Abstract: Questo articolo prende in considerazione alcuni studi, per lo più americani, che hanno indagato sul vissuto della donna incinta, detenuta in carcere. Se l’adattamento psicologico affrontato dalle donne durante la gravidanza, è sempre una fase che richiede particolari tutele, questa situazione diventa ancor più significativa in un ambiente carcerario, restrittivo e fonte di stress. Altre osservazioni importanti vengono riportate sulla tutela della salute fisica della donna e del feto e sul momento del parto che solitamente avviene in presenza di estranei, senza curare l’aspetto emotivo dell’evento. L’analisi di questi studi sembra esprimere chiaramente il bisogno, all’interno degli istituti penitenziari, di avviare dei programmi prenatali che siano compatibili con gli standard del sistema sanitario.
Abstract: This article takes into consideration some studies, mostly American, that have investigated the life of the pregnant woman, detained in prison. If the psychological adaptation faced by women during pregnancy is always a phase that requires special safeguards, this situation becomes even more significant in a prison environment, restrictive and source of stress. Other important observations are reported on the protection of the physical health of the woman and the fetus and on the moment of childbirth that usually occurs in the presence of strangers, without caring about the emotional aspect of the event. The analysis of these studies seems to clearly express the need, within the penitentiary institutions, to start prenatal programs that are compatible with the standards of the health system.
Daniel Stern (1998), psichiatra e psicoanalista statunitense, ha per anni studiato l’esperienza di gravidanza delle donne, che, seppure rappresenti un evento di vita biologicamente naturale, rimane una fase psicologicamente ricca di punti non ancora esplorati. Questo periodo è spesso fonte di insicurezze per le donne stesse che non sembrano in grado di spiegarsi le tempeste emotive dalle quali si sentono travolte. Durante la gravidanza, mentre il corpo della donna si trasforma per accoglierne il feto, si viene a creare quello che viene definito “assetto materno”, cioè una predisposizione al pensiero di se stesse come madri con tutto ciò che ne consegue.
In questa fase le donne sono alle prese con fantasie, desideri e paure riguardo al cambiamento che stanno per affrontare e alla vita che stanno per dare alla luce. La “costellazione materna” è un altro costrutto teorico unificante proposto da Stern (1995): ogni donna che diventa madre, viene a trovarsi, da un punto di vista psicologico, in una situazione nuova che orienta i suoi comportamenti, la sua sensibilità, le sue tendenze e i suoi timori.
Appare evidente come, per una donna incinta, possa diventare molto più problematica questa condizione nel momento in cui sia detenuta in carcere. In una tale situazione è chiaro come l’aiuto di una famiglia, di un marito e l’appoggio di una casa nella quale costruire un proprio nido risulti totalmente assente, per cui portare avanti una gravidanza con successo, sia per la salute del bambino che della donna, diventi una impresa ardua.
Nonostante l’esiguità degli studi che si sono occupati di indagare il vissuto soggettivo delle detenute che stanno per avere un figlio, alcuni sembrano esprimere chiaramente il bisogno, all’interno degli istituti penitenziari, di avviare dei programmi prenatali che siano compatibili con gli standard del sistema sanitario (Safyer & Richmond, 1995; Howard, Strobino, Sherman & Crum, 2011). Le descrizioni che seguono si basano su fonti per lo più americane.
Durante la reclusione le donne vengono separate dalla famiglia e da ogni tipo di supporto sociale, perdono la loro autonomia e la possibilità di prendere decisioni. L’adattamento psicologico affrontato da tutte le donne incinte diventa difficoltoso quando queste devono anche adattarsi all’ambiente carcerario, restrittivo e fonte di stress. La scelta, se continuare o no la gravidanza, è influenzata proprio da sentimenti e sensazioni di ansia legati alla nascita e al futuro del bambino. Inoltre, è importante premettere come la maggioranza delle detenute si trovi spesso in situazioni di difficoltà emotiva, avendo subito atti di violenza e abusi sessuali e fisici in precoce età, non essendo sposata e in una condizione socioeconomica molto bassa con un livello minimo di istruzione. Tutto ciò espone queste donne al rischio continuo di traumi psicologici e difficoltà sociali (Safyer & Richmond, 1995).
Studi effettuati tramite metodi di ricerca qualitativi hanno osservato come le detenute in stato di gravidanza possano presentare elevati sentimenti di rabbia e ostilità rispetto alle detenute non in stato di gravidanza (Graham et al., 2002).
Hutchinson, Moore, Popper & Mariaskin (2008) hanno condotto una ricerca esplorativa, usando un approccio di tipo fenomenologico, con l’inserimento di alcune metodologie quantitative.
La ricerca ha indagato, in particolare, i temi delle “capacità di coping”, del supporto sociale e delle aspettative riguardo al futuro.
Le interviste semi-strutturate, fatte a 25 donne detenute, 21 delle quali in gravidanza e 4 che avevano partorito da due mesi, avevano l’obiettivo di ottenere racconti sull’esperienza di gravidanza in carcere e sulle personali aspettative o progetti dopo il parto.
Per progetti dopo il parto si intende la decisione di tenere il bambino con sé oppure affidarlo a qualcuno e alle aspettative di riavvicinamento al figlio dopo il rilascio. Alcune delle domande inserite nelle interviste servivano per rilevare elementi più profondi dell’esperienza, del tipo “pensi che la tua gravidanza e l’avere un figlio potrebbe essere differente, se tu non fossi qui?”, “hai mai pensato al momento della separazione dal tuo bambino? E che tipo di sentimenti esperisci quando ti confronti con questi pensieri?”.
Le donne riferiscono che la loro gravidanza sarebbe migliore se non fossero in prigione e tutte sono d’accordo sul fatto che il carcere esacerbi i disagi tipici di una gravidanza, come fatica e fame. Una buona parte di esse esprime, d’altro canto, come questa esperienza sia un’opportunità per un nuovo inizio e come la prigione le abbia aiutate ad affrontare l’uscita dalla droga, grazie ai programmi di trattamento previsti, evitando loro di continuare ad abusare anche di alcol o fumo.
Accanto alle interviste semi-strutturate, la Brief Symtom Inventory (BSI) e la Beck Depression Inventory (BDI-II) hanno contribuito a completare il quadro psicologico delle detenute in gravidanza. Gli autori hanno trovato, infatti, moderati livelli di depressione, che aumentano il rischio di depressione post- partum e di complicanze ostetriche al parto, come nascita prematura o basso peso del neonato (Hutchinson, et al., 2008).
Inoltre i disagi collegati all’ambiente, la paura per la futura salute del bambino e l’ansia per una possibile separazione rendono le madri esageratamente apprensive e iperprotettive.
Lo studio sopra descritto si muove sulla stessa linea di un’altra precedente ricerca, condotta in una prigione di stato statunitense, che aveva ugualmente l’obiettivo di indagare l’esperienza di gravidanza in carcere di 12 detenute tramite l’utilizzo di tecniche di analisi del racconto; in questo caso veniva adottato il “Giorgi’s phenomenological method” (Wismont, 2000). In tale ricerca i temi essenziali rilevati sono stati quelli di apprensione, afflizione, assoggettamento e coinvolgimento. Le donne in questo studio hanno espresso, riguardo alla salute del feto, sentimenti pervasivi di inquietudine che continuavano anche dopo il parto; i sentimenti di afflizione e tristezza, riferiti come struggenti, riguardavano il pensiero della separazione, minore nelle donne che avevano già deciso di ricorrere all’adozione. Il termine usato per indicare il terzo aspetto, assoggettamento o soggiogamento (“subjugation”), si riferisce alla distanza fisica ed emozionale esperita: isolamento e perdita di autonomia sono gli indicatori principali di questo tema. Il coinvolgimento, infine, è un elemento emerso che riguarda l’energia positiva che le donne riportano per riferirsi alla loro gravidanza: espressioni da loro usate come “connessione con il feto” o “connessione con me stessa” descrivono l’abilità della donna di preservare se stessa e il bambino in condizioni avverse.
La particolarità dei risultati di questa ricerca, rispetto ad altre precedenti, deriva dal fatto che viene evidenziato un aspetto “positivo”, cioè la capacità delle donne di reagire, pensare con ottimismo e di mettere in atto comportamenti che non mettano a rischio la salute del feto. Tutte e dodici le donne intervistate dimostrano un alto livello di soddisfazione derivante dalla relazione instaurata con il bambino ancora in grembo. Questi aspetti rappresentano fattori protettivi e motivanti per un futuro reinserimento nella società e contro il rischio di recidiva dopo il rilascio.
Un aspetto importante dell’esperienza di gravidanza è senza dubbio il momento del parto. Questa esperienza è fondamentale per la donna che normalmente è sostenuta dalla presenza e dal supporto del marito o del compagno e della famiglia. In prigione tutto ciò non è possibile (Schroeder e Bell, 2005). Le autrici, infatti, descrivono come le donne in custodia vengano trasportate in ospedale alle prime doglie per evitare che partoriscano in prigione e spesso siano in manette. Una volta ammesse in ospedale, non è loro concesso di lasciare la stanza durante il travaglio o dopo il parto, né possono ricevere visite o telefonate. In genere il parto non avviene in presenza di familiari, ma tecnici: infermieri, pediatri, neonatologi e studenti di medicina e sempre sotto stretta sorveglianza armata di un ufficiale spesso di genere maschile. Se il parto non ha avuto complicanze, la donna entro 24 ore viene riportata in prigione.
I racconti del vissuto soggettivo della gravidanza in carcere evidenziano la presenza di sentimenti negativi dovuti al disagio dell’ambiente: dalle sedie scomode alla fame continua mai soddisfatta, alle esposizioni a materiali tossici. Le sensazioni esperite, oltre ai malesseri fisici di perdite e gonfiori dovuti al parto, sono quelle di depressione, ansia, sentimenti di vuoto, talora mancanza di appetito.
Dall’osservazione delle condizioni delle partorienti, Schroeder e Bell (2005) hanno avviato un progetto con l’obiettivo di aiutare le donne a vivere più positivamente l’esperienza del parto e della nascita. Le ricercatrici si sono basate su dati che evidenziavano come un continuo supporto diretto da parte di altre donne durante il travaglio avesse effetti positivi sul parto, sulla soddisfazione della paziente e sul primo contatto madre-figlio. Questa esperienza nel progetto di supporto è stata molto soddisfacente sia per gli operatori che per le donne, le quali hanno consigliato l’esperienza anche alle altre detenute.
Molte donne hanno ricordato l’appoggio ricevuto dalle altre compagne di cella che le hanno aiutate a ottenere più cibo, più cure ed a mantenere un umore un po’ più allegro. Tra le tematiche più frequenti si ritrovavano quelle della pianificazione del futuro, delle promesse di non ricadere nell’abuso di droghe e della speranza di ritrovare i contatti con i figli dopo il rilascio.
Howard, Strobino, Sherman, & Crum (2011), hanno studiato quale tipo di associazione vi fosse tra l’età gestazionale al momento dell’entrata in carcere e il peso del bambino alla nascita. L’associazione risulta negativa, in quanto i bambini nati da madri arrestate durante il primo trimestre hanno un peso alla nascita più alto rispetto ai bambini nati da madri arrestate dopo il primo trimestre di gravidanza.
Questi risultati sono in netto contrasto con quelli trovati dalle precedenti ricerche di Martin, Kim, Kupper, Meyer e Hays (1997) e Bell, Zimmerman, Cawthon, Huebner, Ward e Schroeder (2004), i quali affermano che, le detenute che hanno trascorso più tempo in carcere durante la gravidanza, sono più esposte al rischio di partorire un figlio di basso peso per via limiti dell’ambiente detentivo e dello stress che esso comporta.
Howard et. al. (2011) suggeriscono che i differenti risultati siano dati dal diverso modello di regressione statistica utilizzato, oltre a una diversa misurazione dell’esposizione all’ambiente detentivo. Infatti, mentre i precedenti studi definivano l’esposizione in termini di giorni o settimane trascorse in carcere durante la gravidanza, essi la definiscono in termini di età gestazionale al momento dell’arresto. Il modello da loro utilizzato ha permesso di controllare anche altre variabili che possono influire sul peso del bambino alla nascita che gli altri autori non avevano previsto[1].
Gli autori credono che l’ambiente restrittivo del carcere e la presenza di un’assistenza prenatale continua alle partorienti prevista dall’istituzione, possano fungere paradossalmente da fattore protettivo per la salute sia della madre che del bambino. Quest’idea deriva dall’analisi di dati demografici noti, secondo i quali la maggioranza delle donne sia detenuta per droga; da ciò è possibile immaginare come queste, fuori dal carcere conducano uno stile di vita malsano e mettano in atto comportamenti a rischio per il feto, come bere, fumare o seguire una cattiva alimentazione, comportamenti che in carcere vengono del tutto limitati.
Purtroppo la mancanza di studi sistematici condotti in Italia riguardo la specifica esperienza di gravidanza delle detenute non permette un confronto con la nostra realtà. Ciò ci porta a riflettere sulla necessità di avviare ulteriori approfondimenti in tema di gravidanza e carcere.
[1] Per ulteriori approfondimenti sul modello utilizzato da Martin et. al.(1997) si veda Greenland (1995).