Molte di queste relazioni sono costrette, qualche volta non volute o non richieste. Sono queste le ragioni che dovrebbero far riflettere chi esercita una professione sanitaria sull’impiego cosciente del contatto corporeo. Le mani dell’operatore sanitario, infermiere, fisioterapista, neuro psicomotricista dell’età evolutiva o altro ancora racchiudono in se gesti non solo di carattere funzionale, ma rappresentano anche sollievo, fortificando la relazione d’aiuto e predispongono il malato ad un aumento delle risposte positive, rafforzando la sua sensibilità fisica ed emozionale. Con il tocco si possono comunicare distinti livelli di empatia, confermandoli in base al bisogno della persona di cui ci si sta prendendo cura di lei. E bene che l’operatore sappia che l’altro “sposta” su di lui figure che sono
appartenute al suo vissuto, e che in passato si presero cura del suo corpo. Stranamente, il primo che favorì lo studio del contatto fisico col paziente fu proprio Cochrane, creatore del movimento che portò all’EBM, (medicina basata sulle prove di efficacia e non sulle idee) mentre Veldman studiò a lungo la “scienza dell’affettività” espressa attraverso il contatto. Studio che fu ripreso successivamente da Marie de Hennezel che definì aptonomia (dal greco hapsis, “tocco” e nomos, “regola”). Fondamentalmente utilizzata alla nascita e nel primo periodo di vita, la sua applicazione fu successivamente estesa allo stadio ultimo della vita in quanto chi si avvicina alla morte ha necessità di comunicare, di percepire amore e accudimento con la dolcezza che si dedica ad un bambino. L’aptonomia non fonda i suoi concetti esclusivamente sul tatto, ma invece valuta l’importanza della partecipazione di chi cura in quanto l’atto di toccare trasmette la volontà di voler accogliere, e ricevere consapevolmente, vuol dire identificare e incontrare non un corpo, ma un individuo. Un contatto psico- tattile rappresenta un contatto consolante, tranquillizzante e rafforzante che ha la forza di offrire attenzioni alla persona malata, la possibilità di ridargli la stima, la dignità, il senso di sé come integro, e la percezione di sé come unico. Un tocco-massaggio può sciogliere la sensazione di blocco, di costrizione, può riorganizzare, riparare l’immagine del proprio corpo, distinguendone le parti sane e funzionali da quelle malate e non rispondenti.
Molti operatori sanitari per le loro pratiche professionali sono autorizzati a toccare il corpo del malato, tocco che può giungere fino alla sua anima esponendoci anche a una relazione profonda e intensa, essendo padroni della capacità di comunicare vicinanza o distacco, apertura o chiusura, incoraggiamento o sfiducia. (Marsaglia C, Galizio M. I gesti della cura. Oltre le mani. Da: WorkShop presso Hospice Casa Madonna dell’Uliveto, Aprile 2002). Studi comprovati dalla letteratura ci confermano che l’aptonomia (caring touch) è in grado di determinare:
– l’ottimizzazione del servizio
– la forza interiore nelle proprie capacità
– l’aumento della percezione del proprio valore
– il miglioramento della relazione empatica col paziente
– la presa in carico e la considerazione del paziente come persona unica.
A volte, purtroppo, un atteggiamento veloce, manovre frettolose e superficiali, la mobilizzazione del corpo del paziente come fosse un oggetto rischiano di offenderlo se non addirittura di umiliarlo procurandogli forse altra sofferenza. Sarebbe auspicabile che le strutture sanitarie non oberassero gli operatori sanitari con smisurati carichi di lavoro che sfiniscono ed esauriscono il professionista impossibilitato così ad “avere tempo” sufficiente da dedicare alla persona da curare. Un tempo sufficiente consente di capire che può essere necessario correggere un atteggiamento scorretto che si concentra solo nel toccare un corpo ma non comprende che si entra sempre in comunicazione con una persona con la quale si instaura una relazione fatta di ascolto, cura e assistenza ma anche di stima e rispetto reciproco. Una relazione che diventa ancora più importante valorizzare quando la persona da curare è fragile come può esserlo un bambino.