Privacy nel luogo di lavoro del dipendente affetto da Covid-19 nel caso non sia cosciente perchè ricoverato in terapia intensiva.
Abstract
[otw_shortcode_dropcap label=”P” background_color_class=”otw-no-background” size=”large” border_color_class=”otw-no-border-color” label_color=”#008185″][/otw_shortcode_dropcap]artendo dal presupposto che non si debba abdicare ai principi generali in materia di privacy nel perseguire l’obiettivo di contenere la pandemia, una interpretazione è doverosa rispetto al comportamento che dovrà essere assunto dal datore di lavoro nel trattamento dei dati personali del dipendente affetto da Covid-19 cosciente o nella ipotesi che sia ricoverato in terapia intensiva.
Autore
Avv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.
In un precedente contributo si è esaminata la questione del contemperamento fra le norme emergenziali per il contenimento e il contrasto della grave epidemia in corso di COVID-19 e la normativa sulla protezione dei dati.
Contemperamento che non appare né agevole né scevro da dubbi interpretativi e applicati se sol si pensa al dibattito (ancora in corso) circa l’obbligatorietà ed efficacia di strumenti per il tracciamento dei dati sanitari, alla correlazione tra tamponi e contagi, agli scambi di informazioni a scopo di studio, alle comunicazioni tra enti pubblici e privati circa i dati dei cittadini risultati positivi al COVID-19.
L’intero dibattito sembra riposare su un comune denominatore.
La protezione dei dati personali, in un contesto pandemico quale quello attuale e prossimo, è da considerarsi recessiva rispetto all’esigenza di contenimento (più o meno definitivo) dell’emergenza sanitaria in atto?
Non v’è dubbio che, come sovente accade, la risposta venga affidata a pulsioni emotive (largamente giustificate) che non consentirebbero, tuttavia, un approccio concreto alla pur delicata questione.
Si finirebbe, in altri termini, per condividere soluzioni sulla base di valutazioni meramente soggettive e, proprio per tale motivo, prive di riscontri oggettivi.
È, pertanto, inevitabile che, in questo momento, la “privacy” venga considerata quasi un ostacolo, se non un’inutile zavorra, sul sentiero della ricerca di soluzioni efficaci (fuori dall’ambito strettamente medico – scientifico) per il contenimento della trasmissione del virus.
Non è certamente sfuggita, in quest’ottica, la tesi di chi sostiene che l’obiettivo di fermare l’epidemia passi (anche) dalla legalizzazione di “app” che, attraverso la geolocalizzazione degli spostamenti dei cittadini, consentano la ricostruzione dei contatti (in caso di accertata positività al virus) con il sollecito isolamento dei soggetti coinvolti.
Alla superiore tesi, com’era prevedibile, è stato, prontamente, replicato che deve essere evitato che il pretesto del rischio pandemico giustifichi, tout court, la rinuncia alla privacy sì da arginare il timore che scelte (che dovrebbero essere transitorie) in realtà nascondano l’obiettivo di radicalizzarsi in modo definitivo e irreversibile.
Nel dibattito, peraltro, è stato, correttamente, precisato che all’interno del Regolamento Generale UE 679/2016 (“RGPD”) sulla protezione dei dati personali sono già presenti strumenti idonei a tutelarli anche (e sopratutto) in momenti (quale quello attuale) caratterizzati da una planetaria emergenza sanitaria.
Ciò consente di affermare, quindi, che non v’è alcun bisogno di abdicare ai principi generali in materia di privacy nel perseguire l’obiettivo di contenere la devastante spinta pandemica del Covid 19.
In concreto (volendosi, per un attimo, prescindere dal dibattito teorico) è interessante la disamina dei profili operativi nelle ipotesi caratterizzate dalla presenza, all’interno di un’azienda, di dipendente positivo al COVID-19 e, in particolare, di quali accorgimenti debbano essere adottati nella comunicazione al personale della presenza, nell’ambiente di lavoro, di un collega positivo.
Sul datore di lavoro (quale titolare del trattamento dei dati) incombe l’obbligo (nel contesto delle norme emergenziali) di individuare le più opportune modalità per affrontare una situazione del genere.
La trasmissione ai dipendenti (con i quali il lavoratore positivo al COVID-19 è entrato in contatto) di una comunicazione contente i dati identificativi di quest’ultimo è da considerarsi “comunicazione” di dati personali ai sensi dell’art. 2-ter del Codice della privacy.
Comunicazione, com’è intuitivo, avente ad oggetto dati di particolare natura (dati sanitari, relativi alla salute) che rivelano informazioni relative allo stato di salute.
Trattandosi di “dati di particolare natura”, non può sottacersi il divieto di trattamento di cui all’articolo 9, comma 1 del Regolamento 679/2016:
«È vietato trattare dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona».
Si tratta, pertanto, di individuare le singole fattispecie in presenza delle quali il trattamento dei dati di particolare natura potrà risultare lecito.
Una di queste ipotesi (una delle più frequenti) riguarda la comunicazione ai colleghi dei dati sanitari (affezione da COVID-19) del lavoratore che trovasi ricoverato in terapia intensiva.
In una situazione simile non v’è dubbio che possa rappresentare una discriminante (nell’ottica del fondamento di legittimità del trattamento) lo stato fisico del lavoratore (positivo al COVID-19) del quale si accerti l’impossibilità fisica a prestare il consenso.
In questo caso, invero, saremmo in presenza di una deroga al divieto di trattamento in quanto il trattamento medesimo è necessario per tutelare un interesse vitale dell’interessato o di un’altra persona fisica.
Il datore di lavoro (e titolare del trattamento) dovrà valutare come “vitali” gli interessi sanitari dei dipendenti entrati in contatto con il lavoratore.
Appare superfluo precisare gli interessi sanitari dei dipendenti non possono che essere qualificati “vitali” in quanto l’omesso avvertimento renderebbe più lento e più difficile l’attività di ricostruzione della “catena dei contatti”.
Chiarito, dunque, che laddove il lavoratore (positivo al COVID-19) non possa prestare il consenso per impossibilità fisica, il datore di lavoro potrebbe (rectius, dovrebbe) legittimamente procedere secondo le modalità dianzi precisate.
È importante sottolineare, peraltro, che, in siffatte ipotesi, la comunicazione dovrà rispettare il principio di proporzionalità con conseguente comunicazione mirata ai soli colleghi con i quali il dipendente ha avuto pregressi contatti, dovendo ritenersi ingiustificata (e illegittima) una comunicazione indifferenziata e massiva a tutti i lavoratori, ivi compresi quelli che, oggettivamente, non sono entrati in contatto con il dipendente positivo).
Altra ipotesi concerne la comunicazione ai colleghi dei dati sanitari (affezione da COVID-19) del lavoratore cosciente.
L’articolo 14 del decreto legge 9 Marzo 2020 n. 14 dispone che i soggetti pubblici autorizzati ad operare nell’ambito del Sistema Nazionale di Protezione Civile, il Ministro della Salute, l’Istituto Superiore della Sanità, gli enti pubblici e privati operanti nell’ambito del Sistema Sanitario Nazionale e i soggetti preposti al controllo delle misure di emergenza già emanate possono trattare i dati personali, anche mediante interscambio e comunicazione reciproca di dati.
Dalla normativa speciale predetta (di natura emergenziale) emerge che un soggetto (quale una società privata datrice di lavoro) non possa ritenersi autorizzato alla comunicazione o alla diffusione di dati personali di particolare natura, essendo autorizzato a comunicare e diffondere solo dati personali comuni.
L’adozione di adeguate misure di tutela dell’interessato rappresenta (comunque e sempre) una condizione di liceità del trattamento (anche ove consentito in via eccezionale come nel contesto sopra delineato).
Da ciò consegue, peraltro, che il più volte citato contesto emergenziale (in assenza delle adeguate misure organizzative di gestione della comunicazione) non è da solo sufficiente a fondare la legittimità del trattamento dovendosi sottolineare che, secondo un principio di continenza, se il lavoratore operava in un ambito ristretto l’informativa dovrà essere mirata secondo la valutazione, in dettaglio, da parte del datore di lavoro privato.
In conclusione, senza alcuna aspirazione di esaustiva disamina dei molteplici aspetti della delicatissima questione, massima attenzione deve essere posta al fine di evitare che misure (che in astratto, emotivamente, possiamo ritenere necessarie per il contenimento dell’emergenza sanitaria) possano, esaurita la spinta pandemica, entrare a far parte del nostro modus vivendi con una ingiustificata compromissione dei fondamentali diritti alla riservatezza.
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