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carcere

La configurazione del legame di attaccamento madre-bambino in carcere

Autore
Dott.ssa Francesca Denaro
Psicologa libera professionista, Prato

 

 


ABSTRACT – In questo articolo si sottolinea, come la “teoria dell’attaccamento” di Bowlby, considerato uno dei maggiori psichiatri del XX° secolo, trovi un suo valido riscontro, anche e soprattutto, in situazioni difficili per costruire un rapporto madre-figlio sereno, quale la detenzione in carcere delle donne-madri. I risultati di ulteriori, più recenti studi riportati confermano come l’ambiente disagiato e la possibilità di separazione futura incidano negativamente su tale rapporto, importantissimo per la crescita e l’evoluzione psichica del bambino.

ABSTRACT – This article underlines how the “attachment theory” of Bowlby, considered one of the greatest psychiatrists of the 20th century, finds its valid confirmation, also and above all, in difficult situations to build a peaceful mother-child relationship, such as the detention of women mothers in prison. The results of further, more recent studies reported confirm how the disadvantaged environment and the possibility of future separation negatively impact this relationship, which is very important for the growth and psychological evolution of the child.


La “teoria dell’attaccamento” di Bowlby (1969) sottolinea la stretta relazione che esiste tra lo sviluppo affettivo del bambino, con particolare accento sugli scambi del bambino con la figura di accudimento (legame madre-bambino) e le condizioni ambientali che possono favorire o contrastare questo reciproco rapporto.

Il legame affettivo del bambino con il caregiver si sviluppa a partire da alcuni comportamenti geneticamente determinati che si manifestano con la funzione adattiva del mantenimento della vicinanza fisica all’adulto, al fine di ricevere cura e protezione dai pericoli dell’ambiente esterno. Dalla nascita fino al raggiungimento dei due anni di vita circa, il bambino sviluppa progressivamente un legame di attaccamento preferenziale con la persona che si prende cura di lui, generalmente la madre; in base all’esperienza vissuta all’interno di questo specifico rapporto, il bambino si formerà delle rappresentazioni interne (non completamente irreversibili) che guideranno il suo comportamento durante tutto il corso della vita.

E’ anche nel corso dell’interazione con l’ambiente, che un individuo costruisce, secondo Bowlby (1969), dei modelli operativi del mondo e di se stesso nel mondo, mediante i quali percepisce gli eventi, prevede il futuro e dà forma ai propri programmi. Una rappresentazione interna dinamica di sé in rapporto con gli altri costituisce un Modello Operativo Interno, ovvero rappresentazione mentale in grado di raffigurare, con sufficiente coerenza, l’esperienza vissuta dal bambino nelle interazioni con le persone che si prendono cura di lui. Intorno al primo anno di vita, il bambino inizia ad organizzare, quindi, la sua esperienza affettiva. La funzione dei Modelli Operativi Interni è quella di organizzare le conoscenze acquisite di sé e della figure di attaccamento, per poter pianificare il proprio comportamento, sulla base della previsione delle probabili risposte degli altri alle sue azioni. Essi influenzano le percezioni, i pensieri, i sentimenti e tutta la personalità dell’individuo.

La stabilità del modello di attaccamento nei primi due anni di vita, quindi, è una proprietà della diade madre-bambino che, con il passare del tempo, determina una organizzazione interna del comportamento del bambino sempre più stabile e meno influenzabile dai cambiamenti (Bowlby, 1969).

La condizione di co-detenzione in carcere di madre e bambino rappresenta una situazione ad alto rischio, che può influenzare negativamente la qualità degli scambi interattivi diadici, esponendo il bambino alla possibilità di esiti psicopatologici sin dai primi mesi di vita.

Tambelli, Speranza, Trentini e Odori (2010) dimostrano come coppie madre-bambino, considerate ad alto rischio psicosociale, siano caratterizzate da una modalità di interazione che presenta processi di regolazione affettiva compromessi. Quando la madre è incapace di fungere da elemento regolatore esterno per gli stati di attivazione emotiva del bambino, egli tende a manifestare costanti comportamenti di autoregolazione, finalizzati a regolare i livelli di attivazione interna e ridurre il suo coinvolgimento nelle attività. Questo stile di coping auto-diretto compromette gli scambi del bambino con il suo ambiente e la sua motivazione ad interagire con il mondo.

Biondi (1995) ha osservato che le madri detenute utilizzano con maggior frequenza un comportamento deleterio per lo sviluppo affettivo dei bambini: l’utilizzo, come mezzo disciplinare, della minaccia di abbandonare o affidare ad altri il bambino. Seppure questi metodi vengano comunemente utilizzati anche dai genitori in condizioni di libertà, nel contesto detentivo questi possono avere gravi ripercussioni sul bambino. Infatti, può essere difficile in seguito spiegargli come la separazione dalla madre al terzo anno di età sia avvenuta per disposizioni di legge e non perché il suo comportamento sia stato così cattivo da meritare una punizione. E’ comune che i bambini, una volta separati dalla madre, si sentano responsabili della condizione di sofferenza che insieme hanno vissuto.

In genere, le relazioni affettive di un bambino evolvono da una dipendenza completa del neonato dalla madre verso una condizione di autonomia che permette di sviluppare relazioni anche con gli altri che costituiscono il suo ambiente. Ciò che, invece, si osserva in carcere è la difficoltà della madre di ridurre progressivamente il suo forte legame simbiotico con il figlio e di incoraggiarlo all’esplorazione. Il carcere sembra, infatti, condizionare il legame madre-bambino, rendendolo da un lato simbiotico, dall’altro discontinuo; obbliga, in conclusione, il bambino a mettere in atto comportamenti di verifica, a volte provocatori, per “capire” in quale reale condizione affettiva egli si trovi.

Dall’osservazione di 24 bambini tra i due e i tre anni, Biondi (2005) ha notato il caso di una bambina che, entrata in carcere dopo quattro mesi di separazione dalla madre, al momento dell’ingresso, ha mostrato notevoli problemi di adattamento e rifiuto verso qualsiasi invito a giocare. La bimba, probabilmente, durante il periodo di separazione aveva sviluppato sentimenti di paura di abbandono e perdita. Tanti bambini, in situazioni simili, manifestano protesta, disperazione e distacco; questi comportamenti in carcere vengono considerati dalle madri più che una richiesta di aiuto, piuttosto come un capriccio del bambino stesso. In altri casi si osserva, invece, la contrapposizione tra due comportamenti, attaccamento ansioso da un lato e distacco aggressivo dall’altro che si sovrappongono e si mescolano creando difficoltà di comprensione da parte chi osserva queste dinamiche in una coppia madre-figlio.

Biondi (2005) ha osservato il comportamento dei bambini che, al compimento del terzo anno di età (limite oltre il quale il bambino non può più risiedere in carcere), hanno vissuto il momento della separazione dalla madre, riscontrando come questo evento sia vissuto da entrambi come una violenza. Questo dato, secondo l’autore, è dovuto al fatto che, né la madre né il figlio, siano stati adeguatamente preparati alla separazione; questo tema merita più approfondimenti per le conseguenze psicologiche dell’allontanamento forzato del bambino dalla propria madre.

bambino madre carcere

Uno studio longitudinale sugli effetti di tale separazione, condotto negli Stati Uniti, in due istituti dotati di sezioni nido (Byrne, Goshin & Blanchard-Lewis, 2012), ha dimostrato che, all’interno di programmi specifici delle nurseries degli istituti, è possibile che la madre riesca a dare al bambino cure continue ed adeguate, sviluppare un buona qualità dell’attaccamento e mitigare in futuro gli effetti negativi della separazione; anche se gli autori ammettono che ciò è solo parzialmente validato. Ancora molto deve essere fatto per migliorare la qualità dei servizi di consulenza e supporto familiare.

Il contributo di Perricone, Polizzi e Marotta (2010) fornisce importanti indicazioni sul tipo di relazione madre-figlio che si instaura in condizione di detenzione in carcere.

Lo studio effettuato in un istituto di pena italiano è stato condotto su 8 coppie madre-figlio di etnia rom. Questa scelta è dovuta al fatto che le donne rom rappresentavano in quel momento più del 60% della popolazione detenuta in Italia. Le donne, sottolineano le autrici, avevano una padronanza della lingua italiana sufficiente per poter portare avanti la ricerca.

Nello studio si assume che il legame di attaccamento in carcere possa configurarsi come insicuro-ansioso-ambivalente. I risultati dell’analisi, attuata con la tecnica descrittiva dell’analisi sistemico-sequenziale e con la tecnica dell’intervista narrativa, corroborano l’ipotesi di ricerca. Nello specifico degli 8 bambini partecipanti alla ricerca, il 53% presenta dei comportamenti di ricerca continua della madre. Questo indicatore si riferisce, alla ricerca eccessiva di contatto fisico dal parte del bambino, tramite attivazione di comportamenti provocatori volti a richiamare l’attenzione della madre e, attraverso il controllo di ogni suo movimento, seguiti da richiesta di non andarsene e subito dopo da rifiuto. Il 26% è, invece, considerato dipendente, intendendo con ciò il comportamento del bambino nei confronti della madre come “appiccicoso”, a discapito della ricerca di contatto con gli altri presenti e poco esplorativo nei confronti dell’ambiente. Il 16% si mostra insicuro e il 5% ansioso, ovvero i bambini manifestano rispettivamente paura e angoscia da separazione e sono facilmente irritabili e instabili. Per quanto attiene, invece, la valutazione dei comportamenti delle madri verso i bambini, i dati mostrano che il 40% di loro è invischiata, cioè presenta comportamenti intrusivi, possessivi e iperprotettivi che portano la madre detenuta a controllare continuamente il comportamento del bambino; il 24% è stata definita discontinua, cioè ha atteggiamenti partecipanti, ma non sempre disponibili a intraprendere attività insieme al bambino e a farsi coinvolgere affettivamente. La madre detenuta si mostra lunatica e manifesta cambi repentini di atteggiamenti, dal distacco alle dimostrazioni di amore, tenerezza e rassicurazione. In ultimo, il 23% di loro è insicura e il 13% dimostra assenza di reciprocità, ossia l’incapacità di interpretare i segnali provenienti dai figli.

La successiva analisi delle co-occorrenze in relazione ai pattern comportamentali ha, poi, consentito alle ricercatrici di capire meglio in che senso i comportamenti della madre e del bambino tendano a ricorrere insieme e, quindi, a definire la configurazione specifica del legame di attaccamento madre-bambino in carcere. Nello specifico viene fuori che il comportamento di ricerca continua di contatto da parte del bambino è associato al comportamento possessivo e iperprotettivo della madre, così come, anche se in misura minore, il comportamento provocatorio del bambino è associato all’insicurezza e alla preoccupazione della madre.

Questa ricerca apporta, dunque, dei preziosi risultati per ciò che riguarda la relazione di attaccamento madre-bambino nei luoghi di detenzione in carcere. La relazione si configura come un legame insicuro-ansioso-ambivalente che vede la madre come possessiva e iperprotettiva nei confronti del figlio, che non lo incoraggia ad un comportamento di esplorazione dell’ambiente e di contatto con altre persone o cose (Perricone, Polizzi & Marotta, 2010).

madre bambino carcereRisultati simili sono riportati nella ricerca di Candelori & Dal Dosso (2007). Le ricercatrici hanno osservato una madre depressa e asociale che ha sviluppato una relazione difficile con suo figlio e che si manifesta tramite comportamenti provocatori, oppositivi e di evitamento. Esse notano come il bambino sia diventato il contenitore della depressione della madre, ma anche dei suoi sentimenti di rabbia e ostilità, che lo portano ad esprimere sentimenti di resa e tristezza, confermando una relazione di attaccamento madre-figlio caratterizzata da ambivalenza e distacco.

Un aspetto interessante riscontrato in uno studio condotto in Sud Africa, per certi versi opposto a quanto discusso finora, è che alcuni dei bambini osservati in carcere presentano un attaccamento insicuro con le proprie madri, ma una buona relazione con le altre donne presenti in istituto; queste ultime sembrano diventare figure importanti per loro, mostrando, quindi, che, per questo studio, il legame di attaccamento madre-bambino in carcere può non presentarsi necessariamente come esclusivo. Le madri detenute, infatti, si aiutano a vicenda con i loro figli ed è frequente che un bambino venga accudito anche da un’altra donna che non sia la madre stessa (Eloff & Moen, 2003).

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