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Annamaria Venere

Migrazione: mediazione linguistica in ambito sanitario e aspetti antropologici della morte nelle diverse culture

Dott.ssa Annamaria Venere

Sociologa Sanitaria

Amministratore Unico AV Eventi e Formazione

Direttore Editoriale MEDICALIVE MAGAZINE

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Sono molte le definizioni del termine “comunicazione” ed esse dipendono dal punto di vista di osservazione del fenomeno: quello del linguista e del semiologo non coincide con quello del sociologo, dello studioso di comunicazione aziendale o del massmediologo.
Comunicare significa scambiare messaggi efficaci, tali da consentire di ottenere lo scopo desiderato.
La comunicazione è un processo complesso che travalica la semplice capacità di comprensione linguistica per abbracciare la dimensione simbolica e quella più ampiamente culturale.
Il tema dell’assistenza sanitaria agli stranieri è stato oggetto, negli ultimi anni, di una completa revisione normativa dalla cui disamina si delineano precisi indirizzi di politica sanitaria.
È bene sottolineare che numerosi sono i fattori condizionanti lo stato di salute degli immigrati:
La precedente esposizione a fattori di rischio di carattere ambientale, culturale e biologico, la disponibilità o meno di servizi sanitari di prevenzione, diagnosi e terapia nel Paese di origine e di immigrazione intermedia, incidenti, complicanze fisiche e/o psichiche durante il percorso migratorio, le condizioni di vita ed economiche, l’inserimento sociale, il contesto ambientale e l’accesso ai servizi sanitari nel Paese ospite.
La comunicazione con il paziente migrante, pertanto, necessita di un impegno, particolarmente incisivo, finalizzato alla raccolta accurata dell’anamnesi ciò che presuppone la massima chiarezza di qualsivoglia messaggio.
In ambito medico, in particolare, è fondamentale mantenere il più possibile il contatto visivo con l’interlocutore per la migliore comprensione dello stato d’animo del paziente.
Gratificarlo e porlo al centro dell’attenzione consente di guidare l’esposizione del problema anche il tramite della gestualità e della mimica.
La scarsa conoscenza della lingua italiana, dei propri diritti e dell’organizzazione interna del SSN fa sì che il cittadino immigrato si rechi spesso presso le strutture sanitarie di emergenza rallentandone l’esercizio.
Tale aspetto è riscontrabile maggiormente nelle donne: esse si trovano da poco in Italia, forse sono giunte qui da sole e a volte in stato di gravidanza.
In questo contesto l’intervento del mediatore linguistico diventa necessario al fine di superare queste barriere senza però annullare le differenze linguistiche e culturali che permangono tra le due parti. La mediazione culturale, considerata come ponte fra le parti, favorisce la conoscenza vicendevole di cultura, valori, tradizioni, diritto in un’ottica d’interscambio e di arricchimento reciproco.
L’intervento del mediatore linguistico si fonda su diverse condizioni che devono essere rigorosamente rispettate.Sono il pensiero di un’altra vita spezzata ancora giovane, e in modo così stupido; il pensiero della famiglia che di lì a poco incontreremo e del dolore che inevitabilmente condivideremo; le lacrime che vedremo scorrere sul volto di una mamma o di un papà; le lacrime spesso ricacciate indietro negli occhi dei fratelli, soprattutto se più piccoli».
Esse sono:
consenso tra le parti: tanto l’operatore quanto il paziente migrante devono esprimere il loro consenso affinchè il mediatore possa partecipare all’interazione;
segreto professionale: l’utente dev’essere espressamente rassicurato che quanto venga detto nel corso della visita medica, sia protetto da segreto professionale. Tale requisito è indispensabile affinché si venga a creare un rapporto di fiducia tra medico, paziente e mediatore;
fiducia: l’operatore sanitario, non fidandosi della traduzione del mediatore, potrebbe avere la sensazione di perdere il contatto con il paziente oppure di non essere informato a sufficienza su quanto gli/le viene detto. Al contrario, se è l’utente straniero a non fidarsi del mediatore, potrebbe avere il dubbio di non essere compreso dallo stesso, oppure che ciò avvenga in modo scorretto, sottraendo di conseguenza anche informazioni molto importanti ai fini della visita medica;
neutralità: l’intervento del mediatore culturale dev’essere neutrale, sebbene il paziente, in quanto straniero, si trova in una posizione di minor potere rispetto al medico.

Heath, basandosi su studi condotti da altri autori, ha stilato un elenco delle diverse fasi che caratterizzano un incontro medico di routine e le rispettive sequenze.
Lo schema è così articolato:

1. Apertura -> convenevoli;
2. Esposizione del motivo della visita -> domande e risposte;
3.Svolgimento dell’esame fisico e/o verbale -> domande e risposte;
4. Diagnosi -> valutazioni e spiegazioni mediche;
5. Prescrizione di farmaci o di ulteriori accertamenti -> istruzioni relative alla cura;
6. Chiusura -> convenevoli.

La conversazione spontanea costituisce il modello di comunicazione alla base di un incontro tra medico-paziente.
In sostanza è possibile affermare che:
a) la conversazione spontanea è articolata in turni;
b) è prevista un’alternanza tra gli interlocutori;
c) i silenzi e le sovrapposizioni sono rari.
Il fenomeno migratorio ha ormai raggiunto dimensioni ragguardevoli, anche se, rispetto al 2016 si è registrato -86,79% rispetto al 2017 e -88,31% rispetto al 2016.

La difficoltà nell’apprendimento della lingua locale pone numerosi ostacoli all’interno dell’area linguistica stessa, provocando forti ripercussioni sull’integrazione e sull’inserimento.
A tal riguardo, molteplici studi hanno dimostrato che i pazienti migranti, a causa delle numerose difficoltà linguistico-culturali incontrate:
– Spesso non si sottopongono alle cure mediche di cui hanno bisogno nonchè agli esami preventivi;
– Hanno meno probabilità di essere seguiti con regolarità dalla stessa struttura sanitaria e di recarsi alle visite di controllo;
– Tendono a non seguire le istruzioni fornitegli dal medico e, di conseguenza, a presentare maggiori complicazioni.
Per ragioni di carattere economico, peraltro, negli ospedali e nelle strutture sanitarie non sempre si ricorre a un interprete con un’adeguata formazione in ambito medico.
Sovente sono coinvolti individui del tutto estranei a tale professione come parenti o amici del paziente, operatori sanitari e infermieri bilingui, pazienti che sono seduti in sala d’attesa e interpreti che non si sono specializzati nel settore medico.
L’interpretazione fornita da tali soggetti, come alcuni studi hanno ampiamente dimostrato, può essere soggetta a errori di traduzione con inevitabili conseguenze di carattere clinico.
“Costruire una competenza comunicativa per agire in una prospettiva interculturale non significa abbandonare i propri valori e far propri quelli del luogo in cui si espatria o quelli del gruppo straniero che possiede il pacchetto di maggioranza dell’azienda in cui si opera, ma significa:
a) accettare che i valori culturali sono diversi e che non vi sia una gerarchia di valore a priori;
b) sapere che esistono gli stereotipi e i pregiudizi e hanno una loro funzione di economia mentale, ma che tale funzione è spesso fuorviante poiché si tratta di generalizzazioni che creano categorie rigide, mentre l’incontro con le culture diverse è sempre un incontro con delle persone, quindi uniche ed irripetibili;
c) conoscere gli altri, studiandoli, creandosi un deposito d’informazioni che si può integrare continuamente, oltre che con l’esperienza diretta, con il racconto di esperienze da parte d’informatori, guardando film e leggendo libri con attenzione interculturale;
d) rispettare le differenze che non ci pongono problemi morali ma che rimandano solo alle diverse storie delle varie culture;
e) accettare che alcuni modelli culturali degli altri possono essere migliori dei nostri e, in questo caso, mettere in discussione i modelli culturali con cui siamo cresciuti.”
Mazzetti segnala la presenza di un doppio rischio rispetto alla differenza culturale.
Da un lato esiste il rischio di sottovalutarla (approccio che si potrebbe definire “universalista” oltre che etnocentrico, per cui gli esseri umani sono tutti uguali ed esiste un unico approccio medico praticabile).
Tale approccio trascura la distinzione, teorizzata in ambito antropologico negli anni ’70 ed oggi ampiamente condivisa tra illness (“ciò che il paziente sente quando va dal dottore”) e disease (“ciò che egli ha quando torna dall’ambulatorio”) (Cassel 1976).
L’altro rischio, speculare al primo, è quello di sopravvalutare la differenza culturale (orientamento che tende a interpretare ogni fenomeno legato alla salute come frutto di un portato culturale e a giustificare ogni difficoltà incontrata con la diversità culturale, dimenticando di aver di fronte una persona e non una cultura).
Un aspetto essenziale da sottolineare è che in nessuna società è facile morire e che in nessuna società la morte è amica.
Non dobbiamo, quindi, farci trarre in inganno dal fatto che in alcune realtà poverissime, come nello stato del Benin, si spendono ingenti somme per la realizzazione del funerale con l’impiego di auto lussuosissime, facilmente riconoscibili dalle scritte “l’ultimo viaggio” “la fine della missione”.
In ogni parte del mondo la morte costituisce sempre un momento di grosso impegno e di grossa difficoltà.
É opportuno ricordare che la prima generazione di antropologi ha preso in esame le società non occidentali soffermandosi su due tematiche pregnanti:
– Lo “strano modo” con il quale queste popolazioni, definite spregiativamente barbari e primitivi, affrontavano la malattia, la medicina e la cura.
– La straordinaria creatività dei riti funebri.
A tal proposito vale la pena citare l’esempio delle cerimonie funebri che si svolgevano in Brasile, nelle quali si raccontavano barzellette a sfondo sessuale, si beveva e si cantava.
Questa particolare posizione dinanzi alla morte è stata definita “ridere la morte” ovvero la morte è un dramma, ma la vita è più forte.
Se invece ci spostiamo in Papua Nuova Guinea, vediamo affermarsi una concezione basata sulla ricerca del colpevole e, dunque, potremmo parlare quasi di un processo d’interrogazione del cadavere.
L’antropologo francese Van Gennep, studiando i riti di passaggio (e i riti funebri lo sono), introduce il concetto di liminarità, ossìa quella particolare condizione esistenziale in cui la persona morente non appartiene più alla comunità dei vivi, ma non è ancora associata a quella dei morti.
In questo contesto non va certo trascurata l’importanza del fondamento religioso.
É proprio grazie a un orizzonte religioso che si sono create delle rappresentazioni culturali distintive all’interno delle società africane, americane, asiatiche.
Si pensi al buddismo dove la morte viene ritenuta il momento dell’autocoscienza assoluta per il quale l’individuo deve attrezzarsi e allenarsi quotidianamente.
Un antropologo brasiliano (Roberto Da Matta) sottolinea come gli occidentali parlino di rapporto con la morte come con un’entità astratta.
In alcune realtà, come ad esempio presso i popoli del Madagascar, periodicamente il funerale si ripete.
Talvolta si riesumano le salme, si avvolgono in vesti migliori, poi si depongono di nuovo, finchè qualcuno non si sognerà che il defunto ha freddo o chiede di essere di nuovo festeggiato.
Come afferma la Dott.ssa Sozzi “anche in assenza di risposte religiose o convinzioni salvifiche dinanzi alla morte, l’espressione collettiva del dolore è già il riconoscimento di un senso, la presa di coscienza dei limiti dell’umano”.
Il rito ha la funzione di unire parenti e amici intorno al morto e sottolinea l’appartenenza di quest’ultimo alla comunità e all’umanità, lo reintegra nel gruppo sociale e familiare, attribuendo così un significato alla sua vita.
Fino ad oggi in Italia la maggioranza degli immigrati ha scelto di rimpatriare la salma dei propri defunti.
La volontà di rimpatriare la salma può assumere una duplice chiave di lettura: non soltanto il sogno di fare ritorno in patria, animato da un forte senso di appartenenza alle proprie radici, ma anche un rifiuto della terra d’immigrazione e anche come testimonianza di un’insufficiente integrazione, di uno scarso inserimento.
Nello stabilire quale sarà la destinazione definitiva dei resti degli immigrati pesano i concetti di “doppia assenza” e di “doppia presenza” che contraddistinguono la soggettività dei migranti, sospesi in una realtà d’origine a cui si è legati, ma in cui da tempo non si è più presenti, e un contesto di arrivo a cui non si appartiene mai concretamente ma nel quale, poco per volta, nascono e si consolidano nuove relazioni.
Dunque se da un lato, la scelta del rimpatrio rappresenta un’intenzione di manifestare il proprio attaccamento alla terra d’origine, la decisione di non rimpatriare la salma può essere dettata dall’impossibilità del ritorno, dalla perdita di un legame con il proprio paese o più spesso dal desiderio di non lasciare completamente chi resta “qui”.
Ogni storia di migrazione è una storia a sé, il migrante non può essere identificato soltanto con il proprio modello culturale di appartenenza.
Occorre cogliere la specificità della sua storia come persona.
Non può essere inglobato all’interno di una categoria generale spessa priva di significato.
Da ciò deriva che l’operatore sanitario dovrà utilizzare il metodo biografico per ricostruire l’insieme delle esperienze dell’immigrato.
É fondamentale ricordare che l’operatore offre un servizio alla persona che è un cittadino e nel concetto di servizio emerge l’idea del dovere e dell’obbligo dell’operatore di fornire il suo aiuto all’utente.
E’ necessario avere, non solo nella rete dei servizi ma in tutta la società, quello che il filosofo Alain Caillé definisce una “antropologia del dono” cioè un nuovo paradigma dei rapporti sociali tenendo conto della loro composizione multiculturale.
Il dono (dare, ricevere, restituire) riconosce l’altro come soggetto e crea legame sociale, cioè solidarietà.
Dove c’è dono, c’è scambio e reciprocità, ma anche riconoscimento della cittadinanza e delle differenze.
Il dono dell’operatore è di offrire un servizio al cittadino immigrato ascoltandolo e garantendogli il diritto di essere diverso e proprio per questo di essere trattato in modo eguale a tutti gli altri suoi simili.
L’obiettivo di una politica d’integrazione è di fornire agli stranieri le informazioni necessarie sul funzionamento e sulle prestazioni del SSN e sulle modalità di accesso.
Occorre, peraltro, tenere in considerazione due aspetti fondamentali nella progettazione di un’assistenza sanitaria efficace; da un lato, la forte connotazione culturale della malattia, della cura e del rapporto con il proprio corpo e della manifestazione agli altri della propria malattia e, dall’altro, la condizione d’illegalità di alcuni stranieri presenti sul nostro territorio ai quali si deve garantire il diritto fondamentale alla salute.

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