In un precedente contributo si è avuto modo di affrontare le prime questioni afferenti l’obbligatorietà della vaccinazione anti COVID-19, prevista e disciplinata dall’art. 4 del Decreto Legge n. 44/2021 per tutte le professioni e gli operatori del comparto sanitario e ciò, naturalmente, per la variegata compresenza di valori etici e giuridici, diffusamente (e sovente con argomentazioni affatto estranee al diritto) presente in tutti i settori della comunicazione.
Autore
Avv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.
Non sarebbe stato difficile prevedere, peraltro, che i Tribunali si sarebbero trovati, ben presto, ad affrontare la problematica sollevata dai ricorsi con i quali, a vario titolo, settori del comparto sanitario avrebbero contestato la legittimità delle previsioni normative circa la vaccinazione.
Ad un primo esame, la risposta della Magistratura Amministrativa (pur con i dovuti distinguo) sembra, pressoché univocamente, indirizzata nel ritenere la legittimità dei provvedimenti delle strutture sanitarie che hanno ordinato l’allontanamento dal luogo di lavoro e la sospensione della retribuzione per il personale privo del requisito essenziale per la prestazione dell’attività lavorativa rappresentato dalla mancata accettazione a sottoporsi alla vaccinazione Covid 19.
Con la recentissima sentenza n. 261 del 10.9.2021 il T.A.R. Trieste (Friuli-Venezia Giulia) si è occupato, funditus, della questione.
Per quanto attiene ai profili tecnico-scientifici delle censure (vale a dire le generali considerazioni sulla sicurezza e sull’efficacia dei vaccini contro il SARS-CoV-2), il Tribunale rileva che “non si può prendere in considerazione l’alluvionale quantità di documenti, della più varia natura, provenienza ed attendibilità (che spaziano da interviste ed opinioni di esperti, ad articoli di stampa ufficiale e non, fino a studi scientifici di decine e decine di pagine), depositati dalla ricorrente.
Nell’ambito di una disciplina caratterizzata, per il suo stesso statuto epistemologico, da un ineliminabile margine di incertezza, il giudice non può essere chiamato a “pesare” e valutare ogni singola opinione o fonte informativa, né avrebbe il potere e la competenza per farlo, ma deve fondare il proprio convincimento sulle informazioni ufficiali, veicolate dalle competenti autorità pubbliche, nello specifico l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS).”
Con la sottoposizione alla vaccinazione di gran parte della popolazione nazionale (39.072.107 persone, pari al 72,34% della popolazione di età superiore ai 12 anni, alla data dell’8.9.2021) – prosegue il Tar – nonché grazie alla diffusione capillare degli strumenti diagnostici “si è resa disponibile un’enorme mole di dati ed evidenze statistiche. Il livello di conoscenze acquisite quanto ai profili di efficacia e sicurezza dei vaccini contro il SARS-CoV-2 rende dunque la presente vicenda per nulla sovrapponibile a quella relativa all’uso terapeutico dell’idrossiclorochina (Cons. Stato, sez. III, 11 dicembre 2020, n. 7097), nell’ambito della quale il giudice, in un contesto di grande incertezza scientifica, aveva ritenuto non potersi applicare rigidamente i principi propri dell’evidence based medicine.”
Con il primo motivo di ricorso, invero, si censura la disposizione applicata “sotto il profilo della carenza di oggetto e dell’impossibilità di raggiungimento dello scopo e ciò in quanto non potrebbe contestarsi una “inosservanza dell’obbligo vaccinale” (art. 4, comma 6 del d.l. 44 del 2001) in mancanza di sostanze propriamente efficaci contro l’infezione da SARS-CoV-2 e quindi idonee al perseguimento dello scopo sotteso all’obbligo. Di conseguenza, sarebbe impossibile rinvenire un interesse superindividuale e pubblicistico a supporto della misura legislativa.”
Per il Giudice Amministrativo “è errato il presupposto fattuale di entrambi gli argomenti, cioè quello secondo cui i prodotti in uso nella campagna di vaccinazione sarebbero inefficaci nel prevenire l’infezione da SARS-CoV-2, ma agirebbero solo sui relativi sintomi (quindi in chiave di prevenzione della malattia). Evidenze opposte emergono, infatti, dall’ultimo bollettino sull’andamento dell’epidemia prodotto dall’ISS, organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale, istituzionalmente investito – tra le altre – delle funzioni di ricerca e controllo in materia di salute pubblica (art. 1 del relativo Statuto, approvato con D.M. 24.10.2014).”.
Il documento cui si fa riferimento è liberamente consultabile online presso il sito internet dell’ente (https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/Bollettino-sorveglianza-integrata-COVID-19_1-settembre-2021.pdf) e considera i dati relativi a tutti i casi di infezione da virus SARS-CoV-2 registrati nel periodo 4 aprile – 31 agosto 2021, confermati tramite positività ai test molecolari e antigenici.
Esso conclude riconoscendo che “l’efficacia complessiva della vaccinazione incompleta nel prevenire l’infezione è pari al 63,2% (95%IC: 62,8%-63,5%), mentre quella della vaccinazione completa è pari al 78,1% (95%IC: 77,9%-78,3%). Questo risultato indica che nel gruppo dei vaccinati con ciclo completo il rischio di contrarre l’infezione si riduce del 78% rispetto a quello tra i non vaccinati“.
Può affermarsi dunque – rileva il Tar – “con l’evidenza dei dati statistici, che la vaccinazione ha efficacia preventiva, oltre che dei sintomi della malattia, anche della trasmissione dell’infezione”, sottolineandosi, peraltro, che “il ragionamento della ricorrente non sarebbe comunque condivisibile laddove afferma che un’eventuale efficacia preventiva della sola malattia confinerebbe la scelta vaccinale del sanitario in una dimensione strettamente individuale e quindi in nessun modo coercibile.”
L’interesse a prevenire lo sviluppo della malattia da Covid-19 in capo agli operatori sanitari, nel contesto dell’emergenza pandemica, assume – secondo il Giudice – un’indubbia valenza pubblicistica, giacché garantisce la continuità delle loro prestazioni professionali e, quindi, l’efficienza del servizio fondamentale cui presiedono e, sotto altro profilo, “è di valenza pubblicistica anche l’interesse a mitigare l’impatto sul SSN – in termini, soprattutto, di ricoveri e occupazione delle terapie intensive – che potrebbe comportare l’incontrollata diffusione della malattia da Covid-19 in capo a soggetti naturalmente esposti, in misura maggiore rispetto alla media, al rischio di contagio e che costituiscono un insieme numericamente considerevole della popolazione nazionale (dai dati ISTAT 2019 si contano nel nostro paese 241.945 medici, tra generici e specialisti, 51 954 odontoiatri, 17.253 ostetriche, 367.684 infermieri, 75.000 farmacisti, senza contare OSS, dipendenti di RSA e altri operatori di interesse sanitario).”
Del pari privo di fondamento è il secondo motivo di ricorso col quale si afferma che “l’obbligo sancito dall’art. 4 del d.l. 44 del 2021, avendo ad oggetto un trattamento sanitario sperimentale, contrasterebbe con la Costituzione e con una serie di norme di fonte sovranazionale che tutelano la dignità umana e il diritto ad esprimere un consenso informato.”
Anche in questo caso è errata la premessa del ragionamento (cioè quella secondo cui i vaccini attualmente disponibili si troverebbero ancora in fase di sperimentazione) atteso che i quattro prodotti ad oggi utilizzati nella campagna vaccinale sono stati invece regolarmente autorizzati dalla Commissione, previa raccomandazione dell’EMA, attraverso la procedura di autorizzazione condizionata (c.d. CMA, Conditional marketing authorisation), disciplinata dall’art. 14-bis del Reg. CE 726/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio e dal Reg. CE 507/2006 della Commissione.
Si tratta – precisa il Tar – di un’autorizzazione che può essere rilasciata anche in assenza di dati clinici completi, “a condizione che i benefici derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari“.
Il carattere condizionato dell’autorizzazione non incide, peraltro, sui profili di sicurezza del farmaco (dal sito dell’ISS, che richiama a sua volta quello dell’EMA: “una autorizzazione condizionata garantisce che il vaccino approvato soddisfi i rigorosi criteri Ue di sicurezza, efficacia e qualità, e che sia prodotto e controllato in stabilimenti approvati e certificati in linea con gli standard farmaceutici compatibili con una commercializzazione su larga scala“), né comporta che la stessa debba essere considerata un minus dal punto di vista del valore giuridico, ma impone unicamente al titolare di “completare gli studi in corso o a condurre nuovi studi al fine di confermare che il rapporto rischio/beneficio è favorevole“.
La CMA è, peraltro, uno strumento collaudato e utilizzato già diverse volte prima dell’emergenza pandemica, come attesta il report disponibile sul sito istituzionale dell’EMA, relativo ai primi dieci anni di utilizzo della procedura: nel periodo di riferimento – dal 2006 al 2016 – sono state concesse ben 30 autorizzazioni in forma condizionata, nessuna delle quali successivamente ritirata per motivi di sicurezza (https://www.ema.europa.eu/documents/report/conditional-marketing-authorisation-report-ten-years-experience-european-medicines-agency_en.pdf).
Anche in questa forma – prosegue l’iter argomentativo del Giudice – “l’autorizzazione si colloca a valle delle usuali fasi di sperimentazione clinica che precedono l’immissione in commercio di un qualsiasi farmaco, senza alcun impatto negativo sulla completezza e sulla qualità dell’iter di studio e ricerca. Al contrario, la ricerca del vaccino contro il Covid-19, divenuta una priorità assoluta per tutte le potenze mondiali, ha potuto beneficiare di ingenti risorse umane ed economiche, di procedure valutative rapide e ottimizzate (c.d. rolling review), della partecipazione di un elevatissimo numero di volontari “circa dieci volte superiore a quello di studi analoghi per lo sviluppo di altri vaccini” (si vedano le FAQ dell’Aifa, prodotte sub doc. 7 dall’amministrazione).”
La “sperimentazione” dei vaccini si è dunque conclusa con la loro autorizzazione all’immissione in commercio, all’esito di un rigoroso processo di valutazione scientifica e non è corretto – sottolinea fermamente il Giudice – affermare che “la sperimentazione sia ancora in corso solo perché l’autorizzazione è stata concessa in forma condizionata” sicchè l’equiparazione dei vaccini a “farmaci sperimentali“, dunque, è frutto di “un’interpretazione forzata e ideologicamente condizionata della normativa europea.”
Nessuna attinenza con la questione della sicurezza dei vaccini ha poi – prosegue il Tar – il c.d. “scudo penale” concesso agli operatori somministranti dall’art. 3 del d.l. 44 del 2021.
Secondo la relazione illustrativa, la disposizione “è espressione dei principi generali dell’imputazione soggettiva in materia di responsabilità penale per colpa e, in un’ottica di una maggiore certezza giuridica, mira a rassicurare il personale sanitario e in genere i soggetti coinvolti nelle attività di vaccinazione“; la finalità è dunque quella di evitare che “la prospettiva di incorrere in possibili responsabilità penali…” possa “ingenerare allarme tra quanti sono chiamati a fornire il proprio contributo al buon esito della campagna di vaccinazione nazionale…“.
L’intervento del legislatore si giustifica, dunque, “in chiave eminentemente simbolica, per la volontà di scongiurare atteggiamenti di medicina difensiva che potrebbero ostacolare e ritardare la campagna vaccinale.”.
Dal punto di vista strettamente giuridico la norma non sembra presentare elementi di particolare innovatività giacché i presupposti cui ricollega l’operatività dell’esimente (“quando l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione“) altro non delineano che una condotta conforme alle norme cautelari specifiche che naturalmente presiedono all’attività di somministrazione del vaccino.
Deve dunque “rifiutarsi una strumentalizzazione della norma come indiretto riconoscimento della natura sperimentale del vaccino o della sua particolare pericolosità.”
Quanto al profilo relativo alla natura discriminatoria della misura e alla sua contrarietà con il Reg. UE 2021/953, il Tar rileva che quest’ultimo disciplina il “certificato COVID digitale dell’UE” nel quadro della libera circolazione delle persone nel territorio degli stati membri e appare del tutto estraneo alla fattispecie.
Al citato considerando numero 36 – che peraltro, nel testo italiano fa riferimento ai soggetti non vaccinati “per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti COVID-19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate” – non può quindi attribuirsi il preteso valore interpretativo.”
Con il terzo motivo, la ricorrente contesta la ragionevolezza della disposizione, nella parte in cui fa conseguire alla mancata sottoposizione al vaccino la sospensione dall’esercizio della professione e quindi la radicale impossibilità di ottenere un reddito.
Non si ravvisa – secondo il Tar – alcun difetto di ragionevolezza della disposizione atteso che “del tutto giustificata appare l’individuazione dei soggetti cui l’obbligo è riferito: “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario” entrano quotidianamente in relazione con una collettività indifferenziata, composta anche di individui fragili o in gravi condizioni di salute, che non può scegliere di sottrarsi al contatto, né informarsi sullo stato di salute dei sanitari e sulla loro sottoposizione alla profilassi vaccinale.
Quanto al bilanciamento di interessi sotteso alla misura, si ritiene che la primaria rilevanza del bene giuridico protetto, cioè la salute collettiva, giustifichi la temporanea compressione del diritto al lavoro del singolo che non voglia sottostare all’obbligo vaccinale: ogni libertà individuale trova infatti un limite nell’adempimento dei doveri solidaristici, imposti a ciascuno per il bene della comunità cui appartiene (art. 2 della Cost.)”
Dal punto di vista della proporzionalità, si evidenzia – sottolinea il Tar – che l’art. 4 del d.l. 44 del 2021 “prevede comunque un meccanismo di esenzione dall’obbligo vaccinale, per i casi di “accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale”, e che la sospensione, anche nelle ipotesi di permanente e ingiustificato inadempimento, ha natura temporanea, estendendosi “fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”.
Le conseguenze negative derivanti dall’inadempimento dell’obbligo vaccinale, dunque, sono scongiurate in caso di accertata impossibilità di sottoporsi al vaccino e, in ogni caso, temporalmente predeterminate.
Con il quarto motivo, la ricorrente censura la carenza dei presupposti per imporre con legge un trattamento sanitario (art. 32 Cost.) e ciò in quanto l’obbligo vaccinale, in particolare, “sacrificherebbe in modo rilevante il diritto fondamentale alla salute di ciascun individuo, senza al contempo tutelare la salute collettiva, risultando strumento inidoneo alla prevenzione generale dei contagi.”
Il Tar precisa che “le condizioni necessarie all’imposizione di una vaccinazione obbligatoria sono state di recente ribadite dalla Corte costituzionale (Corte cost., 18 gennaio 2018, n. 5), che ha dichiarato la conformità a Costituzione delle dieci vaccinazioni imposte ai minori fino a sedici anni di età con il d.l. 73 del 2017 (convertito in l. 119 del 2017).”
Secondo la Corte, “la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990)“.
Tutti e tre i presupposti, invero, sussistono nel caso in esame.
Quanto all’inesistenza di conseguenze negative per chi è sottoposto al trattamento, che vadano oltre la normalità e la tollerabilità (seconda condizione), si deve partire dal presupposto che il vaccino, come tutti i farmaci, non può essere considerato del tutto esente da rischi.
Il giudizio in questione deve dunque guardare ai profili di sicurezza dei vaccini contro il Covid-19 disponibili sul mercato e al favorevole rapporto costi/benefici della loro somministrazione su larga scala.
Il monitoraggio costante di questi aspetti compete al sistema di farmacovigilanza, cui è preposta l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), che raccoglie e valuta tutte le segnalazioni di eventi avversi.
I dati raccolti all’esito di tali attività sono liberamente consultabili da chiunque sul sito internet dell’ente, oltre ad essere esposti e dettagliatamente analizzati in rapporti pubblicati periodicamente.
Quanto, in particolare, alla farmacovigilanza sui vaccini Covid-19, con i dati aggiornati al 26.7.2021 (e ricavati dalla somministrazione di 65.692.591 dosi di vaccino) gli episodi sfavorevoli verificatisi dopo la somministrazione, a prescindere dalla riconducibilità alla stessa dal punto di vista causale, sono stati 84.322, con un tasso di segnalazione (misura del rapporto fra il numero di segnalazioni inserite nel sistema di Farmacovigilanza e numero di dosi somministrate) – pari a 128 ogni 100.000 dosi.
Di queste, solo il 12,8% ha avuto riguardo ad eventi gravi (con la precisazione che ricadono in tale categoria, definita in base a criteri standard, conseguenze talvolta non coincidenti con la reale gravità clinica dell’evento).
Di tutte le segnalazioni gravi (16 ogni 100.000 dosi somministrate), solo il 43% di quelle esaminate finora è risultata correlabile alla vaccinazione.
Si tratta – rimarca il Tar – “di dati comparabili a quelli emersi in esito all’attività di farmacovigilanza condotta sugli altri vaccini esistenti (alcuni dei quali già oggetto di somministrazione obbligatoria ai sensi del d.l. 73 del 2017), che sono parimenti consultabili sul sito dell’AIFA, nello specifico rapporto (https://www.aifa.gov.it/documents/20142/241052/Rapporto_Vaccini_2019.pdf).”
Le risultanze statistiche evidenziano dunque l’esistenza di un bilanciamento rischi/benefici assolutamente accettabile.
I danni conseguenti alla vaccinazione per il SARS-CoV-2 devono ritenersi, considerata l’estrema rarità del verificarsi di eventi rari e correlabili, rispondenti ad un criterio di normalità statistica.
L’esistenza di un meccanismo indennitario per l’ipotesi di danni ulteriori (terza condizione), esso è previsto – sottolinea il Tar – dalla legge 210 del 1992, che riconosce il diritto alla corresponsione di indennizzo da parte dello Stato a fronte di ogni “menomazione permanente della integrità psico-fisica” conseguente ad una vaccinazione obbligatoria.
Tale deve senz’altro considerarsi, per gli operatori sanitari, la vaccinazione prescritta dall’art. 4 del d.l. 44 del 2021.
A ciò si aggiunga che il campo applicativo dell’indennizzo è stato comunque esteso dalla Corte costituzionale anche alle vaccinazioni c.d. “raccomandate” (Corte cost., 23 giugno 2020, n. 118): ciò che rileva è l’obiettivo di tutela della salute collettiva attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale, non invece lo specifico strumento – obbligo o raccomandazione – adoperato a tal fine.
La menzionata sentenza n. 5 del 2018 della Corte Costituzionale riconosce, dunque, il preminente rilievo del diritto alla salute nella sua dimensione collettiva, rispetto alla libertà di autodeterminazione dei singoli.
Afferma, infatti, che pur riscontrandosi oggi una “più spiccata sensibilità per i diritti di autodeterminazione individuale anche in campo sanitario” (par. 8.2.3), che ha portato a prediligere politiche vaccinali basate sulla sensibilizzazione e sulla raccomandazione, “il ricorso alla dimensione dell’obbligo è costituzionalmente legittimo quando lo strumento persuasivo appaia carente sul piano dell’efficacia (par. 8.2.4) rispetto alla situazione da fronteggiare in concreto.”
L’obbligo vaccinale ampio e generalizzato previsto dal d.l. 73 del 2017 è stato ritenuto dalla Corte strumento ragionevole e adeguato a fronteggiare una situazione di “flessione preoccupante delle coperture“, che non presentava certo i caratteri di gravità dell’attuale situazione pandemica.
Traslando il ragionamento alle presenti vicende, non pare – precisa il Tar – ipotizzabile l’incostituzionalità di una disposizione che, nel contesto di un’emergenza sanitaria senza precedenti, introduce un obbligo della vaccinazione riferito ad una determinata categoria professionale, particolarmente esposta al contagio e a divenire veicolo di trasmissione del virus.
Merita, infine, di essere sottolineato come la Corte si sia già espressa in termini critici nei confronti della dilagante disinformazione in materia vaccinale e in particolare della “convinzione che le vaccinazioni siano inutili, se non addirittura nocive: convinzione, si noti, mai suffragata da evidenze scientifiche, le quali invece depongono in senso opposto“.
Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta un vizio di motivazione dell’atto, ancora una volta partendo dal presupposto – su cui già si è detto – della natura sperimentale del vaccino, che imporrebbe un onere giustificativo rafforzato.
Non pare possibile imputare – rileva il Tar – al provvedimento impugnato vizi riconducibili alla violazione del consenso informato, che sarebbe stato acquisito al momento della somministrazione del farmaco (ma la ricorrente non si è mai presentata all’appuntamento fissato d’ufficio dall’Azienda sanitaria).
L’atto, invero, si limita ad accertare il fatto oggettivo del mancato adempimento all’obbligo sancito dall’art. 4, comma 1 del d.l. 44 del 2021 e lo fa in maniera esaustiva, ricapitolando – con puntuale riferimento ai diversi atti endoprocedimentali – tutti i passaggi dell’iter previsto dalla legge.
Nell’ambito di un procedimento dettagliatamente disciplinato e improntato a celerità, “l’amministrazione non può essere tenuta a dare risposta a contestazioni che fuoriescono dal perimetro delle circostanze valutabili, tanto più se evidentemente pretestuose – si veda ad esempio quella con cui la ricorrente richiede di indicare “quale sostanza intendete inocularmi allo scopo della prevenzione del virus SARS-CoV-2, dato che le quattro sostanze allo stato ammesse in Italia in via condizionata (Comirnaty di Pfizer/BioNTech, Moderna, AstraZeneca/Vaxzevria e Janssen di Johnson e Johnson) non prevengono l’infezione con il virus SARS-CoV-2.“
Del pari non incombe sull’amministrazione “il dovere di accertare la ricorrenza di eventuali ragioni di esenzione in concreto dall’obbligo, essendo compito degli interessati illustrare, nei termini e nelle modalità di legge (cfr. art. 4, commi 2 e 5), possibili cause ostative documentate.”
Con il sesto motivo la ricorrente lamenta “la mancata considerazione del proprio stato di immunità naturale, rispetto al quale produce specifica documentazione (referto di test anticorpale del -OMISSIS-”).
Il motivo, secondo il Tar, è infondato in quanto “il referto medico prodotto costituisce, in verità, prova dell’esatto contrario di quanto sostenuto nel ricorso, attestando la radicale assenza di risposta immunitaria rispetto al SARS-CoV-2 e smentendo l’affermazione circa una pregressa (pur asintomatica) esposizione al virus. I valori di anticorpi IgG riscontrati dal test -OMISSIS- si collocano, infatti, macroscopicamente al di sotto della soglia minima di riferimento ai fini del giudizio di positività, come illustrata nello stesso referto (pari rispettivamente a 50 AU/ml e 7.1. BAU/ml).”
In conclusione sembra potersi affermare, con un ragionevole grado di certezza, che l’approccio del Giudice Amministrativo sia orientato a ritenere pienamente legittimi i provvedimenti adottati dalle strutture sanitarie in applicazione del più volte citato art. 4 Decreto Legge n. 44/2021.