Il nuovo paradigma epigenetico e quella che viene definita “microbiota revolution” per il forte impatto nelle conoscenze biomediche, convergono nel ridimensionare significativamente l’attribuzione della componente genetica finora largamente accettata.
English abstract
The scientific sector dealing with human epigenetic studies the role of extra genetic factors in influencing the fitness of the body as a whole.
In this context, it has only recently been understood that the microbiota, that is the complex ecosystem made up of bacteria, viruses and fungi that live in our bodies but which do not share our DNA, is also of fundamental importance for our survival.
Up to now, many researchers have adopted the comparative methodology existing between homozygous and heterozygous twins to measure the genetic contribution (DNA) with respect to the extragenetic component, thus greatly underestimating both the fundamental role of hereditary epigenetic memory now documented by the literature and the equally solid relative literature about the massive interactions of the microbiota in our organism.
This conceptual and methodological error indicates, on the one hand, a significant overestimation of the genetic component in the understanding of all complex phenotypic structures (including behaviors), on the other hand, an equally significant general underestimation of extragenetic factors in explaining these human complex phenomena.
Italian abstract
Il settore scientifico che si occupa di epigenetica umana, studia il ruolo dei fattori extra genetici nell’influenzare la fitness dell’organismo nella sua globalità.
In questo contesto solo recentemente si è capita l’importanza fondamentale, anche per la nostra sopravvivenza, del microbiota ossia il complesso ecosistema formato da batteri, virus e funghi che vivono nel nostro organismo ma che non condividono il nostro DNA.
Fino ad oggi molte ricerche hanno adottato la metodologia comparativa esistente tra gemelli omozigoti ed eterozigoti per misurare il contributo genetico (DNA) rispetto la componente extragenetica, sottostimando considerevolmente sia il ruolo fondamentale della memoria epigenetica ereditaria, ormai documentata dalla letteratura, sia l’altrettanto solida letteratura relativa le massicce interazioni del microbiota nel nostro organismo.
Questo errore concettuale e metodologico indica da una parte una rilevante sovrastima della componente genetica nella comprensione di tutte le strutture complesse fenotipiche (comportamenti compresi), dall’altra una altrettanto rilevante sottostima generale dei fattori extragenetici nello spiegare questi fenomeni complessi.
Autore
Dott. Massimo Agnoletti – Psicologo, Dottore di ricerca esperto di Stress, Psicologia Positiva e Epigenetica. Formatore/consulente aziendale, Presidente PLP-Psicologi Liberi Professionisti-Veneto, Direttore del Centro di Benessere Psicologico, Favaro Veneto (VE).
[dropcap color=”#008185″ font=”0″]L’[/dropcap]
Lo studio del microbiota ha rivoluzionato molte conoscenze pregresse delle scienze biomediche e psicologiche perché evidenzia il ruolo fondamentale di questo altamente complesso ecosistema di batteri, funghi e virus all’interno di quella che generalmente consideriamo la “nostra” fitness, riferendoci all’insieme delle cellule che condividono il nostro DNA umano, ma che dobbiamo pensare più come unità simbiotica (olobionte) costituita da cellule umane e non umane che interagiscono funzionalmente per raggiungere scopi (teleonomie) almeno in parte condivisi (Agnoletti 2021a, Agnoletti 2021b).
Dalla produzione di neurotrasmettitori (ad esempio, più del 90% della serotonina viene prodotta a livello intestinale), alla funzione di elaborazione degli alimenti che ingeriamo, al ruolo fondamentale di apprendimento del nostro sistema immunitario, il microbiota si è già dimostrato essere un protagonista finora grandemente sottovalutato nell’eziologia di molte problematiche di natura sia organica (si veda ad esempio la celiachia, l’obesità o la colite ulcerosa) che psicologica (per esempio l’ansia, la depressione e molte psicopatologie quali l’autismo, la schizofrenia, etc.). (Caio et al., 2019; Cheunget al., 2019; Foster &McVey Neufeld; Sharon et al., 2019; 2013; Garrett et al. 2007; Li & Zhou, 2016; Mangiola et al., 2016; Rescigno, 2021; Rodrigues-Amorim et al., 2018; Simpson et al., 2021).
Risulta evidente da questo scenario particolarmente complesso che il concetto di Self viene ad essere travolto da una quasi disorientante nuova prospettiva dove le teleonomie biologiche del microbiota si intrecciano con quelle più riconducibili al nostro DNA e sono almeno in parte influenzate dai processi decisionali consapevoli e non espressi dalla nostra mente (si pensi banalmente alle scelte alimentari che attuiamo nella nostra quotidianità).
Se da una parte quello che possiamo concettualizzare come il “nostro” Self è influenzato dal cambiamento della composizione del “nostro” microbiota (ad esempio alterando la produzione di serotonina con tutte le sue implicazioni psico-esperienziali), è altrettanto vero che, ad esempio, anche solo attraverso una maggiore consapevolezza/conoscenza relativa questa stessa tematica (o banalmente cambiando scelte alimentari dovute ad un breve soggiorno in qualche località esotica), possiamo modificare il microbiota incidendo sul rapporto tra le varie popolazioni che costituiscono questo enorme ecosistema extraumano.
La connessione tra interazione tra cellule umane e microorganismi extraumani che chiamiamo Self ha quindi una natura assolutamente bidirezionale ed in gran parte integrata.
Anche l’epigenetica umana enfatizza il ruolo delle informazioni che non fanno parte del nostro genotipo (DNA) nella spiegazione delle strutture biologiche e dei comportamenti di una persona ed in questo senso ha già definito una transizione rispetto quello che ritenevamo il nostro Self (Agnoletti, 2020a) coerente e convergente con i dati che stanno emergendo dal settore del microbiota.
Questa prospettiva globalmente contrasta fortemente la visione focalizzata sull’importanza della genetica riconducibile al cosiddetto “dogma centrale della biologia molecolare” dove, invece, viene enfatizzato il ruolo dell’informazione genetica codificata nel DNA di ciascuna cellula.
In questo scenario il flusso di informazioni unidirezionale proveniente dal DNA verso il contesto esterno extragenetico, implica una forma di “impermeabilità” o di “incapsulamento” informazionale rispetto tutto ciò che non si trova all’interno della memoria genomica (Agnoletti, 2020a; Bottacioli & Bottacioli, 2017).
Fino ad oggi, la principale metodologia per stimare il contributo dell’informazione genetica dei fenotipi umani (e non) è stato fondamentalmente basato sull’assunto dicotomico genetico/extra-genetico e DNA/ambiente, dove il Self viene rappresentato a questo livello dai geni ed il non-Self viene rappresentato da tutto ciò che non è codificato nel DNA.
Si tratta chiaramente di un assunto che riflette la visione riduzionistica in cui vi è la centralità e la priorità dell’informazione genetica rispetto quella non genetica (derivante dal cosiddetto dogma centrale della biologia)che non coglie la complessità del considerare altrettanto importanti (per la fitness globale dell’organismo) anche fattori extra-genetici, attribuibili all’interazione di altri organismi non umani quali il microbiota (o più tradizionalmente, anche strutture intracellulari come i mitocondri).
Il modo di declinare questo scenario teorico in termini metodologici ha cercato finora di identificare il contributo genetico del tratto fenotipico oggetto dello studio comparando gruppi di gemelli omozigoti (che condividono il medesimo DNA) con quelli eterozigoti (che condividono mediamente il 50% del DNA), analizzando la variabilità riscontrata in quel tratto fenotipico (colore degli occhi, altezza, tratto di personalità, felicità, etc.) e assumendo che questa sia attribuibile alla componente extra genetica derivante dall’esposizione di esperienze successive al parto.
Nella logica di questa metodologia, la variabilità riscontrata è attribuibile semplicemente (in maniera autoescludente) alla componente genetica o extragenetica, cioè se non è extra genetica, allora dev’essere necessariamente genetica e viceversa (si veda in proposito ad esempio Goldsmith, 1983; Nichols, 1978; Tellegen et al., 1988).
Così, ad esempio, per stimare il contributo genetico (o presunto tale) della percezione di felicità individuale o di caratteristiche personologiche quali l’estroversione o la timidezza, hanno comparato gruppi di gemelli omozigoti con gruppi di gemelli eterozigoti analizzandole variazioni relative esistenti tra i due gruppi ed attribuendo tale valore alla componente extra genetica.
La logica di questo ragionamento può essere riassunta approssimativamente così: “se la variabilità del tratto fenotipico in questione non è attribuibile alle esperienze vissute dalla persona da quando è stata partorita allora, di conseguenza, detta variabilità è attribuibile alla componente del DNA”.
Come già riportato, questa metodologia è coerente con il paradigma gene centrico dove vi è una separazione dicotomica tra il concetto ereditabilità dovuta all’informazione genetica e il concetto di ambiente come fattore esperienziale vissuto dall’organismo (sia a livello psicologico che fisiologico/cellulare) che non può essere né ereditato né può influenzare l’espressione del DNA.
Con l’affermarsi del paradigma epigenetico viene enfatizzato il valore ed il ruolo dei fattori che determinano l’espressione differenziale del DNA all’interno di un continuo dialogo bidirezionale, tra la memoria genetica con la memoria informazionale extra-genetica che è contemporaneamente non-Self (dal punto di vista del DNA) e Self (se consideriamo la prospettiva dell’organismo stesso). (Agnoletti, 2020a).
L’epigenetica implica un’abolizione della precedente dicotomia Self-ambiente coincidente con il paradigma genecentrico, per la massiccia e continua capacità dell’organismo di selezionare’ anche in modo reversibile (quindi potenzialmente transitorio), l’informazione genetica che viene espressa (Agnoletti, 2020).
La scienza dei telomeri è un esempio evidente di questo più recente paradigmache enfatizza i fattori non genetici che incidono profondamente sulla longevità degli organismi (Andrews & Cornell, 2017; Blackburn, 1991).
Infatti, ricerche molto recenti coerenti con questa visione hanno confermato che gemelli omozigoti condividono non solo lo stesso genoma, ma anche l’insieme dei meccanismi molecolari che regolano l’espressione dei geni proprio perché la loro duplicazione avviene dalla medesima cellula iniziale che già contiene una sua specifica memoria epigenetica precedente il parto (si veda in proposito Bell & Spector, 2011; Fraga et al., 2005; Tan, Christiansen, von Bornemann Hjelmborg & Christensen, 2015; Kaminsky et al., 2009; Van Baak et al., 2018; Wong, Gottesman & Petronis, 2005; Yet et al., 2016).
È stato dimostrato che questa condivisione di informazioni extra-genetica ha origine nelle prime fasi dello sviluppo embrionale ed è così importante da poter predire lo sviluppo di alcune malattie anche oncologiche.
Sul piano informazionale ciò che è comune a due gemelli omozigoti, non è quindi unicamente riconducibile al contenuto di DNA ma anche a dinamiche epigenetiche. Nella metodologia comparativa tra gemelli omozigoti ed eterozigoti che indaga il rapporto del contributo genetico rispetto quello non genetico, la differenza di variazione tra i due gruppi non è riconducibile esclusivamente al contenuto informazionale del DNA.
Durante la fase di sviluppo ontogenetico (che include naturalmente anche la fase fetale) non ci sono solo in atto le variazioni esistenti tra le memorie genetiche ma anche quelle derivanti dalle memorie epigenetiche, che nei gemelli omozigoti sono molto alte (sono infatti chiamate dagli esperti “supersimili”).
Assumendo quindi come esclusivamente “genetica” la parte costante dell’invarianza tra i due gruppi di gemelli, ne deriva un errore metodologico dovuto al fatto che suddetta invarianza è in realtà il risultato della somma della memoria del DNA e della memoria epigenetica “supersimile”(nel caso dei gemelli omozigoti).
Tutte le ricerche che hanno condiviso questa errata metodologia per studiare specifici tratti fenotipici (morfologici, psicologici o comportamentali)hanno quindi, finora, parecchio sottostimato le componenti extragenetiche sovrastimando quelle genetiche.
L’effetto quantitativo di questo errore concettuale e metodologico è presumibilmente molto alto considerando sia l’effetto della “supersimilarità” epigenetica dei gemelli omozigoti sia per l’effetto della probabile “supersimilarità” legata alla condivisione del microbiota comune acquisito nel periodo di gestazione.
La correttezza di molte affermazioni conseguenti la metodologia finora usata, quali ad esempio che il 50% della nostra felicità è dovuta al contributo genetico, sono profondamente da rivedere alla luce del paradigma epigenetico e di quello del microbiota.
Viste le conseguenze che tali comunicazioni hanno anche a livello di percezione di controllo e gestione della propria vita (si pensi solo ad esempio agli importanti effetti placebo e nocebo sulla salute e sul benessere individuale) con le notevoli implicazioni in termini di costi sociali e di qualità di vita, è auspicabile integrare queste nuove conoscenze prima possibile sia con interventi mirati ai cittadini che destinati ai professionisti del benessere psicofisico.
Bibliografia
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