Dott. Giuseppe Seminara
Medico Psichiatra, Psicoterapeuta; Responsabile Sanitario C.T.A. Helios di Gravina di Catania; Docente a contratto nel C.d.L. in Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica, Unict; Membro già SIPSS e SIRP
Sessualità e patologia mentale rappresentano, nel loro intersecarsi, un’area in cui scienza e pregiudizio, valori etici e sociali, aspettative individuali e collettive, entrano in una situazione di conflitto apparentemente inconciliabile e, comunque, di difficile risoluzione (Rosso, 1996). Tutto ciò sollecita, fra l’altro, un sottobosco di luoghi comuni e di pregiudizi, rendendo difficile il coinvolgimento aperto ed efficace anche di quelle figure professionali che, in virtù delle loro specifiche competenze, dovrebbero mostrare meno resistenze.
Trattare di quanto si riferisca all’amore, ai sentimenti, alla sessualità, rende sempre necessaria una complessa sintesi fra elementi che attingono alla sfera della spiritualità e della metafisica, a quella della concretezza materica e delle istanze più propriamente biologiche, fino a quelli che più di altri rendono complicato il tema, vale a dire quelle istanze che rappresentano una sorta di territorio mediano fra i primi e che invisibilmente e fortemente legano le altre e due aree: le emozioni, la passione, la forza vivificante che agisce all’interno delle relazioni sentimentali e delle relazioni sessuali. Potrebbe risultare estremamente interessante, all’interno di una condizione di equilibrio delicato e complesso qual è quella della disabilità psichica, aprire uno spazio di riflessione su questa tematica.
La psicopatologia sembra, talvolta, sovvertire le più rassicuranti immagini che culturalmente hanno nutrito la nostra rappresentazione, iconografica e mentale, della sessualità, una rappresentazione quasi incontaminata ed eterea. La quasi diafana bellezza dell’arte in genere e dell’arte classica in particolare. Diventa, però, necessario accettare il fatto che altri elementi possono concorrere a dare una quadro diverso del tema, aspetti più primordiali e forti dei sentimenti amorosi e della passione; sono questi che possono venir fuori, allorché i filtri sociali, i parametri morali, vengono indeboliti da una particolare condizione patologica. E il loro venir fuori non sempre rappresenta un’aberrazione verso la natura, ma solo un’aberrazione verso quei modelli che la cultura, l’antropologia, i percorsi educativi hanno nel tempo costruito. Ecco perché il confronto con le problematiche della sessualità in ambito psicopatologico può indurre resistenze, può mettere in crisi la nostra personale misura della moralità e dell’immoralità.
È più facile, allora, ritirarsi nei più tranquilli terreni del dissenso e del “comune senso del pudore”… senza considerare il non comune senso dello “abnorme psichico”, materia stessa della Psicopatologia (Jaspers, 1964).
Superare questi limiti, per essere all’ascolto del nostro utente e per essergli di aiuto, è il difficile compito che ci attende.
La sessualità in psichiatria si propone, perciò, come ambito di studio di grande interesse e ad alta complessità. Ancora più interessante questa tematica nell’ambito della residenzialità psichiatrica, specie dal momento che l’inserimento di nuovi utenti, giovani con rinnovate prospettive di reinserimento sociale, con bisogni nuovi e diversificati, impone un cambiamento dell’approccio degli operatori e una crescente flessibilità nelle strategie di trattamento. Soprattutto questo rinnovamento dell’utenza ha determinato, già da qualche tempo, la focalizzazione del nostro interesse verso le tematiche della “sessualità”, anche nel suo aspetto dinamico-relazionale, terreno delicato e poco esplorato.
Il contesto comunitario residenziale influenza i “confini” tra normalità e psicopatologia della sessualità e l’operatore può inconsapevolmente essere uno degli elementi strategici di questa influenza o della sua attenuazione. Perciò sono necessarie strategie per mezzo delle quali il sapere induca il saper fare, ma in particolare alla luce del saper essere. All’apprendimento di tipo cognitivo, utile a saper fare, deve unirsi un apprendimento di tipo anche emotivo, che coinvolga la sfera affettiva e che ci permetta di saper essere, mettendo in discussione i nostri personali punti di vista, adeguandoli alla natura del compito ed ai valori che esso propone.
L’operatore di una CTA non può non prendere atto di come la sfera della sessualità possa offrire in ambito psicopatologico degli aspetti fenomenologici e clinici di assoluta peculiarità. Pertanto, non possono essere i pregiudizi e i luoghi comuni, né possono bastare i punti di vista personali, mai offerti al confronto con gli altri, a indicarci le più adeguate modalità di intervento.
Ecco allora che sullo sfondo di tali “confusioni”, dubbi o certezze operative, si è pensato di partire proprio dagli operatori per una ricerca che permettesse di focalizzare i nodi chiave di questa tematica, prevedendo un futuro approfondimento di quanto emergerà ed eventualmente allargando successivamente il campo d’indagine.
Alcuni dati della ricerca
Per questo progetto, si è appositamente allestito un questionario, autosomministrato e anonimo, abbastanza snello e semplice nella sua struttura, lasciando all’operatore la più ampia libertà di partecipare o meno alla ricerca.
Il questionario, composto da 23 item, dopo una prima parte relativa al campione, indagava le nozioni generali possedute in merito alla correlazione fra malattia mentale e sviluppo o influenza della sessualità.
Scopo principale della ricerca è stato quello di individuare un profilo del bisogno formativo e, su questa premessa, costruire progetti futuri. A tal fine gli item conclusivi sono stati lasciati a risposte “aperte”, giusto per consentire una partecipazione attiva e motivata degli operatori, nonché un’apertura verso i bisogni da loro eventualmente espressi.
Inizialmente rivolta ad un campione “potenziale” di 455 operatori (224 maschi e 231 donne) appartenenti a 16 Comunità Terapeutiche siciliane, la partecipazione alla ricerca è stata lasciata alla libera scelta degli operatori; ragion per cui il campione “reale” ha fatto registrare una sensibile contrazione quantitativa. Hanno partecipato all’indagine 295 operatori, sebbene le modalità esecutive garantissero pienamente l’anonimato dei partecipanti.
Gli Ausiliari, consistente categoria professionale, hanno partecipato in percentuale significativamente ridotta rispetto alle altre due categorie; probabilmente questo testimonia un sentimento di esclusione rispetto alle esigenze di formazione e di aggiornamento professionale in un ambito, quello più tecnico e scientifico, che apparentemente (e inadeguatamente) sembra poter esonerare gli ausiliari dal coinvolgimento. In realtà, la formazione del personale in Comunità deve essere un processo che coinvolge tutte le figure professionali, giusto per la natura stessa della struttura “comunitaria” e dal momento che il clima relazionale fra categorie di operatori e fra operatori e utenti impegna tutti ed espone tutti alle stesse difficoltà e alle stesse responsabilità.
Circa l’importanza che la sfera sessuale ha verso il sano sviluppo della persona, il 42,71% degli intervistati hanno attribuito un’importanza pari a quella di altre sfere della vita dell’individuo; il 37,79% la ritengono “molto importante, ma non la più importante”; il 12,20% le assegna invece un’importanza assoluta. Il “poco importante” (3,73%) e “non fondamentale” (2,37%), dati che potevano sembrare solo “di rappresentanza” hanno trovato un seppur minimo, e forse sorprendente, consenso.
Probabilmente questo dato risente di una tradizionale visione parcellare della sfera sessuale. La sessualità investe l’esistenza umana in maniera molto più ampia di quanto non sia riferibile al sesso e all’attività sessuale; influenza le relazioni umane, sia fra persone di sesso diverso che fra persone dello stesso sesso, influenza la dimensione espressiva e relazionale dell’individuo e delle sue competenze sociali (Seminara, 1994). Si evince da ciò l’importanza della formazione e dell’educazione ricevuta sul tema. L’operatore, infatti, si pone di fronte alle problematiche sessuali a partire e non a prescindere da questi elementi formativi ed educativi, nonché dalla propria scala di valori. Occorre, allora, un atteggiamento maturo e consapevole che, senza disperdere i nostri valori personali, ci eviti l’assunzione di impropri atteggiamenti di giudizio “morale”, rispetto a problematiche che meritano sicuramente una valutazione più ampia e specifica, sia per la loro natura intrinseca che per quella riconducibile alla psicopatologia.
Il giudizio sulla correlazione fra malattia mentale e disturbo dello sviluppo sessuale ha forse risentito del fatto che l’operatore di Comunità si confronta quasi esclusivamente con patologie psichiatriche croniche, spesso di una certa gravità; la ricostruzione di una storia del paziente e del suo sviluppo personale diventa quindi terreno su cui conoscenza e supposizioni si possono sovrapporre. Questo determina probabilmente un’eccessiva “estensione” di giudizio, dettata dal dato empirico, che fa ritenere che nel 36,61% la malattia mentale determina “quasi sempre” un disturbo dello sviluppo sessuale; “a volte” per il 46,78% e “sempre” per l’8,47%. Bassissimi i valori del “mai” (3,39%) e del “rare volte” (3,05%).
Anche gli effetti iatrogeni sulla sfera sessuale come, ad esempio, la riduzione del desiderio sessuale da terapia neurolettica (Arvanitis, 1997; Dickson, 1999; Gitlin, 1994; Rowlands, 1995; Rosso, 2000; Sanzovo, 2006) vengono spesso inglobati nel corredo della malattia e non più disgiunti eziologicamente da essa. Eppure, risulta evidente come questo dovrebbe ragionevolmente aprire un altro capitolo di discussione.
Alla domanda se il paziente psichiatrico, secondo l’esperienza professionale dell’operatore, sente la necessità di una vita sessuale regolare, il 18,31% non esita a dare una risposta pienamente affermativa; a questa percentuale si vanno ad aggiungere opinioni “a sfumare”, come il “sì per gran parte dei pazienti” (31,19%), “sì per alcuni pazienti” (41,02%), “sì per pochi pazienti” (4,41%), che rendono estremamente marginale il 2,71% dei “no”. Dati, questi, quasi in contraddizione con quelli relativi alla domanda precedente, che riconoscevano nella malattia mentale uno sviluppo “sempre o quasi sempre” disturbato della sessualità.
Queste apparenti contraddizioni recano in sé i riverberi del contesto lavorativo, un contesto fatto di relazioni protratte nel tempo e di uno scambio umano e di un dialogo che in una comunità non si limita ai setting rigidamente strutturati. Vissuti soggettivi e oggettività, sentimenti e valori personali entrano in gioco, in un dibattito continuo e impegnativo. Il giudizio tecnico e quello “umano”, piuttosto che raggiungere la loro giusta e necessaria sintesi, tendono a smarrire i propri confini e, in casi estremi, possono far smarrire l’individuazione dello spazio all’interno del quale la relazione può e deve diventare “relazione terapeutica”.
A tratti sembra che l’operatore di un contesto psichiatrico per utenti cronici sia “condannato” a muoversi su un terreno instabile, che rende instabile, se non supportato da una solida base formativa, la possibilità di un giudizio sereno e oggettivo.
Questa della sessualità è senza dubbio una delle aree più interessanti da questo punto di vista.
Torna in questo clima di incertezza una serie di risposte che fanno ritenere al 30,85% degli operatori che “spesso” il paziente psichiatrico, comunque, metta in atto delle condotte sessuali disturbate e/o disturbanti; il 46,44% ritiene che questo accada a volte; mentre il 6,10% depone per un categorico “sempre”. Bassi i valori del “raramente” (5,42%) e del “mai” (1,69%).
Ci è sembrato necessario, a questo punto, articolare meglio l’item relativo alla sessualità nei diversi quadri nosografici psichiatrici. Il 51,19% del campione ha sostenuto che a patologie psichiatriche diverse (psicosi, disturbi dell’umore, psicosi epilettiche, disturbi di personalità, ritardo mentale) corrisponde un differente atteggiamento sessuale; per 29,83% questo avviene solo per alcune patologie.
È abbastanza costante la percentuale di soggetti che elude tutte le risposte, all’incirca il 10%, schierandosi per il “non so” o non rispondendo affatto.
Interessante ci sembra il dato riferibile alle diverse manifestazioni della sessualità che l’operatore ritiene di poter individuare nelle differenti patologie. A tal proposito, si è chiesto di indicare per ciascuna patologia presentata una risposta relativa all’eccesso, all’inibizione o alla normalità della sessualità.
Sicuramente meritevole di approfondimento è il dato relativo alle “non risposte”, sia per quanti non hanno risposto totalmente alla domanda (58 operatori, pari al 19,66%), sia per quanti non hanno risposto per i singoli quadri patologici, specialmente per quelle patologie che, verosimilmente, risultano per loro “inconsuete”, ma che oggi sono sempre più rappresentate all’interno dei contesti terapeutico – riabilitativi residenziali (ad es., i disturbi di personalità, le psicosi epilettiche, ecc.). Questo testimonia un’incertezza di base e, soprattutto, è indice di un’area ad alto livello di bisogno formativo specifico.
Alla luce di tanta complessità la sessualità, non tanto come fenomeno della normale esistenza degli individui, ma vista come area problematica, incide “altamente” per il 38,64% degli operatori (l’incidenza è “altissima” secondo il 7,46%) all’interno della Comunità, influenzandone le dinamiche; incidenza “media” viene riconosciuta dal 36,27%; mentre è “bassa” per il 7,12% e “bassissima” per l’1,69%. È interessante notare come ad una sollecitazione a fornire “esempi” di ripercussioni positive e/o negative ben 219 operatori (74,24%) non danno alcuna risposta, contro un 25,76% (76 operatori) che danno le indicazioni di seguito riportate.
È significativo il poter cogliere come il giudizio “positivo” o “negativo” sembra riconducibile a due diversi punti di vista, quello del paziente (elementi positivi) e quello della struttura ospitante (elementi negativi). Certo, conciliare le diverse istanze richiede molte energie, capacità di mettersi in discussione, muoversi su un terreno ad altissima instabilità e non privo di rischi (immagine, responsabilità, etica, ecc.), impegno verso la formazione personale e professionale.
Del resto l’item successivo rende testimonianza di come l’esperienza professionale (24,71%) e personale (18,04%) siano indicate come le principali risorse (e non sempre sufficienti o adeguate) su cui l’operatore ha potuto finora contare, anche se la formazione (17,40%) e l’informazione (11,38%) si collocano subito a seguire, dando speranza verso un diverso atteggiamento futuro. Per il 6,5%, infatti, l’operatore attualmente “non è adeguatamente preparato” a fronteggiare queste aree problematiche complesse.
Sugli strumenti che possono produrre questo auspicabile miglioramento, il primo posto viene assegnato all’educazione sessuale dei pazienti (23,61%), un tentativo sicuramente lodevole di portare al centro di tutto l’utente, ma con il rischio sommerso di “spostare” sull’utente la responsabilità dell’operatore rispetto alla crescita professionale e alla formazione. All’aggiornamento professionale (19,54%) ed alla formazione personale (19,21%) viene riconosciuto un valore medio. Norme istituzionali specifiche vengono invocate dal 9,12% degli operatori, una sorta di linee-guida rispetto alle responsabilità anche giuridiche, data la delicatezza dell’argomento.
A conclusione del questionario si è voluto proporre una domanda “aperta”, libera alla personale opinione dell’operatore, sulle eventuali proposte di discussione e di gestione delle problematiche trattate.
Ancora una volta, verosimilmente, la mancanza di una griglia di risposte preordinate ha determinato un “silenzio”, forse riconducibile al timore di avanzare osservazioni inappropriate, testimoniando così il personale sentimento di inadeguatezza rispetto all’argomento. 250 operatori (84,75%), non hanno risposto, a fronte di soli 45 (15,25%), che hanno indicato le seguenti aree da approfondire (relazione utente-operatore, formazione, educazione sessuale dei pazienti a cura di sessuologi, linee-guida, confronto fra operatori… fino a “smitizzare il sesso”, “qualsiasi… purché se ne parli!” e “inutile la formazione degli operatori”). Opinioni diverse che hanno tracciato una linea che scivola dal coinvolgimento attivo verso una sorta di rassegnazione, ma che paradossalmente trova una speranza in un’ultima, singolare, risposta; uno degli operatori, infatti, quasi obbedendo al primo assioma della comunicazione (non si può non comunicare), scrive: “non voglio dare suggerimenti!”.
Conclusione
Questa iniziativa ha voluto rappresentare un momento di apertura su argomenti che, inspiegabilmente, vengono spesso scotomizzati ed elusi, pur nella consapevolezza che la dimensione esistenziale di ogni individuo non può trascurare alcuna parte della sua capacità di essere in relazione con l’altro, nella dimensione sociale, affettiva, intima.
Lontana dal voler esser una risposta esaustiva a tanta complessità e alle tante domande possibili, la ricerca vuole tracciare un percorso sul quale costruire ipotesi di lavoro future inerenti la formazione dell’operatore, l’incremento della capacità di accoglimento e di gestione di queste problematiche nell’ambito delle strutture residenziali.
È auspicabile che i dati rilevati, qui necessariamente sintetizzati, possano servire a focalizzare le aree e gli argomenti suscettibili di utile approfondimento in sede di ulteriori iniziative scientifico-culturali, contribuendo ad incoraggiare nelle strutture residenziali l’attivo coinvolgimento degli operatori, premessa necessaria per una reale possibilità di cambiamento e crescita personale e professionale.
Il lavoro svolto, soprattutto in un momento storico che assegna alla riabilitazione psichiatrica nuove responsabilità verso la “persona” e non solo verso il “paziente”, si pone l’obiettivo di incentivare discussioni e riflessioni, che possano dare a tutte le parti coinvolte delle risposte accettabili e consone alle varie aspettative di ognuno. In tal senso, occorrerà che gli operatori, superando i limiti di una conservazione eccessiva della propria omeostasi, incrementino la capacità di mettersi in discussione, entrando in un circuito virtuoso di crescita professionale e personale.
Un ringraziamento alle Comunità Terapeutiche (C.T.A.) che hanno contribuito alla raccolta dei dati:
Adelina (Villarosa, EN), Cappuccini (Vizzini, CT), Cenacolo Cristo Re (Biancavilla, CT), Fauni (Castelbuono, PA), Helios (Gravina di Catania, CT), J.F. Kennedy (Adrano, CT), La Grazia (Caltagirone, CT), Major (Mascalucia, CT), Oasi Regina Pacis (Motta Sant’Anastasia, CT), San Paolo (Militello Val di Catania, CT), Sant’Antonio (Piazza Armerina, EN), Villa Chiara (Mascalucia, CT), Villa Elce (Brucoli, SR), Villa Erminia (Pedara, CT), Villa Sant’Antonio (Aci Sant’Antonio, CT), Villa Verde (Catania)
Bibliografia
Arvanitis, L.A., Goldstein, G.M. (1997). Atipical profile of quetiapine is supported by its lack of sustained elevation of plasma prolactin concentration. Presented at the APA Annual Meeting, May 17-22, 1997; San Diego, California.
Dickson, R. A., Blazer, W.M. (1999). Neuroleptic induced hyperprolactinemia. Schizophr. Res., 35: S75-S86.
Sanzovo, S., Prior, M., Bianchin, G.I., Rosso, C., Furlan, P.M. (2006). Disturbi Sessuali in pazienti schizofrenici durante il trattamento con Aloperidolo e Quietapina. Minerva Psichiatrica, 47: 249 – 253, 2006.
Gitlin, M.J. (1994). Psychotropic medications and their effects on sexual function: Diagnosis, biology and treatment approaches. J. Clin. Psychiatry, 55: 406-413.
Jaspers, K. (1964). Psicopatologia generale, Ed. Il pensiero scientifico, Roma.
Rosso, C., Furlan, P.M. (1996). Le Dimensioni della Sessualità in Psichiatria. Journal of Sexological Sciences, Vol. 9, n° 3, 7-18, 1996.
Rowlands, P. (1995). Schizophrenia and sexuality. Sexual Marital Therapy. 56, 137-141.
Seminara, G., et al., (1994). Sessualità e gravidanza nell’adolescente. Indagine psicosociale nell’ambito della U.S.L. 32 di Adrano. Ed. Aesse, S.M. di Licodia (CT).