Avv. Angelo Russo
Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania
Con la sentenza n. 14836 del 7.6.2018 la Corte di Cassazione, torna a occuparsi della delicatissima questione dell’indennità di rischio radiologico spettante ai tecnici sanitari di radiologia medica, ai medici radiologi e al personale medico e non medico.
IL FATTO
Con sentenza in data 17 aprile 2012 la Corte d’appello di Roma accoglieva l’appello della AUSL Roma E avverso la sentenza del locale Tribunale n. 1509/2008 e respingeva il ricorso proposto dalla dottoressa Z.M.G. – medico specialista radiologo alle dipendenze della suindicata Azienda sanitaria a decorrere dal 1978, in servizio presso il reparto di radiologia del Presidio territoriale “(OMISSIS)” – volto ad ottenere il riconoscimento del proprio diritto all’indennità mensile di rischio radiologico, contenuta nella L. 27 ottobre 1988, n. 460, art. 1, al correlato congedo biologico con la sorveglianza dosimetrica e le periodiche visite di controllo, per il periodo indicato decorrente dal 1 gennaio 2000 che la AUSL non le aveva più attribuito, dopo aver cessato di considerala “soggetto a rischio di radiazioni ionizzati”, con provvedimento del 27 marzo 1997.
Secondo la Corte di Appello, la Dott.ssa Z. non poteva essere compresa tra i medici radiologi aventi diritto per legge all’indennità di rischio radiologico (cioè beneficiari della presunzione assoluta di esposizione a tale rischio) in quanto doveva farsi rientrare fra i lavoratori per i quali il diritto a tale indennità dipende dall’accertamento delle concrete e specifiche condizioni di lavoro.
Avverso la sentenza la Dottoressa Z.M.G. proponeva ricorso, denunciando che, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello, l’accertamento delle condizioni di lavoro al fine del riconoscimento del diritto ai benefici non era richiesto per i medici radiologi e i tecnici radiologi, ma per le altre categorie di personale.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, rilevando che la Corte d’appello (dopo aver precisato che nell’ambito del giudizio si era anche fatto riferimento alle modalità di lavoro della Dottoressa Z.) ha erroneamente attribuito a tale elemento un rilievo centrale, pervenendo alla conclusione che alla ricorrente non potesse applicarsi la presunzione assoluta di rischio, nella qualità di medico specialista radiologo alle dipendenze della AUSL Roma E.
Secondo il Giudice di Legittimità una simile conclusione si pone, in primo luogo, in contrasto con la legislazione nazionale e la contrattazione collettiva, come costantemente interpretate dalla giurisprudenza ordinaria di legittimità e di merito nonchè dalla giurisprudenza amministrativa, in conformità con il costante indirizzo della Corte Costituzionale che, a partire dalla sentenza n. 343 del 1992, ha chiarito che “l’indennità di rischio da radiazioni prevista dalla L. 27 ottobre 1988, n. 460, art. 1, spetta nella misura piena al personale medico e tecnico di radiologia – per il quale sussiste una presunzione assoluta di rischio che viene a trovare la sua corretta giustificazione nell’inerenza del rischio stesso alle mansioni naturalmente connesse alla qualifica rivestita e che comporta, di conseguenza, l’attribuzione automatica dell’indennità nella misura più elevata – ma può essere attribuita nella stessa misura anche a quei lavoratori che, pur non appartenendo al settore radiologico, sono esposti ad un rischio non minore, per continuità ed intensità, di quello sostenuto dal personale di radiologia” (Corte Costituzionale, ordinanze n. 4 del 1993 e n. 154 del 2012).
Peraltro, sottolinea la Suprema Corte, solo per questi ultimi lavoratori – e non per i medici e i tecnici radiologi per i quali la qualifica rivestita è necessaria e sufficiente per avere l’indennità e il connesso trattamento (Cons. Stato, Sez. 3, 17 ottobre 2014, n. 5155), l’attribuzione di detta indennità e il congedo aggiuntivo presuppongono che l’interessato fornisca la prova dell’esposizione qualificata in base ai criteri tecnici previsti dal D.Lgs. n. 230 del 1995, ovvero dello svolgimento abituale dell’attività professionale in zona controllata o dell’assorbimento annuo delle radiazioni che la stessa comporta.
Secondo la Corte di legittimità, essendo tutta la sentenza incentrata sulla descritta erronea premessa, appariva, peraltro, non condivisibile la distinzione tra esami con mezzi di contrasto ed esami radiologici diretti, che non tiene conto del fatto che, per le linee guida ministeriali, il medico radiologo è responsabile degli esami radiologici in tutte le loro fasi, sicchè può – e a volte deve – recarsi nella zona protetta per qualunque tipo di esame se se ne ravvisa la necessità.
Per ciò che concerne la sorveglianza dosimetrica – che è, nella specie, dovuta, insieme con il congedo biologico – la Corte ha precisato che “non è esatto che la sottoposizione a tale sorveglianza sarebbe una caratteristica dell’assenza della presunzione assoluta, in quanto si tratta di una cautela prevista per tutelare la salute dei medici e dei tecnici radiologi e di coloro che sono esposti al rischio radiazioni, sottolineando che la sentenza impugnata si pone anche in sostanziale contrasto con la normativa UE (recepita nel nostro ordinamento) in materia di protezione sanitaria della popolazione e dei lavoratori contro i rischi derivanti dalle radiazioni ionizzanti, la quale è informata al criterio secondo cui sono per “lavoratori esposti” si intendono le persone sottoposte, per l’attività che svolgono, a un’esposizione che “può” comportare dosi superiori ai pertinenti limiti fissati per le persone del pubblico, i “lavoratori esposti di categoria A” sono i lavoratori che, per le mansioni che svolgono, sono “suscettibili” di ricevere in un anno solare una dose superiore a uno dei pertinenti valori stabiliti dal D.Lgs. n. 230 del 1995, art. 82 (e tali sono – per definizione – i medici radiologi, oltre che i tecnici di radiologia); gli altri lavoratori esposti sono “classificati in categoria B” (D.Lgs. n. 230 del 1995, art. 6, come sostituito dal D.Lgs. n. 241 del 2000, art. 4; vedi, sul punto: Cass. 19 settembre 2017, n. 21666).”
CONCLUSIONI
La sentenza in commento, in definitiva, sancisce e ribadisce che l’indennità di rischio da radiazioni, prevista dall’art. 1 della l. n. 460 del 1988, spetta in maniera automatica e nella misura più elevata, unitamente alle connesse provvidenze del congedo biologico, della sorveglianza dosimetrica e delle visite periodiche di controllo, al personale medico e tecnico di radiologia per il quale sussiste una presunzione assoluta di esposizione a rischio, inerente alle mansioni naturalmente connesse alla qualifica rivestita.
Al contrario, ricade sui lavoratori che non appartengano al settore radiologico e ne domandino l’attribuzione, l’onere di dimostrare l’esposizione non occasionale, né temporanea, a rischio analogo, in base ai criteri tecnici dettati dal d.lgs. n. 230 del 1995 (Attuazione delle direttive 89/618/Euratom, 90/641/Euratom, 96/29/Euratom, 2006/117/Euratom in materia di radiazioni ionizzanti, 2009/71/Euratom in materia di sicurezza nucleare degli impianti nucleari e 2011/70/Euratom in materia di gestione sicura del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi derivanti da attività civili).
L’argomento è, com’è intuitivo, delicatissimo.
A conferma di ciò (e del ritardo dell’Italia nell’aggiornamento degli standards di sicurezza) è notizia recentissima che la Commissione europea ha inviato all’Italia un parere motivato (il secondo stadio della procedura di infrazione) per chiedere al nostro Paese di trasporre nel proprio ordinamento le nuove norme previste dalla direttiva Ue sugli standard basilari di sicurezza, che modernizza la legislazione europea in materia di protezione dalle radiazioni.
La direttiva, che avrebbe dovuto essere tradotta in legge entro lo scorso 6 febbraio, delinea standard basilari di sicurezza per proteggere lavoratori, utenti e pazienti dai pericoli derivanti dall’esposizione alle radiazioni ionizzanti, usate a scopi medici, ma anche industriali.
Vengono anche previsti preparativi di emergenza, rafforzati dopo l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima, in Giappone.
L’Italia ha ora 2 mesi per rispondere; in caso contrario, potrebbe essere deferita alla Corte di Giustizia Ue.