Avv. Angelo Russo,
Avvocato Cassazionista,
Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario,
Catania
Con la sentenza 13 ottobre 2017, n. 24074 la Corte di Cassazione torna a occuparsi di responsabilità medica in occasione di interventi chirurgici di routine.
I fatti
La Corte d’appello di Palermo, con sentenza 25.3.2013 n. 560, confermava la decisione del Tribunale che aveva rigettato la domanda di risarcimento danni proposta da A.A. nei confronti dell’Assessorato alla sanità della regione siciliana (Gestione stralcio delle soppresse UU.SS.LL.), di G.V., L.G. e B.G., rispettivamente chirurgo operatore, assistente e primario del reparto (quest’ultimo intervenuto in camera operatoria a completare l’intervento chirurgico), per i danni, consistiti in “colangite recidivante da stenosi del coledoco e del dotto epatico di sx”, subiti in conseguenza dell’intervento di colecistectomia – cui era stata sottoposta, in data 21.7.1994, presso l’Ospedale di Palermo – iniziato per via laparoscopica e completato per via laparatomica al quale era seguita stenosi con fistola al coledoco prossimale che aveva richiesto un successivo intervento riparatorio, eseguito dalla paziente in altra casa di cura.
Accogliendo la disamina critica effettuata dal CTU sulle varie questioni prospettate dall’attrice, la Corte di Appello concludeva per la correttezza della condotta dei sanitari, sia nella scelta del metodo che nella esecuzione dell’intervento e del trattamento post – operatorio, in quanto la lesione iatrogena della via biliare principale verificatasi durante l’intervento in laparoscopia doveva essere attribuita alla insorgenza di una complicanza, non essendo stata, invece, accertata una lesione ischemica secondaria ad una lesione arteriosa al momento dell’intervento, cui ricondurre la stenosi del tratto prossimale del coledoco.
La Corte, infine, accertava che risultava provato l’adempimento dell’obbligo di acquisizione del consenso informato dai documenti, sottoscritti dalla paziente, relativi alla accettazione della anestesia e della trasfusione di sangue.
Nel ricorso per cassazione A. evidenziava come la lesione iatrogena della via biliare principale (coledoco) integrasse un fatto dannoso riconducibile causalmente alla manovra laparoscopica eseguita dagli operatori G. e L. e, dunque, suscettibile di determinare la responsabilità per inadempimento (da contratto per l’ente pubblico erogatore del servizio pubblico sanitario e da “contatto sociale” dei medici operatori).
Sottolineava la ricorrente che l’affermazione del CTU – riprodotta poi nella motivazione del Giudice di appello – secondo cui “non sussiste responsabilità, dovendo considerarsi tale lesione iatrogena come mera complicanza statisticamente rilevata nella letteratura scientifica (evenienza statisticamente rilevante come riportato circa nell’1% (percento) dei casi, descritta dalla letteratura internazionale), costituisse un mero paralogismo, in quanto non consentiva di individuare la ragione giustificativa della ascrizione della lesione iatrogena alla categoria dei fenomeni sottratti alla sfera di controllo ed intervento umano, quale “evento insopprimibile” da intendersi conseguenza inevitabile della “corretta esecuzione” del metodo chirurgico laparoscopico, prescelto ed in concreto adottato.
La decisione della Corte
La Suprema Corte ritiene fondata la censura mossa alla decisione della Corte di Appello alla stregua del principio, più volte enunciato, secondo cui, “in caso di prestazione professionale medico – chirurgica di routine, spetta al professionista superare la presunzione che le complicanze siano state determinate da omessa o insufficiente diligenza professionale o da imperizia, dimostrando che siano state, invece, prodotte da un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico – scientifiche del momento.”
Da ciò consegue che il giudice, al fine di escludere la responsabilità del medico nella suddetta ipotesi, non può limitarsi a rilevare l’accertata insorgenza di complicanze intraoperatorie, ma deve, altresì, verificare la loro eventuale imprevedibilità ed inevitabilità, nonchè l’insussistenza del nesso causale tra la tecnica operatoria prescelta e l’insorgenza delle predette complicanze, unitamente all’adeguatezza delle tecniche scelte dal chirurgo per porvi rimedio (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 20806 del 29/09/2009; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 17694 del 29/07/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 13328 del 30/06/2015; id. Sez. 3, Sentenza n. 12516 del 17/06/2016).
In applicazione del principio, pertanto, l’affermazione contenuta in sentenza, meramente riproduttiva dell’elaborato peritale depositato dal Ctu, secondo cui “la lesione costituisce un evento insopprimibile (quand’anche prevedibile, comunque inevitabile)” è totalmente carente di supporto esplicativo, tanto più considerando che la nozione di una “conseguenza inevitabile” determinata della corretta esecuzione della manovra operatoria mal si si concilia con la rilevazione statistica dell’evento lesivo soltanto “nell’1% (percento)” dei casi.
Il dato statistico, quindi, (in base al quale all’esecuzione dell’intervento con metodo laparoscopico consegue normalmente un risultato favorevole) non supporta l’iter motivazionale seguito dal Giudice di appello sicchè, in assenza di specifici fattori che determinino in modo autonomo l’anomalia del risultato, quest’ultima non può che essere ricondotta alla errata manovra del medico chirurgo.
La Corte rileva, peraltro, che la criticità dell’argomentazione non viene colmata neppure dalla successiva osservazione del Ctu, secondo cui “diverse volte la causa della lesione rimane inspiegabile, ed in più di metà dei casi la lesione si verifica durante le manovre per riconoscere ed isolare il cistico e per staccare la colecisti dalla via biliare”, nè assolve al requisito minimo motivazionale richiesto dall’art. 111 Costituzione, comma 6, l’illustrazione di ipotetiche possibilità di lesione in circostanze particolari (estrema sottigliezza del dotto cistico) indicate esemplificativamente e che, come tali, non appaiono riferibili al caso concreto.
La ricorrente, infine, contestava la sentenza della Corte d’appello nella parte in cui avrebbe ritenuto provata per via presuntiva – in assenza di alcuna informativa scritta – la acquisizione del consenso informato della paziente e la consapevole accettazione da parte della stessa della metodica chirurgica prescelta e dei rischi connessi, non costituendo fatti idonei a produrre l’inferenza logica del fatto ignorato la mera sottoscrizione dei moduli relativi all’assenso alla anestesia ed alla emotrasfusione.
La Corte, rigettava il motivo di ricorso, attraverso una compiuta analisi dei principi elaborati, sul punto, dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 18513 del 03/09/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 7237 del 30/03/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 20984 del 27/11/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 25764 del 15/11/2013; id. Sez. 3, Sentenza n. 14642 del 14/07/2015) dai quali si ricavava che “la manifestazione del consenso informato alla prestazione sanitaria, costituisce esercizio di un autonomo diritto soggettivo all’autodeterminazione, riferito alla persona fisica (la quale in piena libertà e consapevolezza sceglie di sottoporsi a terapia farmacologica o ad esami clinici e strumentali, o ad interventi o trattamenti anche invasivi, laddove comportino costrizioni o lesioni fisiche ovvero alterazioni di natura psichica, in funzione della cura e della eliminazione di uno stato patologico preesistente o per prevenire una prevedibile patologia od un aggravamento della patologia futuri), che – se pure connesso – deve essere tuttavia tenuto nettamente distinto – sul piano del contenuto sostanziale – dal diritto alla salute, ossia dal diritto del soggetto alla propria integrità psico-fisica”, che “il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
La circostanza che il consenso informato trovasse fondamento negli artt. 2, 13 e 32 Cost. poneva in risalto la funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona, quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, “se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonchè delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione….”).
Al diritto indicato corrisponde l’obbligo del medico di fornire informazioni dettagliate, in quanto strettamente strumentale a rendere consapevole il paziente della natura dell’intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative.
In applicazione della regola del riparto dell’onere della prova, grava sul medico, in caso di contestazione del paziente, la dimostrazione di aver fornito tutte le indicazioni necessarie a compiere la scelta consapevole, e dunque di aver correttamente adempiuto all’obbligo informativo preventivo, mentre, nel caso in cui tale prova non venga fornita e dunque sussista inadempimento colpevole (il cui accertamento è del tutto indipendente dalla corretta esecuzione della terapia somministrata o dell’intervento chirurgico o dall’eventuale danno alla salute ad essi conseguito), occorrerà distinguere ai fini della valutazione della fondatezza della domanda risarcitoria proposta dal paziente:
a) l’ipotesi in cui alla omessa informazione sia conseguito un danno alla salute che costituisca esito non attendibile dalla prestazione tecnica se correttamente eseguita – e quindi imputabile a colpa professionale – nel qual caso la mancanza del consenso informato si inserirà nella serie causale produttiva del danno non patrimoniale;
b) l’ipotesi in cui, invece, il peggioramento della salute corrisponda ad un rischio attendibile e cioè ad un esito infausto prevedibile “ex ante” nonostante la esatta esecuzione della prestazione tecnica-sanitaria che si rendeva comunque necessaria, nel qual caso, ai fini dell’accertamento del danno, graverà sul paziente l’onere della prova, anche tramite presunzioni, che il danno alla salute è dipeso causalmente dal fatto che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, non potendo altrimenti ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute.