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Mild Cognitive Impairment, la sfida da affrontare. Interventi cognitivi e riabilitativi per migliorare il funzionamento cognitivo

Mild Cognitive Impairment, la sfida da affrontare. Interventi cognitivi e riabilitativi per migliorare il funzionamento cognitivo

Studio sull’importanza di concentrare gli sforzi sul danno cognitivo lieve per le intrinseche opportunità che offre a studiosi e specialistici. Obiettivo: offrire un panorama degli interventi di riabilitazione disponibili in questo ambito e delle loro evidenze di efficacia.

Abstract

[otw_shortcode_dropcap label=”L'” background_color_class=”otw-no-background” size=”large” border_color_class=”otw-no-border-color” label_color=”#008185″][/otw_shortcode_dropcap]aumento dell’aspettativa di vita è stato seguito da un ampliamento dei cambiamenti e delle patologie associati all’età.

Ciò comporta importanti sfide per la società. Una questione centrale riguarda la crescita dell’incidenza del declino cognitivo associato all’età. Man mano che le persone invecchiano, i cambiamenti strutturali e funzionali che si verificano nel loro cervello portano a un generale deterioramento del funzionamento cognitivo, compromettendo potenzialmente la qualità della vita e l’interazione sociale.

C’è stata una crescita dell’attenzione verso l’esplorazione di strategie non farmacologiche per prevenire o ritardare l’impatto del decadimento cognitivo lieve. Questo articolo ha l’obiettivo di discutere i diversi approcci all’intervento, in particolare i training di riabilitazione cognitiva valutandone gli effetti per migliorare le funzioni mentali delle persone con MCI.

Numerosi interventi sono stati proposti e implementati per rallentare o invertire questi danni con risultati promettenti, ma studi futuri dovrebbero considerare anche come superare gli ostacoli alla diagnosi tempestiva del MCI negli individui e nelle percezioni del medico al fine di promuovere con successo l’invecchiamento sano e prevenire o rallentare declino cognitivo associato all’età.

 

Abstract

[otw_shortcode_dropcap label=”I” background_color_class=”otw-no-background” size=”large” border_color_class=”otw-no-border-color” label_color=”#008185″][/otw_shortcode_dropcap]ncreases in life expectancy have been followed by an upsurge of age-associated changes and pathologies.

This brings important challenges to society. A central issue concerns the growth of the incidence of age-associated cognitive decline. As people grow older, the structural and functional changes that occur in their brain lead to an overall deterioration of cognitive functioning, potentially compromising quality of life and social interaction.

There has been an upsurge of attention in exploring non-pharmacological strategies to prevent or delay the impact of mild cognitive impairment. The paper aims to discuss different interventions approaches particularly cognitive training or rehabilitation interventions evaluating their effects to improve cognitive function among individuals with MCI.

Several interventions proposed and implemented to slow or reverse these cognitive impairments show promise, but future studies should consider also how overcome barriers to the prompt diagnosis of MCI in individuals and physician’s perceptions in order to successfully promote healthy aging and prevent or slow down age-associated cognitive decline.

 

Autore

Prof. Olimpia Pino – Professore Associato presso Dipartimento Medicina e Chirurgia, LM Psicobiologia e Neuroscienze Cognitive, Università degli Studi di Parma.


Premessa

L’aspettativa di vita è in costante aumento nei paesi sviluppati (Mathers, Stevens, Boerma, White, e Tobias, 2015) e pone sfide importanti a singoli e comunità. Una tra queste è l’aumento dell’incidenza del declino cognitivo associato all’età (Bishop, Lu e Yankner, 2010).

Le cause di questi cambiamenti strutturali e i fattori responsabili del declino cognitivo negli anziani sono ancora oggetto di discussione: possono dipendere dai livelli di amiloide-B (Lim et al., 2013), dalle disparità nello status socioeconomico (Friedman, 2013) o nello stile di vita.

Man mano che le persone invecchiano, i cambiamenti cerebrali e funzionali portano a un deterioramento generale del funzionamento cognitivo (Glisky, 2007) compromettendo potenzialmente la qualità della vita e le relazioni sociali.

La popolazione italiana è tra le più antiche del mondo e si prevede che il numero di individui colpiti crescerà; è importante, quindi, dedicare maggiore attenzione alla fase preclinica delle malattie croniche e ai programmi di prevenzione allo scopo di ridurre il numero di pazienti in futuro.

1. Invecchiamento e declino cognitivo

Il declino cognitivo è una delle maggiori preoccupazioni per la popolazione anziana: la demenza, in particolare quella di Alzheimer (Alzheimer Disease – AD), è una delle maggiori cause di danno cognitivo correlato all’età. Oggi sono circa trenta milioni le persone affette nel mondo e le proiezioni indicano che nel 2050 saranno circa centosessanta milioni.

Il processo di invecchiamento abitualmente è descritto lungo un continuum ai cui estremi si trovano, da un lato, l’invecchiamento fisiologico e, dall’altro, quello patologico nel quale rientrano le demenze. Tra questi due estremi si possono collocare “quadri intermedi” nei quali si può osservare un deterioramento cognitivo che non ha un impatto nella vita quotidiana, non soddisfa i criteri per la diagnosi di demenza, ma merita particolare attenzione perché rappresenta una fase podromica della demenza vera e propria: il danno cognitivo lieve (acronimo MCI, Mild Cognitive Impairment).

Il MCI è definito come un quadro di moderata compromissione cognitiva rilevabile all’esame formale con nessuna o solo minima compromissione della capacità dell’individuo di svolgere le attività della vita quotidiana, interpretabile come una fase di transizione verso una vera e propria demenza ma anche come un’entità clinica ben definita che può restare stabile e non aggravarsi nel tempo.

La maggior parte dei pazienti anziani che giunge all’attenzione di un neuropsicologo lamenta difficoltà mnesiche; alcuni di questi, dopo un’approfondita valutazione cognitiva con strumenti standardizzati, non mostrano difficoltà oggettive e ricevono diagnosi di disturbo cognitivo soggettivo (Subject Cognitive Impairment – SCI).

Se l’indagine neuropsicologica mette in luce un’effettiva disfunzione cognitiva, in assenza di un vero e proprio quadro di demenza, insieme a una conservata autonomia delle abilità funzionali e nelle attività della vita quotidiana, si è di fronte a un quadro di MCI.

Certamente la linea che separa le due condizioni è sottile come lo è quella che separa la condizione di MCI da quella di AD lieve. La condizione di disturbo cognitivo soggettivo è poco considerata malgrado lo stress emotivo di chi ne soffre.

La condizione di MCI è più interessante da studiare come effettiva fase prodromica della demenza in quanto il SCI può anche dipendere da un condizionamento psicologico della persona magari derivante dalla storia familiare.

2. Declino cognitivo e fragilità

Un interesse emergente è il rapporto tra fragilità e declino cognitivo e il concetto, più nuovo, di fragilità cognitiva (CF). La fragilità è un costrutto multidimensionale che indica una maggiore vulnerabilità legata all’età dovuta a fattori di stress attribuibili alla ridotta capacità dei sistemi fisiologici.

Inizialmente il concetto di fragilità, che si associa a esiti avversi per la salute particolarmente per le persone anziane, era applicato ai soli aspetti fisici. Negli ultimi anni, grazie alla crescente attenzione al rapporto tra l’aspetto fisico e quello cognitivo della persona che invecchia, il termine di “fragilità cognitiva” è stato ampliato includendo la concomitante presenza di fragilità fisica e danno cognitivo.

Ciò ha permesso di mettere in luce come la compromissione fisica sia spesso responsabile dello stile di vita sedentario e dell’isolamento sociale e come questi due fattori possano concorrere nell’innescare un circolo vizioso sul piano fisico che può anche rendere conto di un declino cognitivo che è prodotto da fattori indipendenti da condizioni neurodegenerative (Kelaiditi, et al. 2013).

Dato che non tutti gli individui con MCI convertono il proprio disturbo in demenza e diversi studi riportano che circa il 60% di questi pazienti può rimanere cognitivamente stabile (De Jager e Budge, 2005; Pino, 2017) mentre un 40% può tornare cognitivamente normale a ulteriori follow-up (Gallucci et al., 2016), ormai è riconosciuto che il declino cognitivo possa anche rappresentare l’espressione “cognitiva” di altre condizioni patologiche.

In questo caso, la progressione del MCI verso la demenza non è scontata. Gli aspetti eterogenei del MCI e le diverse traiettorie nell’evoluzione di questo quadro clinico suggeriscono che può rappresentare la manifestazione di un processo neurodegenerativo incipiente ma anche il risultato di fattori estranei alla neuro-degenerazione (vedi Fig. 1).

Il concetto di fragilità cognitiva può fornire spunti per esplorare meglio il complesso costrutto delle prime fasi del deterioramento cognitivo e tornare estremamente utile nella progettazione di un approccio riabilitativo multi-componenziale che consideri determinante il cambiamento degli stili di vita e il ripristino dell’attività fisica, come si vedrà oltre.

3. Perché è importante occuparsi del danno cognitivo lieve

L’incidenza del MCI è del 22.5% su 1000 individui all’anno per la fascia d’età compresa tra i 75-79 anni e di 60.1% per gli individui con più di 85 anni (Gillis et al., 2019; Sköldunger, Wimo e Johnell, 2012). La prevalenza stimata è del 15-20% mentre la progressione in demenza è del 10-15% all’anno (Lin et al., 2013).

Nelle recenti linee guida per il MCI (Petersen et al., 2018), una meta-analisi ha stimato che le persone con MCI rispetto agli anziani sani hanno il triplo del rischio di ricevere una diagnosi di demenza di Alzheimer entro 2-5 anni (Wolfsgruber et al., 2014).

invecchiamento fisiologico
Figura 1. Traiettorie di sviluppo dall’invecchiamento fisiologico a quello patologico

In Emilia Romagna, ad esempio, i residenti con più di 65 anni sono circa un milione: si può ipotizzare, secondo i dati epidemiologici sopra riportati, che ci siano circa 150.000 individui affetti da MCI (ossia il 15% della popolazione), dei quali è possibile che 15mila all’anno abbiano un’alta probabilità di progredire in demenza, come confermato anche dagli stessi dati della regione Emilia Romagna (18.168 nuovi casi di demenza nel 2017).

Secondo alcuni studi sui costi medici diretti (Leibson et al., 2015; Leicht et al., 2011), la conversione di un individuo che presenta MCI in demenza, fa lievitare i costi diretti tra 4.483 e i 5.175 euro.

Dato il grande impatto che la patologia riveste in termini sanitari e sociali la ricerca ha cercato di comprenderne i fattori causali o di rischio e di individuare marcatori pre-clinici per differenziare il declino cognitivo patologico da quello legato all’invecchiamento cerebrale fisiologico, permettere una diagnosi precoce, definire una prognosi e predisporre trattamenti efficaci.

Così, il deficit cognitivo in assenza di demenza ha risvegliato un crescente interesse come possibile target terapeutico con l’intento di ritardare l’insorgenza della demenza vera e propria. Dilazionare di un anno l’esordio dei sintomi significherebbe ridurre del 25% i casi di malattia di Alzheimer.

Intervenire nella fase di MCI significa migliorare la qualità della vita dell’individuo attenuando i sintomi spiacevoli percepiti dal paziente, rallentare il decadimento cognitivo che può condurre alla demenza oltre che diminuire i costi sanitari.

Secondo la quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, che distingue tra Disturbo Neuro-cognitivo Maggiore e Minore (DSM-5; APA, 2015), un’indicazione di modesto declino cognitivo rispetto a un livello precedente di prestazioni in uno o più domini rappresenta un criterio per poter diagnosticare una prestazione anomala associata all’invecchiamento.

In concomitanza, i test neuropsicologici consentono di valutare il declino cognitivo e descriverne la gravità anche se l’attribuzione del deficit al normale processo di invecchiamento o a lesioni cerebrali è spesso problematica. Nella fase lieve della demenza, il deterioramento cognitivo si acuisce e la disabilità funzionale diventa sempre più evidente – in particolare per quanto riguarda le attività più complesse – e l’onere del caregiver tende a crescere significativamente.

Nel momento in cui la storia clinica, il colloquio con il caregiver e l’esame clinico non risultano sufficienti a indirizzare verso un quadro definito, soprattutto quando i sintomi sono sfumati e aspecifici, la valutazione neuropsicologica aiuta a differenziare i deficit cognitivi – tra cui il disturbo di memoria – dalle alterazioni della sfera cognitiva attribuibili a disturbi del comportamento o all’invecchiamento fisiologico.

Il termine MCI si riferisce a pazienti con sintomi molto eterogenei in termini di cognizione e neuropatologia, (Albert et al., 2011; Petersen et al., 2014; Scheltens et al., 2017) in quanto, oltre ai caratteristici deficit di memoria episodica che coinvolgono le strutture del lobo temporale mesiale – in particolare la corteccia entorinale e l’ippocampo – possano manifestarsi anche deficit di natura esecutiva, dovuti alla neuropatologia del sistema frontale, come difficoltà nella pianificazione e nella memoria prospettica (Lee et al. 2016; Pino, Poletti e Caffarra, 2013).

L’importanza della distinzione tra MCI a singolo o multi-dominio, di tipo amnestico o di tipo non-amnestico risiede sia nel permettere una diagnosi più precisa ma soprattutto nel poter definire meglio le traiettorie di sviluppo dato che i diversi sottotipi possono avere un’eziologia differente ed essere prodromici di tipologie di demenza differenti.

La presenza, infatti, di alcuni marker biologici e fattori di rischio, come la gravità del deterioramento cognitivo, la presenza di apolipoproteina E ε4 (ApoEƐ4), di atrofia cerebrale o ipometabolismo nelle regioni temporo-parietali, la presenza nel liquido cerebrospinale (CSF) di β-amiloide 1-42, proteina tau totale e tau fosforilata, sembra predire l’insorgenza del MCI e la sua possibile evoluzione in demenza (Petersen et al., 2009).

4. Gli ostacoli alla diagnosi precoce

Una diagnosi precoce presenta certamente alcuni svantaggi da non sottovalutare, come lo stigma potenziale associato alla malattia e l’aumento del rischio di suicidio negli individui vulnerabili. I benefici di una diagnosi precoce, come ad esempio avere l’accesso a consulenze, permette ai pazienti e alle loro famiglie di pianificare gli aspetti legali e finanziari che possono compensare le potenziali conseguenze negative.

Diversi sono gli autori che hanno tentato di identificare le sfide associate alla precocità della diagnosi e della gestione degli individui con MCI dal punto di vista dei medici di medicina generale. I temi identificati, che riguardavano la mancanza di supporto per pazienti, quella verso operatori sanitari e medici, l’esiguità di risorse temporali e finanziarie, lo stigma, l’incertezza diagnostica e le preoccupazioni concernenti la divulgazione della diagnosi, suggeriscono la necessità di migliorare i servizi offerti e la comunicazione tra la medicina generale e quella specialistica (Dubois, Padovani, Scheltens, Rossid e Agnello, 2016).

Una comprensione delle sfide affrontate dai medici può servire al superamento delle problematiche evidenziate indirizzandole risorse e gli sforzi verso quelle aree specifiche dove sono richiesti adattamenti. Ad oggi, gli studi hanno esaminato principalmente la medicina generale ed esplorato le sfide diagnostiche associate alla demenza, mentre minore attenzione è stata dedicata al MCI come precursore dell’AD.

Uno studio su larga scala è stato recentemente condotto in cinque paesi europei (tra cui l’Italia), Canada e Stati Uniti reclutando medici di base e specialisti responsabili del trattamento del deterioramento cognitivo con l’obiettivo di comprendere le barriere cliniche e pratiche attuali legate al processo diagnostico e valutare se la prospettiva dei medici di base si distingue da quella degli specialisti (Judge, Roberts, Khandker, Ambegaonkar e Black, 2019).

I partecipanti dovevano identificare gli ostacoli a una tempestiva diagnosi in quattro ambiti: paziente, medico, setting e profilo clinico. I risultati mettevano in luce che gli aspetti principali segnalati includevano l’attitudine dei pazienti a considerare il declino cognitivo un aspetto normale dell’invecchiamento (53% dei rispondenti) e a non rivelare i sintomi (50%) e la presenza di lunghe liste di attesa (53% dei rispondenti medici di base).

La mancanza di test definitivi sui biomarcatori è stata la barriera clinica più comunemente identificata nel complesso in questa categoria (43%). Per il 43% degli intervistati le liste di attesa risultano troppo lunghe così come il tempo è giudicato insufficiente per valutare i pazienti (33%).

Queste lamentele erano più comuni tra i medici di base mentre gli specialisti lamentavano maggiormente un ritardo nell’invio da parte delle cure primarie (vedi Fig. 2).

Figura 2. Frequenze degli ostacoli ad una diagnosi precoce riferiti da medici di base e specialisti (Tratto da: Judge, Roberts, Khandker, Ambegaonkare Black, 2019, modificata)

Sono, quindi, numerose le aree di miglioramento possibile, specialmente quelle che comprendono lo sviluppo di test diagnostici sensibili e specifici e l’aggiornamento del medico e del paziente.

È naturale che l’implementazione di questi cambiamenti sia soggetta ai finanziamenti disponibili e possa creare tensione finanziaria sui budget sanitari ma l’obiettivo di questo lavoro è quello di mostrare come l’unico sistema per ridurre la prevalenza dell’AD è quello di investire sulle strategie in grado di ritardare la sua insorgenza in individui a rischio di sviluppare demenza e in persone in buona salute.

5. I diversi approcci alla riabilitazione del MCI e loro evidenze di efficacia

Negli ultimi anni, c’è stato un aumento di interesse nell’esplorazione dell’efficacia di strategie non farmacologiche per mantenere o migliorare gli aspetti cognitivi negli anziani sani, per prevenire o ritardare le disabilità funzionali e ridurre l’impatto di questo declino sulle loro capacità e sulla qualità della vita (Pino, 2015, 2017).

L’intervento sulla fase prodromica della demenza rappresentata dal MCI può rallentarne il decorso patologico e il tasso di conversione (Gallucci et al., 2016). Dato che il MCI è comune negli adulti più anziani che vivono nella comunità, con una prevalenza di circa il 17% (Petersen et al., 2018), gli interventi tesi a moderare le difficoltà di memoria avrebbero un impatto su un gran numero di persone anziane, soprattutto per far mantenere loro una vita indipendente.

Malgrado vi sia una crescente letteratura sugli interventi indirizzati a questo tipo di deficit, nel campo non si è ancora raggiunto un chiaro consenso sulle evidenze di efficacia.

Nella Tab. 1 si riportano le differenze che distinguono i training cognitivi e la riabilitazione cognitiva, particolarmente indicati nell’intervento sul MIC, dalla stimolazione cognitiva, indicata nelle demenze.

caratteristiche selezionate di training, stimolazione e riabilitazione cognitiva
Tabella 1. Caratteristiche selezionate di training, stimolazione e riabilitazione cognitiva.

Gli interventi volti a modificare lo stile di vita (attività fisica, dieta, socializzazione) hanno varie evidenze di efficacia (Bredesen, 2014; Nouchi et al., 2014; Suzuki et al, 2012) così come quelli combinati (Ge, Zhu, Wu e McConnell, 2018; Kawashima, 2013).

In questi casi risulta difficile isolare il fattore responsabile degli esiti; per questo motivo, non saranno trattati nella parte successiva rimandando per gli approfondimenti alla letteratura specialistica (Pino, 2017; Raji et al., 2014; Ryan e Nolan, 2016).

Gli approcci riabilitativi volti a migliorare i processi cognitivi o arginare l’impatto dei deficit sulle capacità associate nella vita quotidiana possono essere suddivisi in due grandi gruppi a seconda della direzione seguita dall’intervento, che saranno analizzati di seguito.

5.1. Gli interventi esterni

Gli interventi cosiddetti esterni comprendono tre tipologie di programmi, cognitivamente orientati, indirizzati su diversi aspetti del deterioramento:

a) programmi di re-training,

b) strategie di apprendimento dominio-specifiche,

c) strumenti compensativi esterni.

I programmi di re-training tentano di ripristinare le funzioni di memoria tramite la riparazione delle reti neurali danneggiate. Alcuni programmi di re-training prevedono un training cognitivo multi-componente con diversi esercizi di memoria.

In vari studi su pazienti con MCI si è riscontrato che training di questo tipo possono favorire la memoria episodica, lo svolgimento delle attività quotidiane e l’umore (Kurtz et al., 2009), nonché avere risvolti positivi nei compiti di memoria associativa (Wenisch et al., 2007), nella memoria prospettica (Kinsella et al., 2009), nella qualità della vita (Londos et al., 2008) e nella meta-memoria (Rapp et al., 2002).

In realtà, l’efficacia dei programmi di re-training sulla memoria varia in relazione all’eziologia e al tipo di danno cerebrale (Piras et al., 2011): interventi di questo tipo sono sostenuti solo da circa il 40% degli articoli esaminati in una rassegna in soggetti con problemi degenerativi e inoltre l’efficacia delle strategie di re-training sembra essere confinata alle capacità addestrate e solo in pochi studi è stata osservata un’influenza positiva nel funzionamento nella vita quotidiana.

Molti training cognitivi si giovano della moderna tecnologia più interattiva ed immersiva come la realtà virtuale (VR), i videogiochi interattivi e la tecnologia mobile. Molti programmi sono facilmente accessibili da computer o tablet; in questo caso, la tecnologia può raccogliere dati obiettivi e fornire un feedback in tempo reale a partecipanti o terapisti.

È importante sottolineare che gli interventi svolti con la tecnologia (Pino, Palestra, Trevino e De Carolis, 2020) hanno mostrato migliori esiti rispetto ai tradizionali training cognitivi e programmi riabilitazione forse correlati all’usabilità e a fattori motivazionali legati all’interazione in tempo reale e ai feedback ricevuti dal sistema (Faucounau, Wu, Boulay, DeRotrou e Rigaud, 2010).

Rispetto agli interventi tradizionali condotti da un terapista e del tipo carta-matita, le tecnologie sono “più intelligenti” nel registrare le prestazioni dei partecipanti e regolare la difficoltà dei compiti.

Il secondo insieme di metodi ha lo scopo di ottimizzare e addestrare le funzioni e le capacità residue insegnando strategie di apprendimento dominio specifiche allo scopo di migliorare il funzionamento nelle attività di tutti i giorni.

Un caso esemplare di conoscenza specifica al contesto è l’apprendimento dell’associazione faccia-nome frequentemente oggetto di diversi studi sulle strategie per ottimizzare le funzioni residue. Queste strategie si basano su forma di memoria non dichiarative. Un caposaldo teorico che influenza la riabilitazione in quest’ambito è il condizionamento operante o l’apprendimento di abilità.

Tra le tecniche utilizzate rientra l’apprendimento senza errori (Errorless Learning, EL), esemplificato dal metodo del Vanishing Cue (MVC) e dello Spaced Retrieval (SR) che facilitano le risposte limitando gli errori. Questi metodi possono rafforzare la memoria esplicita/associativa e il recupero grazie a un aumento specifico al training dell’attivazione e delle connessioni in un sistema neurale diffuso (Hampstead et al., 2011).

I metodi compensativi esterni hanno lo scopo di compensare la funzione cognitiva compromessa o carente a causa di patologie degenerative e rappresentano, quindi, un’assistenza protesica.

Essi generalmente tendono a limitare i danni dei deficit esecutivi della vita quotidiana e comprendono sia strumenti che richiedono un quantitativo di risorse cognitive variabile (supporti elettronici, cellulari, iPad) e la partecipazione attiva dell’individuo.

La letteratura ha messo in luce progressi anche nella qualità di vita e nell’indipendenza oltre che nella riduzione degli insuccessi quotidiani, nella reintegrazione professionale, e negli aspetti clinici.

In ogni caso l’importanza di questi sistemi in una prospettiva riabilitativa va ridimensionata, in quanto aggirano i deficit senza intervenire realmente sulle abilità cognitive.

Gli interventi cognitivi hanno un effetto positivo sia sugli indici cognitivi misurati oggettivamente sia sulla percezione soggettiva dei loro effetti (Robertson, King-Kallimanis e Kenny, 2016), confermati dagli studi di neuro-immagine che hanno evidenziato come la terapia cognitiva possa essere impiegata per ripristinare il declino funzionale associato all’età.

I programmi multimodali rappresentano una promettente area di ricerca. Sono però necessari ulteriori studi per comprendere i vantaggi di un intervento cognitivo multimodale in persone con MCI tenendo presente la possibilità che gli adulti più anziani potrebbero non essere in grado di gestire la sfida cognitiva associata a interventi multimodali.

5.2. Gli interventi interni

Gli interventi interni implicano un modello di intervento per lo più neurologico basato sull’ausilio di farmaci o di dispositivi medici per la neuro-modulazione e includono: a) le tecniche di stimolazione cerebrale – b) il neuro-feedback –  c) le terapie farmacologiche.

La stimolazione cerebrale non invasiva include la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e la stimolazione transcranica a corrente diretta (tDCS).

Sembra che la rTMS ad alta frequenza abbia dato beneficio alla memoria associativa in uno studio in cui, associata alla fMRI (Solé-Padullés et al., 2006), ha indicato buone prestazioni in compiti di ricordo volto-nome con una singola sessione di stimolazione off-line sulla corteccia prefrontale bilateralmente, dati sostenuti anche altrove (Elder e Taylor, 2014) valutando gli effetti della TMS e della tDCS sui sintomi cognitivi e neuropsichiatrici (Cotelli, Manenti, Zanetti e Miniussi, 2012).

Poiché il controllo dell’attività cerebrale influisce sulle funzioni cerebrali come il comportamento, le emozioni e l’elaborazione delle informazioni, l’applicazione clinica della tDCS per la depressione, la sclerosi multipla e altri disturbi del sistema nervoso centrale è valutata da parte di numerosi gruppi clinici.

Il suo effetto sulla funzione cognitiva è stato mostrato in alcuni studi che hanno suggerito miglioramenti temporanei ma significativo del declino cognitivo correlato all’invecchiamento (Meinzer, Lindenberg, Antonenko, Flaisch e Flöel, 2013) accrescendo le prestazioni e invertendo l’attività cerebrale patologica e i modelli di connettività. Ma è necessario valutare l’effetto di sessioni ripetute sulla funzione cognitiva in pazienti con MCI (Park, et al. 2019).

Le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva possono svolgere un ruolo nella progettazione di modelli multidimensionali d’intervento per terapie per persone con deficit di memoria anche se bisogna valutare i rischi a lungo termine.

Passando ai trattamenti farmacologici, risultati positivi sono stati ottenuti con trattamenti atipici diversi dai tradizionali farmaci anticolinergici usati nell’AD: come ad esempio l’insulina (Craft et al., 2012) o il litio (Forlenza, et al., 2011).

I cambiamenti caratteristici nell’EEG dei pazienti con MCI, osservati in particolare nelle regioni posteriori del cervello, includono un rallentamento generale dell’EEG espresso da un abbassamento del ritmo alfa e una potenza più elevata nelle frequenze più basse (delta e theta), collegati a scarse prestazioni cognitive e atrofia della materia grigia e possono servire da indicazione che una persona anziana svilupperà MCI o che una persona con MCI passerà ad AD.

In particolare, la potenza theta è correlata negativamente con le prestazioni neuropsicologiche nel MCI, mentre la potenza alfa superiore e PAF sono correlate positivamente con le prestazioni cognitive, come menzionato in precedenza. Anatomicamente, questi cambiamenti EEG sono correlati all’atrofia del talamo, dell’ippocampo e dei gangli della base (Moretti et al. 2012a, b; Wolf et al. 2004).

Diversi risultati suggeriscono che il neuro-feedback ha effetti benefici su alcune funzioni esecutive ma non chiari sulla memoria. Basandosi sul potenziale per il neuro-feedback di insegnare agli individui a regolare la funzione neuronale e quindi alterare i modelli oscillatori dell’EEG (Sitaram et al. 2017), abbiamo postulato che il neuro-feedback basato su EEG potrebbe essere di valore terapeutico in (Lavy, Dwolatzky, Kaplan, et al., 2019).

Conclusioni

Il presente lavoro ha cercato di mettere in luce l’importanza di concentrare gli sforzi sul danno cognitivo lieve per le intrinseche opportunità che offre agli studiosi e agli specialistici offrendo un panorama degli interventi di riabilitazione disponibili in questo ambito e delle loro evidenze di efficacia.

I risultati che gradualmente si raggiungono, alcuni più promettenti di altri, possono essere considerati come passaggi preliminari verso lo sviluppo di strumenti per migliorare le prestazioni cognitive nelle popolazioni cliniche affette da declino cognitivo nonché negli anziani sani.

A ulteriori lavori spetterà il compito di migliorare la standardizzazione dei protocolli e delle tecniche e di determinare se queste possono promuovere miglioramenti cognitivi a lungo termine.

Un’altra strada importante da percorrere è quella della combinazione di strategie e di un maggiore sforzo verso le tecnologie che possano migliorare o mantenere il funzionamento cognitivo negli anziani.

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