La società nella quale viviamo è protagonista di numerosi modificazioni culturali che hanno interessato prevalentemente la famiglia. La progettualità e l’importanza dell’identità dell’individuo suggeriscono l’opportunità di un intervento preventivo congiunto, agito sia nei confronti della famiglia adottiva per accertarne l’idoneità, ma anche nei confronti di tutti quei soggetti che gravitano intorno a essa per attribuirvi un significato culturale ed educativo determinante.
Virgilio Paola Daniela, Pedagogista, PhD student at University of Cordoba, Faculty of Legal and Social Science.
Jiménez Fanjul N. – PhD from the University of Córdoba (UCO) in the Social and Legal Sciences program. Professor of Didacties of Mathematics Teaching. Department of Mathematics. Universidad de Córdoba (UCO), Córdoba, Spain.
Renda N. – Psichiatra, Ser.T. ASP TP
Schifano M. – Psicologo, responsabile U.O. Psicologia clinica e di Comunità ASP TP
Maz Machado A. -PhD in Mathematics from the University of Granada (UGR). Professor of Didacties of Mathematics. Department of Mathematics. Universidad de Córdoba (UCO), Córdoba, Spain.
Abstract
According to some studies, the borderline cognitive functioning exists significantly within (clinical) population, especially during childhood and adolescence. That’s why we need to examine further the problem.
This article analyzes the current scientific literature, focusing on relationships between borderline cognitive functioning and mental disability.
The purpose of the study is to offer a psychopedagogical analysis of the problem, from pre-school age up to adulthood.
The review aims to provide a clear picture of the probability of developing psychiatric problems, by comparing children and adolescents affected by borderline intellectual problems with young people whose IQ is greater than 80.
Alcuni studi dimostrano che il funzionamento cognitivo borderline è significativamente presente nelle popolazioni cliniche specialmente nell’infanzia e nell’adolescenza. Ciò giustifica la necessità di ulteriori analisi del problema. Quest’ articolo esamina la letteratura attuale e si concentra sui collegamenti tra il funzionamento cognitivo borderline e il ritardo mentale e propone una riflessione psicopedagogica del problema in età prescolare, scolare e adulta. Il contributo è una riflessione sulle probabilità che hanno i bambini e gli adolescenti con Funzionamento Intellettivo Borderlinedi sviluppare problemi di natura psichiatrica rispetto a giovanissimi con QI superiori a 80.
Introduzione
Il funzionamento intellettivo borderline, posto per definizione come una sorta di limbo, un confine tra intelligenza normale e ritardo mentale (e.g. Vianello et al., 2014), costituisce una popolazione a cui oggi è necessario prestare grande attenzione. Una quota non trascurabile dei soggetti che approdano alla cura specialistica, segnalati dalle scuole, evidenziano una significativa correlazione tra il funzionamento intellettivo al limite ed una evoluzione verso la patologia psichiatrica e la deriva sociale (Biaggini 2004).
La fragilità emotiva e intellettiva espone bambini e adolescenti con funzionamento intellettivo borderlinea rischi di implicazioni psicopatologiche, poiché sperimentano l’insuccesso scolastico che provoca in loro un grave stress emotivo. In alcuni casi, talvolta, sfocia in comportamenti e psicopatologie con componenti di aggressività, e stati d’ansia. A scuola, in classe, i problemi riscontrati dagli insegnanti sono legati a: lentezza, scarso rendimento in tutte le discipline, scarsa capacità mnestica, iperattività, difficoltà di lettura e scrittura, disattenzione, atteggiamento rigido e poco adattivoed alterazioni affettive che, come dicevamo, si manifestano, in alcuni casi, con impulsività e aggressività. Nei casi più complessi i soggetti con Funzionamento Intellettivo Borderline presentano una comorbidità altissima con i disturbi psichiatrici (Wallander, J.L., Dekker, M.C., &Koot, H. M. 2003);
Approfondimento
Il funzionamento cognitivo limite (o borderline) delinea un quadro che va dall’ipoevoluzione nell’organizzazione cognitiva, immaturità psicoaffettiva e difficoltà ad acquisire un pensiero flessibile – fondamentale per risolvere operazioni mentali complesse, a casi di compromissioni maggiori che possono riguardare anche l’area del linguaggio.
I bambini e gli adolescenti che presentano un Funzionamento Cognitivo Limite rientrano nella categoria dei Bisogni Educativi Speciali (BES).Nei casi in cui si ottenga un punteggio di QI che si attesta nella fascia borderline è necessario ottenere un profilo di funzionamento allargato anche alla valutazione del linguaggio, delle funzioni esecutive, delle abilità visuo-spaziali, della lettura, della scrittura, delle abilità di calcolo, della comprensione del testo e del problemsolving; ma occorre anche escludere la presenza di eventuali disturbi del neurosviluppo e/o condizioni mediche associate (es. sindrome di Prader Willi).
Tra i primi passaggi più significativi ed importanti bisogna sottolineare la necessità di escludere la presenza di un disturbo del linguaggio, tenendo a mente la natura biunivoca della relazione tra linguaggio e lettura: il linguaggio, infatti, è necessario per imparare a leggere (Carroll e Snowling, 2004) e il tempo dedicato alla lettura influenzerà lo sviluppo di un adeguato bagaglio lessicale che, a sua volta, influirà sull’efficienza della lettura (Chilosi, Lami, Pizzoli, Pignatti, D’Alessandro, Gruppioni, Cipriani e Brizzolara, 2003).
Sarà anche necessario escludere la presenza di un deficit dell’attenzione/iperattività o l’eventuale compromissione delle funzioni esecutive (es: abilità di pianificazione, programmazione ed esecuzione, controllo e memoria di lavoro).
Considerata, inoltre, la frequente comorbidità con il disturbo evolutivo della coordinazione motoria (DCD) (presente in misura variabile tra il 35 e il 47%, secondo lo studio di Kadesjo e Gillberg, 2001) sarà opportuno, anche, escludere con anamnesi e valutazione clinica, la presenza di elementi riconducibili a difficoltà di coordinazione motoria.
E infine, potrà essere utile e/o necessario escludere la presenza di un disturbo non verbale dell’apprendimento (NVLD), caratterizzato da difficoltà cognitive specifiche di natura visuo-spaziale (es: nell’incolonnamento dei numeri, nella lettura direzionale da sinistra a destra, nella lettura e riproduzione di segni aritmetici, nei riporti e nelle procedure, nell’operare con figure-regole geometriche, in geografia).
Infine va considerato che bambini ed adolescenti con disturbi del neurosviluppo sono in larga misura esposti: ad insuccessi scolastici, frustrazioni, difficoltà emotive e comportamentali (e.g. Nestler&Goldbeck, 2011), superiori livelli di ansia (e.g. Alesi et al., 2015). In considerazione di ciò il profilo psicologico va allargato agli aspetti emotivi-relazionali ed al fondamentale ruolo che questi aspetti hanno nella prognosi (Kempe, Gustafson e Samuelsson, 2011).
Il compito degli specialisti è di: valutare il soggetto nella sua complessità emotiva e neuropsicologica, escludere patologie neurologiche o sensoriali (visive/uditive), fornire un inquadramento diagnostico preciso (comprensivo di codifica secondo la classificazione ICD-10 e/o DSM-5), individuare un profilo di funzionamento dal quale si possano ricavare indicazioni per la personalizzazione delle strategie didattiche e delle modalità valutative (Termine e Stella, 2013).
L’insegnante potrà trarre dal profilo funzionale tutti gli elementi utili a calibrare la metodologia didattica, come previsto dalla Direttiva MIUR del 27.12.2012.
È importante, inoltre, sottolineare che le diverse tipologie di
Funzionamento Intellettivo Limite o Borderlinesono strettamente legate alla loro origine (da Vianello et al., 2014), ovvero:
• Funzionamento Intellettivo Borderline “naturale”, non dovuto a cause biologiche o ambientali;
• Funzionamento Intellettivo Borderline per cause biologiche genetiche, suddiviso in:
o Sindromi genetiche come Prader-Willi, Turner, Klinefelter, Cornelia De Lange, Noonan, XXX, Distrofia muscolare di Duchenne;
o Autismo ad alto funzionamento o sindrome di Asperger;
• Funzionamento Intellettivo Borderline per cause biologiche non genetiche, suddivise in:
o Prenatale e perinatale;
o Postnatale;
• Funzionamento Intellettivo Borderline dovuto a svantaggio socioculturale (comprese le situazioni in cui le differenze si trasformano in carenze, come in certe immigrazioni);
• Funzionamento Intellettivo Borderline dovuto a inibizione intellettiva (es. caso recente di psicopatologia ossessivo-compulsiva);
• Funzionamento Intellettivo Borderline causato da effetti indiretti:
o Disturbi specifici di apprendimento;
o Deficit di attenzione con o senza iperattività;
o Disturbi della comunicazione.
Nel Funzionamento Intellettivo Borderline o Limite è frequente la comorbidità con altri disturbi o condizioni cliniche, per esempio di tipo psichiatrico. Nei casi di comorbidità del Funzionamento Intellettivo Borderline e del Deficit dell’Attenzione” (ADHD) la prevalenza di disturbi psichiatrici è circa il 40% (e.g. Rose et al., 2008; Vianello et al., 2014).
Secondo recenti studi, infatti, il Funzionamento Intellettivo Limite (FIL)riguarderebbe circa il 13% della popolazione. I dati europei più attendibili, raccolti su un campione di quasi 8.500 adulti, indicano una prevalenza di 1 persona su 8 (Hassiotis 2008).
La complessità del FIL è legata anche all’elevata vulnerabilità psicopatologica: diversi studi hanno rilevato una prevalenza di disturbi psichiatrici significativamente più alta rispetto alla popolazione generale, soprattutto disturbi d’ansia (Virgilio et al, 2018), di personalità e disturbi correlati all’abuso di sostanze. Sono stati ripetutamente rilevati tassi più alti anche di emarginazione, sfruttamento, abuso, rischio d’abbandono, tentativi di suicidio, ricorso a terapie psicofarmacologiche e a servizi territoriali di assistenza, inclusi quelli d’emergenza.
Uno studio olandese ha rilevato che la presenza di FIL nei pazienti psichiatrici è molto più elevata di quanto non sia normalmente ritenuto dalla maggior parte degli stessi psichiatri. Lo studio ha previsto lo screening per FIL e disabilità intellettiva di grado lieve in 208 pazienti ricoverati presso reparti psichiatrici: il 43,8% del campione è risultato positivo e ha mostrato associazioni non tanto a una specifica diagnosi psichiatrica quanto al maggior numero di ricoveri e interventi obbligatori. Questi fattori prognostici negativi possono dipendere sia dalla presenza di FIL ma anche dalla sua inadeguata o intempestiva identificazione (Nieuwenhuis 2017).
Conclusioni
Un profilo funzionale preciso, completo e attento, una larga condivisione scientifica ed interdisciplinare dei criteri per una diagnosi specialistica servono a garantire il diritto alla personalizzazione (medicina di precisione) clinica, didattica e valutativa. In ambito educativo ciò aiuta il compito dell’insegnante, chiamato alla piena espressione della sua professionalità.
La diagnosi differenziale tra Funzionamento Intellettivo Limite e Ritardo mentale (un QI di 70 o inferiore) è particolarmente difficile quando è complicata dalla coesistenza di alcuni disturbi mentali (per es., schizofrenia), pertanto la frequente comorbidità con altri disturbi o condizioni cliniche suggerisce maggiori ricerche e studi in questo ambito, soprattutto c’è da comprendere meglio quali e quanti sono i rischi, in età adulta, di sviluppare problemi di salute mentale, un maggiore rischio di disturbi psichiatrici (e.g. Gigi et al., 2014; Einfield et al., 2011; Hassiotis et al., 2008; Nouwens et al., 2016), di uso e abuso di alcool o droghe (e.g. Gigi et al., 2014), di comportamenti suicidari, di esposizione ad ambienti poco stimolanti e svantaggio socio-economico e culturale (e.g. Emerson et al., 2010; Vianello, DiNuovo, & Lanfranchi, 2014). La ricerca futura può aiutare a mettere in evidenza i possibili ostacoli incontrati nelle diverse fasi di sviluppo e guidare i cambiamenti nei servizi, nelle attività, nei percorsi educativi di supporto per rispondere meglio ai bisogni dei bambini e degli adolescenti con Funzionamento Intellettivo Borderline.
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Dott. Giuseppe Seminara
Medico Psichiatra, Psicoterapeuta; Responsabile Sanitario C.T.A. Helios di Gravina di Catania; Docente a contratto nel C.d.L. in Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica, Unict; Membro già SIPSS e SIRP
Sessualità e patologia mentale rappresentano, nel loro intersecarsi, un’area in cui scienza e pregiudizio, valori etici e sociali, aspettative individuali e collettive, entrano in una situazione di conflitto apparentemente inconciliabile e, comunque, di difficile risoluzione (Rosso, 1996). Tutto ciò sollecita, fra l’altro, un sottobosco di luoghi comuni e di pregiudizi, rendendo difficile il coinvolgimento aperto ed efficace anche di quelle figure professionali che, in virtù delle loro specifiche competenze, dovrebbero mostrare meno resistenze.
Trattare di quanto si riferisca all’amore, ai sentimenti, alla sessualità, rende sempre necessaria una complessa sintesi fra elementi che attingono alla sfera della spiritualità e della metafisica, a quella della concretezza materica e delle istanze più propriamente biologiche, fino a quelli che più di altri rendono complicato il tema, vale a dire quelle istanze che rappresentano una sorta di territorio mediano fra i primi e che invisibilmente e fortemente legano le altre e due aree: le emozioni, la passione, la forza vivificante che agisce all’interno delle relazioni sentimentali e delle relazioni sessuali. Potrebbe risultare estremamente interessante, all’interno di una condizione di equilibrio delicato e complesso qual è quella della disabilità psichica, aprire uno spazio di riflessione su questa tematica.
La psicopatologia sembra, talvolta, sovvertire le più rassicuranti immagini che culturalmente hanno nutrito la nostra rappresentazione, iconografica e mentale, della sessualità, una rappresentazione quasi incontaminata ed eterea. La quasi diafana bellezza dell’arte in genere e dell’arte classica in particolare. Diventa, però, necessario accettare il fatto che altri elementi possono concorrere a dare una quadro diverso del tema, aspetti più primordiali e forti dei sentimenti amorosi e della passione; sono questi che possono venir fuori, allorché i filtri sociali, i parametri morali, vengono indeboliti da una particolare condizione patologica. E il loro venir fuori non sempre rappresenta un’aberrazione verso la natura, ma solo un’aberrazione verso quei modelli che la cultura, l’antropologia, i percorsi educativi hanno nel tempo costruito. Ecco perché il confronto con le problematiche della sessualità in ambito psicopatologico può indurre resistenze, può mettere in crisi la nostra personale misura della moralità e dell’immoralità.
È più facile, allora, ritirarsi nei più tranquilli terreni del dissenso e del “comune senso del pudore”… senza considerare il non comune senso dello “abnorme psichico”, materia stessa della Psicopatologia (Jaspers, 1964).
Superare questi limiti, per essere all’ascolto del nostro utente e per essergli di aiuto, è il difficile compito che ci attende.
La sessualità in psichiatria si propone, perciò, come ambito di studio di grande interesse e ad alta complessità. Ancora più interessante questa tematica nell’ambito della residenzialità psichiatrica, specie dal momento che l’inserimento di nuovi utenti, giovani con rinnovate prospettive di reinserimento sociale, con bisogni nuovi e diversificati, impone un cambiamento dell’approccio degli operatori e una crescente flessibilità nelle strategie di trattamento. Soprattutto questo rinnovamento dell’utenza ha determinato, già da qualche tempo, la focalizzazione del nostro interesse verso le tematiche della “sessualità”, anche nel suo aspetto dinamico-relazionale, terreno delicato e poco esplorato.
Il contesto comunitario residenziale influenza i “confini” tra normalità e psicopatologia della sessualità e l’operatore può inconsapevolmente essere uno degli elementi strategici di questa influenza o della sua attenuazione. Perciò sono necessarie strategie per mezzo delle quali il sapere induca il saper fare, ma in particolare alla luce del saper essere. All’apprendimento di tipo cognitivo, utile a saper fare, deve unirsi un apprendimento di tipo anche emotivo, che coinvolga la sfera affettiva e che ci permetta di saper essere, mettendo in discussione i nostri personali punti di vista, adeguandoli alla natura del compito ed ai valori che esso propone.
L’operatore di una CTA non può non prendere atto di come la sfera della sessualità possa offrire in ambito psicopatologico degli aspetti fenomenologici e clinici di assoluta peculiarità. Pertanto, non possono essere i pregiudizi e i luoghi comuni, né possono bastare i punti di vista personali, mai offerti al confronto con gli altri, a indicarci le più adeguate modalità di intervento.
Ecco allora che sullo sfondo di tali “confusioni”, dubbi o certezze operative, si è pensato di partire proprio dagli operatori per una ricerca che permettesse di focalizzare i nodi chiave di questa tematica, prevedendo un futuro approfondimento di quanto emergerà ed eventualmente allargando successivamente il campo d’indagine.
Alcuni dati della ricerca
Per questo progetto, si è appositamente allestito un questionario, autosomministrato e anonimo, abbastanza snello e semplice nella sua struttura, lasciando all’operatore la più ampia libertà di partecipare o meno alla ricerca.
Il questionario, composto da 23 item, dopo una prima parte relativa al campione, indagava le nozioni generali possedute in merito alla correlazione fra malattia mentale e sviluppo o influenza della sessualità.
Scopo principale della ricerca è stato quello di individuare un profilo del bisogno formativo e, su questa premessa, costruire progetti futuri. A tal fine gli item conclusivi sono stati lasciati a risposte “aperte”, giusto per consentire una partecipazione attiva e motivata degli operatori, nonché un’apertura verso i bisogni da loro eventualmente espressi.
Inizialmente rivolta ad un campione “potenziale” di 455 operatori (224 maschi e 231 donne) appartenenti a 16 Comunità Terapeutiche siciliane, la partecipazione alla ricerca è stata lasciata alla libera scelta degli operatori; ragion per cui il campione “reale” ha fatto registrare una sensibile contrazione quantitativa. Hanno partecipato all’indagine 295 operatori, sebbene le modalità esecutive garantissero pienamente l’anonimato dei partecipanti.
Gli Ausiliari, consistente categoria professionale, hanno partecipato in percentuale significativamente ridotta rispetto alle altre due categorie; probabilmente questo testimonia un sentimento di esclusione rispetto alle esigenze di formazione e di aggiornamento professionale in un ambito, quello più tecnico e scientifico, che apparentemente (e inadeguatamente) sembra poter esonerare gli ausiliari dal coinvolgimento. In realtà, la formazione del personale in Comunità deve essere un processo che coinvolge tutte le figure professionali, giusto per la natura stessa della struttura “comunitaria” e dal momento che il clima relazionale fra categorie di operatori e fra operatori e utenti impegna tutti ed espone tutti alle stesse difficoltà e alle stesse responsabilità.
Circa l’importanza che la sfera sessuale ha verso il sano sviluppo della persona, il 42,71% degli intervistati hanno attribuito un’importanza pari a quella di altre sfere della vita dell’individuo; il 37,79% la ritengono “molto importante, ma non la più importante”; il 12,20% le assegna invece un’importanza assoluta. Il “poco importante” (3,73%) e “non fondamentale” (2,37%), dati che potevano sembrare solo “di rappresentanza” hanno trovato un seppur minimo, e forse sorprendente, consenso.
Probabilmente questo dato risente di una tradizionale visione parcellare della sfera sessuale. La sessualità investe l’esistenza umana in maniera molto più ampia di quanto non sia riferibile al sesso e all’attività sessuale; influenza le relazioni umane, sia fra persone di sesso diverso che fra persone dello stesso sesso, influenza la dimensione espressiva e relazionale dell’individuo e delle sue competenze sociali (Seminara, 1994). Si evince da ciò l’importanza della formazione e dell’educazione ricevuta sul tema. L’operatore, infatti, si pone di fronte alle problematiche sessuali a partire e non a prescindere da questi elementi formativi ed educativi, nonché dalla propria scala di valori. Occorre, allora, un atteggiamento maturo e consapevole che, senza disperdere i nostri valori personali, ci eviti l’assunzione di impropri atteggiamenti di giudizio “morale”, rispetto a problematiche che meritano sicuramente una valutazione più ampia e specifica, sia per la loro natura intrinseca che per quella riconducibile alla psicopatologia.
Il giudizio sulla correlazione fra malattia mentale e disturbo dello sviluppo sessuale ha forse risentito del fatto che l’operatore di Comunità si confronta quasi esclusivamente con patologie psichiatriche croniche, spesso di una certa gravità; la ricostruzione di una storia del paziente e del suo sviluppo personale diventa quindi terreno su cui conoscenza e supposizioni si possono sovrapporre. Questo determina probabilmente un’eccessiva “estensione” di giudizio, dettata dal dato empirico, che fa ritenere che nel 36,61% la malattia mentale determina “quasi sempre” un disturbo dello sviluppo sessuale; “a volte” per il 46,78% e “sempre” per l’8,47%. Bassissimi i valori del “mai” (3,39%) e del “rare volte” (3,05%).
Anche gli effetti iatrogeni sulla sfera sessuale come, ad esempio, la riduzione del desiderio sessuale da terapia neurolettica (Arvanitis, 1997; Dickson, 1999; Gitlin, 1994; Rowlands, 1995; Rosso, 2000; Sanzovo, 2006) vengono spesso inglobati nel corredo della malattia e non più disgiunti eziologicamente da essa. Eppure, risulta evidente come questo dovrebbe ragionevolmente aprire un altro capitolo di discussione.
Alla domanda se il paziente psichiatrico, secondo l’esperienza professionale dell’operatore, sente la necessità di una vita sessuale regolare, il 18,31% non esita a dare una risposta pienamente affermativa; a questa percentuale si vanno ad aggiungere opinioni “a sfumare”, come il “sì per gran parte dei pazienti” (31,19%), “sì per alcuni pazienti” (41,02%), “sì per pochi pazienti” (4,41%), che rendono estremamente marginale il 2,71% dei “no”. Dati, questi, quasi in contraddizione con quelli relativi alla domanda precedente, che riconoscevano nella malattia mentale uno sviluppo “sempre o quasi sempre” disturbato della sessualità.
Queste apparenti contraddizioni recano in sé i riverberi del contesto lavorativo, un contesto fatto di relazioni protratte nel tempo e di uno scambio umano e di un dialogo che in una comunità non si limita ai setting rigidamente strutturati. Vissuti soggettivi e oggettività, sentimenti e valori personali entrano in gioco, in un dibattito continuo e impegnativo. Il giudizio tecnico e quello “umano”, piuttosto che raggiungere la loro giusta e necessaria sintesi, tendono a smarrire i propri confini e, in casi estremi, possono far smarrire l’individuazione dello spazio all’interno del quale la relazione può e deve diventare “relazione terapeutica”.
A tratti sembra che l’operatore di un contesto psichiatrico per utenti cronici sia “condannato” a muoversi su un terreno instabile, che rende instabile, se non supportato da una solida base formativa, la possibilità di un giudizio sereno e oggettivo.
Questa della sessualità è senza dubbio una delle aree più interessanti da questo punto di vista.
Torna in questo clima di incertezza una serie di risposte che fanno ritenere al 30,85% degli operatori che “spesso” il paziente psichiatrico, comunque, metta in atto delle condotte sessuali disturbate e/o disturbanti; il 46,44% ritiene che questo accada a volte; mentre il 6,10% depone per un categorico “sempre”. Bassi i valori del “raramente” (5,42%) e del “mai” (1,69%).
Ci è sembrato necessario, a questo punto, articolare meglio l’item relativo alla sessualità nei diversi quadri nosografici psichiatrici. Il 51,19% del campione ha sostenuto che a patologie psichiatriche diverse (psicosi, disturbi dell’umore, psicosi epilettiche, disturbi di personalità, ritardo mentale) corrisponde un differente atteggiamento sessuale; per 29,83% questo avviene solo per alcune patologie.
È abbastanza costante la percentuale di soggetti che elude tutte le risposte, all’incirca il 10%, schierandosi per il “non so” o non rispondendo affatto.
Interessante ci sembra il dato riferibile alle diverse manifestazioni della sessualità che l’operatore ritiene di poter individuare nelle differenti patologie. A tal proposito, si è chiesto di indicare per ciascuna patologia presentata una risposta relativa all’eccesso, all’inibizione o alla normalità della sessualità.
Sicuramente meritevole di approfondimento è il dato relativo alle “non risposte”, sia per quanti non hanno risposto totalmente alla domanda (58 operatori, pari al 19,66%), sia per quanti non hanno risposto per i singoli quadri patologici, specialmente per quelle patologie che, verosimilmente, risultano per loro “inconsuete”, ma che oggi sono sempre più rappresentate all’interno dei contesti terapeutico – riabilitativi residenziali (ad es., i disturbi di personalità, le psicosi epilettiche, ecc.). Questo testimonia un’incertezza di base e, soprattutto, è indice di un’area ad alto livello di bisogno formativo specifico.
Alla luce di tanta complessità la sessualità, non tanto come fenomeno della normale esistenza degli individui, ma vista come area problematica, incide “altamente” per il 38,64% degli operatori (l’incidenza è “altissima” secondo il 7,46%) all’interno della Comunità, influenzandone le dinamiche; incidenza “media” viene riconosciuta dal 36,27%; mentre è “bassa” per il 7,12% e “bassissima” per l’1,69%. È interessante notare come ad una sollecitazione a fornire “esempi” di ripercussioni positive e/o negative ben 219 operatori (74,24%) non danno alcuna risposta, contro un 25,76% (76 operatori) che danno le indicazioni di seguito riportate.
È significativo il poter cogliere come il giudizio “positivo” o “negativo” sembra riconducibile a due diversi punti di vista, quello del paziente (elementi positivi) e quello della struttura ospitante (elementi negativi). Certo, conciliare le diverse istanze richiede molte energie, capacità di mettersi in discussione, muoversi su un terreno ad altissima instabilità e non privo di rischi (immagine, responsabilità, etica, ecc.), impegno verso la formazione personale e professionale.
Del resto l’item successivo rende testimonianza di come l’esperienza professionale (24,71%) e personale (18,04%) siano indicate come le principali risorse (e non sempre sufficienti o adeguate) su cui l’operatore ha potuto finora contare, anche se la formazione (17,40%) e l’informazione (11,38%) si collocano subito a seguire, dando speranza verso un diverso atteggiamento futuro. Per il 6,5%, infatti, l’operatore attualmente “non è adeguatamente preparato” a fronteggiare queste aree problematiche complesse.
Sugli strumenti che possono produrre questo auspicabile miglioramento, il primo posto viene assegnato all’educazione sessuale dei pazienti (23,61%), un tentativo sicuramente lodevole di portare al centro di tutto l’utente, ma con il rischio sommerso di “spostare” sull’utente la responsabilità dell’operatore rispetto alla crescita professionale e alla formazione. All’aggiornamento professionale (19,54%) ed alla formazione personale (19,21%) viene riconosciuto un valore medio. Norme istituzionali specifiche vengono invocate dal 9,12% degli operatori, una sorta di linee-guida rispetto alle responsabilità anche giuridiche, data la delicatezza dell’argomento.
A conclusione del questionario si è voluto proporre una domanda “aperta”, libera alla personale opinione dell’operatore, sulle eventuali proposte di discussione e di gestione delle problematiche trattate.
Ancora una volta, verosimilmente, la mancanza di una griglia di risposte preordinate ha determinato un “silenzio”, forse riconducibile al timore di avanzare osservazioni inappropriate, testimoniando così il personale sentimento di inadeguatezza rispetto all’argomento. 250 operatori (84,75%), non hanno risposto, a fronte di soli 45 (15,25%), che hanno indicato le seguenti aree da approfondire (relazione utente-operatore, formazione, educazione sessuale dei pazienti a cura di sessuologi, linee-guida, confronto fra operatori… fino a “smitizzare il sesso”, “qualsiasi… purché se ne parli!” e “inutile la formazione degli operatori”). Opinioni diverse che hanno tracciato una linea che scivola dal coinvolgimento attivo verso una sorta di rassegnazione, ma che paradossalmente trova una speranza in un’ultima, singolare, risposta; uno degli operatori, infatti, quasi obbedendo al primo assioma della comunicazione (non si può non comunicare), scrive: “non voglio dare suggerimenti!”.
Conclusione
Questa iniziativa ha voluto rappresentare un momento di apertura su argomenti che, inspiegabilmente, vengono spesso scotomizzati ed elusi, pur nella consapevolezza che la dimensione esistenziale di ogni individuo non può trascurare alcuna parte della sua capacità di essere in relazione con l’altro, nella dimensione sociale, affettiva, intima.
Lontana dal voler esser una risposta esaustiva a tanta complessità e alle tante domande possibili, la ricerca vuole tracciare un percorso sul quale costruire ipotesi di lavoro future inerenti la formazione dell’operatore, l’incremento della capacità di accoglimento e di gestione di queste problematiche nell’ambito delle strutture residenziali.
È auspicabile che i dati rilevati, qui necessariamente sintetizzati, possano servire a focalizzare le aree e gli argomenti suscettibili di utile approfondimento in sede di ulteriori iniziative scientifico-culturali, contribuendo ad incoraggiare nelle strutture residenziali l’attivo coinvolgimento degli operatori, premessa necessaria per una reale possibilità di cambiamento e crescita personale e professionale.
Il lavoro svolto, soprattutto in un momento storico che assegna alla riabilitazione psichiatrica nuove responsabilità verso la “persona” e non solo verso il “paziente”, si pone l’obiettivo di incentivare discussioni e riflessioni, che possano dare a tutte le parti coinvolte delle risposte accettabili e consone alle varie aspettative di ognuno. In tal senso, occorrerà che gli operatori, superando i limiti di una conservazione eccessiva della propria omeostasi, incrementino la capacità di mettersi in discussione, entrando in un circuito virtuoso di crescita professionale e personale.
Un ringraziamento alle Comunità Terapeutiche (C.T.A.) che hanno contribuito alla raccolta dei dati:
Adelina (Villarosa, EN), Cappuccini (Vizzini, CT), Cenacolo Cristo Re (Biancavilla, CT), Fauni (Castelbuono, PA), Helios (Gravina di Catania, CT), J.F. Kennedy (Adrano, CT), La Grazia (Caltagirone, CT), Major (Mascalucia, CT), Oasi Regina Pacis (Motta Sant’Anastasia, CT), San Paolo (Militello Val di Catania, CT), Sant’Antonio (Piazza Armerina, EN), Villa Chiara (Mascalucia, CT), Villa Elce (Brucoli, SR), Villa Erminia (Pedara, CT), Villa Sant’Antonio (Aci Sant’Antonio, CT), Villa Verde (Catania)
Bibliografia
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Sanzovo, S., Prior, M., Bianchin, G.I., Rosso, C., Furlan, P.M. (2006). Disturbi Sessuali in pazienti schizofrenici durante il trattamento con Aloperidolo e Quietapina. Minerva Psichiatrica, 47: 249 – 253, 2006.
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Dott. Giuseppe Seminara
Medico Psichiatra, Psicoterapeuta; Responsabile Sanitario C.T.A. Helios di Gravina di Catania; Docente a contratto nel C.d.L. in Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica, Unict; Membro già SIPSS e SIRP.
Il nuovo profilo dell’utenza delle strutture residenziali psichiatriche impone una maggiore attenzione verso aree che sempre più assumono un peso notevole sul versante della clinicae, soprattutto, della riabilitazione, qui quanto mai pienamente intesa. In particolare, le problematiche poste da pazienti autori di reati assumono contorni di rilievo, nella prospettiva di individuare soluzioni capaci di dare risposta ai diversificati aspetti di tali condizioni.“…Quello della psichiatria (e di conseguenza anche dei suoi pazienti) è uno strano destino: influenzato dalle regole sociali più di quanto non accada ad altre discipline della medicina e, soprattutto, con una definizione del proprio mandato che è stata, da sempre, innanzi tutto giuridica, prima che scientifica e terapeutica.” (Asioli, 1993).
La maggior presenza di questa tipologia di utenti in Comunità Terapeutica comporta la necessità di individuare metodologie di lavoro, criteri di valutazione, prospettive e funzioni, adeguati alle rinnovate esigenze proposte dai casi clinici accolti e dalle istituzioni sanitarie e/o giudiziarie che ne attuano l’invio.
Tuttavia, non si può pensare alle strutture residenziali psichiatriche, in senso generico e aspecifico, come luogo di per sé idoneo a qualsiasi tipo di richiesta di “riabilitazione”. Né si può pensare alla Comunità come spazio “immobile” di contenimento delle emergenze sociali.
Per analogia a quanto Ferrannini e Peloso scrivono sull’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, la CTA non deve costituire “una sorta di retrobottega ignorato, tanto della realtà rappresentata dal lavoro psichiatrico territoriale (…), che di quella rappresentata dal carcere.(…) il punto di arrivo di un avviluppo confuso di richieste eterogenee…”(Ferrannini e Peloso, 2005). Anzi, essa deve mostrare una capacità dinamica di adeguare il proprio intervento alle rinnovate esigenze dell’utenza; così come gli invianti devono tener conto della funzione naturale della CTA, rispetto all’utenza ad essa da inviare. Senza questi requisiti di base, si rischierebbe persino di snaturare i presupposti fondativi della Comunità (ad es., l’apertura al territorio), per adeguarli ad esigenze che, quando non sono chiaramente conflittuali (si pensi ai pazienti agli arresti domiciliari), poco o nulla hanno a che vedere con la clinica.
In regime di restrizione della libertà o agli arresti domiciliari in CTA, il paziente autore di reato sperimenta la riduzione degli spazi di partecipazione alle attività esterne (resa complessa anche dalla procedura di richiesta di autorizzazioni e deroghe alle prescrizioni eventualmente previste dal Magistrato di Sorveglianza), la peraltro necessaria limitazione dei contatti sociali, la frustrazione e le conflittualità derivanti dal confronto con le “possibilità degli altri”, oltre ai riverberi relazionali sul gruppo allargato della CTA e sugli altri ospiti (diffidenza, timore, ostilità, ecc.).
Anche il contratto terapeutico (la condivisone, fra utente e curante, delle finalità di cura e delle strategie ad esse mirate) può risentire delle condizioni di invio. La permanenza in CTA può essere vissuta in maniera ambivalente da parte del paziente stesso, che in essa può vedere un percorso di “espiazione” temporanea in attesa del “fine pena”, senza necessità di impegnarsi in un progetto di cura, pur potendo in alcuni casi avvenire il contrario e la permanenza, liberamente scelta, protrarsi oltre le necessità imposte per legge (come nel caso clinico di cui diremo dopo, anche se nemmeno in questo caso sono mancate le contraddizioni e le dissonanze fra i vari “codici” professionali e sociali).
Per tale complessità, occorre mettere assieme, nell’ottica di una condivisione degli obiettivi, formazioni culturali e professionali diverse (medicina, giurisprudenza, sociologia), sempre più sollecitate ad operare in maniera concorde e sinergica, condividendo gli obiettivi ed evitando la “dissonanza” dei codici propri per ciascuna di esse.
È intuitivo quanto tutto questo possa influire sulla relazione di cura, specie in psichiatria, agevolandone o contrastandone la costruzione e la funzione.
IL CASO CLINICO
F., uomo, 37 anni, affetto da schizofrenia paranoide, già palese intorno ai vent’anni.Scarsamente motivato al lavoro, pur con la possibilità di usufruire di un agevole inserimento nell’azienda familiare.Spessocommette reati di piccolo conto, ma reiterati, contro il patrimonio. Il paziente giustifica il suo comportamento con la “voglia di sentirsi un boss… come il bandito Giuliano”.
Dimesso dall’OPG sul finire nel 1998, ha proseguito nella sua sregolatezza esistenziale: si allontana spesso da casa,frequenta ambienti a rischio, abusa di sostanze stupefacenti;per un nuovo reato (rapina) viene ancora processato.
Giunge in CTA nel 2001, mentre l’iter giudiziario è in corso, dietro richiesta della famiglia, verosimilmente come strumentale dimostrazione di “buona volontà di cura” rispetto all’atteso giudizio legale.
Dal punto di vista psicopatologico presenta un florido quadro dispercettivo e delirante, che si accentua con l’inizio dei problemi giudiziari (processi, condanne); notevole componente ansiosa, tono dell’umore instabile e tendenzialmente depresso. L’ideazione, con spunti ossessivi ricorrenti, è improntata a contenuto mistico e fortemente persecutorio (demoni con i quali è “costretto a fare l’amore”!). Ha grosse difficoltà a sostenere una normale relazione interpersonale, specie nei contesti esterni alla CTA, verso i quali manifesta forte rifiuto ed evitamento; un grave gesto autolesionistico agli occhi, per fortuna senza conseguenze permanenti, viene agito per il delirante obiettivo di “non guardare e non essere guardato”. Egli stesso scrive: “Quando uno à questi problemi ci sono nel mezzo problemi emotivi molto profondi. e qui c’è dentro l’artefice di tutto… Il capo e i suoi fiancheggiatori, i demoni”, “Questa è una maledetta esperienza che non glielo auguro a nessuno, neanche al più nemico”.
Le prime fasi del ricovero sono rese difficili dalla gravità del quadro psicopatologico (marcati deliri a contenuto persecutorio e mistico, allucinazioni uditive e visive, assenza di insight, ritiro sociorelazionale, inadeguata compliance con incongrua richiesta di psicofarmaci). La famiglia mostra inizialmente un inadeguato livello di collaborazione verso il progetto di intervento.
Un nostro lento ma costante lavoro, sia con il paziente che sulle dinamiche intrafamiliari, ha permesso il raggiungimento di risultati soddisfacenti.Una stabile condivisione del progetto con il DSM di competenza, con riunioni di confronto e di ridefinizione, laddove necessario, ha rimandato alla famiglia un’immagine unitaria dei curanti e del lavoro di rete, senza lasciare spazio alle manipolazioni relazionali, alle quali la famiglia stessa sembrava essere piuttosto propensa.
La complessità del caso non permetteva però l’ipotesi di dimissioni a breve termine, anche perché le relazioni intrafamiliari (specie nella componente allargata) mostravano aree di conflitto di non facile e rapida soluzione, specie verso un rientro in famiglia del paziente, evento vissuto con ansia e preoccupazione per il futuro, in un contesto familiare ad alta emotività espressa.
I successi più evidenti, allora, sono quelli che riguardano il rapporto con il contesto sociale; come egli stesso scrive: “In questo periodo mi stanno succedendo cose strane: sto vedendo nella mia malattia una piccola guarigione positiva.”.
Il paziente esce sempre più costantemente, mantenendo un comportamento abbastanza adeguato, anche se confessa iniziali difficoltà e timori di riprendere antiche abitudini; ma anche questa sua capacità di esternare gli stati d’animo, rappresenta un’importante progresso, in quanto prova di una certa solidità della relazione terapeutica e di un clima di “fiducia” verso i curanti ed il progetto di intervento. Cresce anche la critica, anche se meno il senso di responsabilità, rispetto al suo passato. Pur parzialmente, accettagli sviluppi attuali della sua posizione giudiziaria (restrizioni della libertà personale, brevi rientri in famiglia subordinati all’autorizzazione del Tribunale di Sorveglianza, ecc.),adeguandosi alle misure impostegli dall’Autorità Giudiziaria.
Ma nel 2009, a distanza di anni dal reato commesso, in seguito ad un iter fatto di sentenze e ricorsi, il paziente viene condannato a due anni di ricovero in Ospedale Psichiatrico Giudiziario; una sentenza sicuramente ineccepibile sul piano giuridico, ma un netto passo indietro rispetto al percorso clinico già svolto e ai miglioramenti ottenuti. Quegli spazi che progressivamente, anche con il suo personale impegno, avevamo reso “nuovo setting” per il lavoro riabilitativo (il territorio, il contesto sociale, i suoi servizi), all’interno dei quali abbiamo cercato di far muovere sempre più in autonomia il nostro utente, paradossalmente rischiano di diventare “terreno inaccessibile, non consentito” a lui.
In seguito ad una nostra relazione, tuttavia, la sentenza viene poi ridefinita nella misura di sicurezza della libertà vigilata in Comunità, sempre per la durata di due anni. Tuttavia, la necessità di richiedere l’autorizzazione del Magistrato di Sorveglianza per i rientri a casa, per le uscite di gruppo, la limitata fruibilità del contesto territoriale, determinano un attenuarsi dei progressi fin qui ottenuti. Con il necessario sostegno dei curanti e dando prova di un oggettivo miglioramento delle risorse personali, però, il paziente riesce a fronteggiare ed accettare condizioni che, seppure inevitabili dal punto di vista legale, si presentavano come potenziali elementi di stallo del percorso riabilitativo. Sul piano psicopatologico, infatti, la sentenza ha degli inevitabili riflessi negativi (depressione del tono dell’umore, incremento dell’ansia, esacerbazione dei disturbi dell’ideazione e della percezione); un’evidente condizione reattiva lecitamente, purtroppo, attendibile sulla base degli accadimenti.
Anche in virtù di un’alleanza terapeutica sufficientemente solida, il prosieguo dell’intervento (trattamento integrato) ha permesso di arginare il problema e di favorirne un graduale superamento, ripristinando una condizione di accettabile compenso psicopatologico e comportamentale.
In tal senso, si è dimostrata essenziale la disponibilità del Magistrato di Sorveglianza a prendere in rapida considerazione il caso, a valutare le esigenze cliniche espresse dai curanti e a modificare celermente le prescrizioni, in una condizione di sicuro equilibrio fra esigenze giudiziarie e clinico-riabilitative (sostituzione del provvedimento di ricovero in OPG, con prescrizione di libertà vigilata in CTA).
Conclusione
Prendersi cura in senso lato di pazienti con le caratteristiche qui considerate comporta una non sempre facile, ma necessaria, sintesi fra “codici” differenti sul piano epistemologico e di cui ineludibilmente si deve tener conto.
Emerge, perciò, l’opportunità di creare spazi di condivisione e di “consonanza” dei codici professionali ed etici, a cui ogni professionista deve far riferimento, per quanto di propria competenza. In questi spazi ci si potrebbe, allora, confrontare sui singoli casi, evitando di pensare che soluzioni uniche vadano sempre bene per tutti, ma comunque senza mai sottrarsi al compito di una struttura psichiatrica rispetto alla cura di una patologia psichiatrica.
Arginare gli “integralismi ideologici” ed aprirsi al confronto fra saperi diversi, può diventare una sicura ed interessante risorsa per meglio affrontare il nostro compito di cura e di riabilitazione con persone che, pur manifestando condotte “perturbanti” e lesive della dignità e del rispetto degli altri, sono spesso immerse in un disagio e in una dimensione patologica, di cui quasi sempre non hanno consapevolezza reale, sconfinando in una condizione esistenziale di cui hanno, e temibilmente abbiamo forse anche noi curanti, smarrito l’aberrazione.
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