Medical News Psicologia

Dopo più di un anno di pandemia la psiche di tutti noi risulta profondamente provata. Sono aumentati di molto i disturbi delle mente, gravi e più o meno gravi. In aumento anche l’uso di sostanze tra gli adolescenti e l’istinto al suicidio, come purtroppo dimostrano alcuni fatti di cronaca, anche tra i più piccoli nella fascia pre-adolescenziale. L’isolamento dalla vita sociale, o comunque una vita sociale più che dimezzata, è una grave perdita non solo per gli adulti ma soprattutto per tutti i ragazzi e ragazze, e per tutti i bambini.

Obbligati a rimanere chiusi in casa o dovendo ridurre di molto i propri contatti sociali, costretti ad inventare nuove forme dell’esistenza, obbligati a condividere spazi a volte scomodi e ristretti in famiglia, le persone si trovano alle prese con una forte ‘emergenza emotiva’ a causa di un virus persistente e subdolo che non sembra permettere facili e veloci vie di fuga. È il caso di dire che la battaglia purtroppo non è ancora terminata, e questa esistenza nuova di reclusione involontaria e di contatti sociali limitati è il carico più difficile da sopportare.

L’impatto psicologico della crisi è pesante non solo sul fronte sanitario ma anche per le conseguenze economiche della pandemia, a causa delle quali milioni di persone si ritrovano senza lavoro o con un’attività depotenziata e martoriata.

In agguato l’apatia o l’inerzia. “Il ritiro dalla vita e nel peggiore dei casi l’inerzia psichica è il pericolo maggiore, più forte della paura di morire”, afferma la psichiatra Stefania Calapai, presidente dell’Associazione Angelo Azzurro Onlus e direttrice del progetto A-HEAD.

Il progetto A-HEAD, nasce nel 2017 dalla collaborazione tra Angelo Azzurro Onlus ed artisti e dj di respiro internazionale. Il progetto sostiene in maniera attiva l’Arte contemporanea e gli artisti che collaborano ai vari laboratori, che da anni l’associazione svolge accanto alle attività di psicoterapia più tradizionali. Nell’ottica del progetto A-HEAD l’Arte rappresenta un mezzo privilegiato per meglio interpretare le complesse strutture della mente, sviluppando un percorso ermeneutico e conoscitivo dei disturbi mentali attraverso l’Arte.

Tra gli artisti che partecipano al progetto vi sono anche artisti emergenti o in qualche modo indipendenti che avvalorano A-HEAD rendendo il progetto ancor più originale. Data la propria natura benefica, con A-HEAD la cultura, nell’accezione più ampia del termine, diviene un motore generatore di sanità, nella misura in cui i ricavati sono devoluti a favore di progetti riabilitativi della Onlus Angelo Azzurro, legati alla creatività intesa come caratteristica prettamente umanafondamentale per lo sviluppo di una sana interiorità. Lo scopo globale del progetto è quello di aiutare i giovani che hanno attraversato un periodo di difficoltà a reintegrarsi a pieno nella società, attraverso lo sviluppo di nuove capacità lavorative e creative.

La lotta allo Stigma della Malattia mentale attraverso l’Arte è la missione di A-HEAD. “L’Arte ci ha aiutato a parlare di malattia mentale in un modo diverso e ci ha permesso di raggiungere più persone di diversa cultura ed estrazione sociale”, spiega la dottoressa Calapai.

L’interesse verso il progetto A-HEAD è cresciuto notevolmente anche se si tratta di un percorso arduo. “Se all’inizio c’era qualche forma di prevenzione ora credo che sia quasi sparita. La lotta allo Stigma, relativa alla malattia mentale, è lunga e sicuramente ha ancora bisogno di tanto lavoro ma sono certa che andrà avanti”, afferma la direttrice Stefania Calapai. Convegni, campagne di informazione, mostre d’Arte a sostegno del progetto A-HEAD hanno dato e continuano a dare risultati molto soddisfacenti. “Solo attraverso la conoscenza, la cultura, si può combattere la stigmatizzazione in ogni forma”, sottolinea Calapai. “Il nostro è un progetto in crescita e speriamo di avere sempre più interesse sia da parte del mondo dell’Arte sia dalla gente comune”.

A proposito di diffusione della cultura la Onlus romana ha avviato un’esperienza editoriale con Angelo Azzurro Edizioni guidata dal dottor Giuseppe Capparelli: “Una linea editoriale specializzata in pubblicazioni letterarie che si occupa dell’approfondimento di tematiche sociali connesse al teatro, alla letteratura, alla poesia e molto altro”, spiega Capparelli. La collana A-Head Edizioni si occuperà invece di produzioni legate all’Arte ed è coordinata dal dottor Piero Gagliardi, curatore e coordinatore delle mostre d’Arte dei vari artisti che aderiscono al progetto A-HEAD.

“Dopo ormai cinque anni di lavoro sinergico e di stima reciproca la comunione d’intenti è rimasta immutata”, afferma il dottore Piero Gagliardi, orgoglioso di essere il curatore dell’intero progetto A-HEAD il cui obiettivo fondamentale è “promuovere l’Arte contemporanea e combattere lo Stigma della malattia mentale”, ribadisce Gagliardi.

Da qualche mese ha aderito al progetto A-HEAD anche l’architetto Roberta Melasecca, art manager e curator di Interno 14 next, un “progetto di mecenatismo interdisciplinare diffuso che ha l’obiettivo di collegare vari operatori dell’Arte”. Nato nel 2013 nel cuore del quartiere Esquilino a Roma, partendo dall’architettura in pochi anni Interno 24 ha aperto le porte ad artisti emergenti e non, ospitando mostre ed eventi d’Arte, con l’obiettivo di far dialogare varie discipline artistiche e connettere vari operatori dell’Arte (curatori, artisti, galleristi, studiosi), superando i confini metropolitani e “per inserirsi in un meccanismo più europeo e internazionale”. Da qui la collaborazione con il progetto A-HEAD, con cui Interno 14 next condivide diversi orizzonti. Tra le collaborazioni internazionali vi è inoltre la dottoressa Veronica Arredondo del Messico, che con la sua opera di ricercatrice e di divulgatrice scientifica, attraverso vari organi di stampa, mira a diffondere i principi del progetto A-HEAD nel suo Paese: “Stiamo cercando di allargare il dibattito all’interno del mondo della cultura per parlare di certi temi cari anche ad A-HEAD, come poter aiutare persone in difficoltà attraverso l’Arte”, afferma la dottoressa Arredondo.

Effetti psicologici della crisi provocata dal Covid-19

La pandemia da Covid-19 ha provocato in tutto il mondo delle conseguenze sulla salute mentale così gravi da spingere anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità ad affermare che la tutela della Salute Mentale è una priorità.

Incertezza, preoccupazionepaura sono solo alcuni dei sentimenti generati dalla crisi provocata dal Coronavirus. Una crisi profonda che si è insinuata nella psiche di molte persone. Diversi disturbi mentali che sono venuti a galla in questo periodo “sono legati all’incertezza e alla paura dell’ignoto”, afferma la dottoressa Stefania Calapai.

Rinunciare alle proprie abitudini, alla propria libertà, ai propri obiettivi non è semplice, ma è necessario ‘adattarsi’ per non allargare il contagio.

In questa seconda (e terza) ondata della pandemia assistiamo in particolare a ciò che gli psichiatri definiscono una “psicopandemia”, ossia un rilevante aumento dei disturbi psichiatrici quali ad esempio “disturbi alimentari, disturbi del sonno, oppure disturbi collegati alle attività cognitive come disturbi dell’attenzione e della memoria, scarsa capacità di concentrazione”, come spiega la psichiatra Calapai.

I medici hanno messo in pratica, a loro volta, delle strategie di difesa che possono generare stati di negazione e di isolamento e, nel peggiore dei casi, anche disturbi psichiatrici più seri come l’ipocondria ossia la paura di ammalarsi, di contrarre il virus: “L’Altro visto come un pericolo” è un fattore che ha cambiato profondamente le relazioni umane e tra queste anche la relazione tra paziente e psicoterapeuta. Maggiori difficoltà sono anche collegate all’uso delle mascherine perché l’attività terapeutica si basa sulle emozioni, che molto spesso si rendono evidenti attraverso degli atteggiamenti e delle specifiche espressioni del volto, oltre che del corpo; se il volto è coperto per metà dalla mascherina molte emozioni rimangono come imprigionate, sono soffocate, e questo particolare – la mascherina rappresenta una barriera facciale – non aiuta il lavoro del terapeuta.

Si tratta di uno stress, quello provocato dalla pandemia, che ha messo a dura prova davvero tutticompresi i medici e i psicoterapeuti, che sono stati quindi costretti ad esercitare la loro professione essendo anch’essi provati e ritrovandosi quindi a condividere la loro stessa sofferenza con i propri pazienti. Come affermava l’illustre psichiatra, psicoanalista, antropologo, filosofo e accademico svizzero, Carl Gustav Jung, “il guaritore ferito è colui che riesce a curare meglio l’Altro”, spiega la psichiatra Calapai. Jung è di certo tra le principali figure intellettuali del pensiero psicoanalitico di tutti i tempi; la sua famosa tecnica e teoria di analisi è denominata “psicologia analitica” o “psicologia del profondo”, più tecnicamente “psicologia complessa”.

Il cambiamento dello stile di vita quotidiano è stato radicale, lo smart working, ad esempio, ha rivoluzionato le giornate di molte famiglie e ha provocato, magari, dei danni a diverse persone. Tra i più colpiti da disturbi psichiatrici ci sono proprio coloro che a causa delle nuove normative legate alla diffusione del virus lavorano da casa. Costoro accusano disturbi del sonno dovuti, molto spesso, al maggior tempo trascorso davanti allo schermo di un pc, senza magari avere più il ritmo della pausa pranzo o della pausa caffè per socializzare con i colleghi. Stare molte ore di fronte ad un computer, inoltre, riduce di molto lo stimolo della dopamina e ciò ha comportato un aumento dei disturbi del sonno e di quelli legati alla depressione.

In generale giovani, donne, disoccupati, ma anche una parte non trascurabile dei lavoratori costretti a svolgere la propria attività in modalità smart working, sono le categorie che hanno accusato i disturbi psichiatrici più rilevanti. Per quanto riguarda il lavoro da casa sarà purtroppo così ancora per diversi mesi, almeno fino a quando il vaccino non avrà sviluppato una considerevole immunità tra la popolazione.

“Lo stare chiusi in casa, soprattutto per coloro che non sono abituati come ad esempio i ragazzi adolescenti, può generare ansiastati depressiviattacchi di panico, insonnia”, spiega la dott.ssa Calapai. “È inoltre essenziale una comunicazione chiara ed efficace da parte dei mezzi di informazione”. Molto spesso, inoltre, l’informazione è ricca di notizie negative che acuiscono gli stati di ansia rendendo l’isolamento in casa e il rastrellamento dei contatti sociali più difficile da sopportare.

Un’altra patologia psicologica collegata al tempo che stiamo vivendo è infatti l’infodemia, ossia l’ossessione, quasi, di informarsi continuamente anche a causa del bombardamento di informazioni provenienti da più media, on line e off line, appartenenti al mainstream oppure al mondo del web. Il rimbalzo di informazioni e molto spesso di fake news attraverso i social media provoca, ad esempio, un vero e proprio panico informativo con conseguenze molto spesso devastanti sulla mente degli individui più o meno giovani. In questo contesto l’informazione diventa essa stessa un’epidemia e invece di essere di aiuto alla comprensione dei fatti – nel caso specifico dei fatti legati al Coronavirus – si trasforma in una nuova forma di virus, altresì devastante.

In inglese infodemic è una parola d’autore coniata da David J. Rothkopf in un articolo comparso sul Washington Post già nel 2003, ed oggi la parola infodemic ricorre anche nei documenti ufficiali dell’Organizzazione mondiale della Sanità. In sostanza si definisce infodemia la “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”.

In pratica occorre informarsi senza esagerare e senza cedere al panico. La mancanza di chiarezza, in particolare sui diversi livelli di rischio, può portare i soggetti a “temere il peggio”, come scrivono anche gli studiosi del King’s College di Londra.

Adattarsi’, invece, vuol dire ad esempio “pensare di fare qualcosa di bello, dedicarsi a delle passioni che avevamo relegato nel cassetto per mancanza di tempo”, come dice la psichiatra Calapai. In questo periodo così travagliato “è molto importante ascoltare le proprie emozioni”, cercando di razionalizzare i propri comportamenti.

“Lo stress perdurante a cui siamo stati sottoposti a causa della pandemia può essere uno stress individuale o comunitario – spiega Calapai – diverso sia dal disturbo post traumatico da stress che dallo stress dovuto a catastrofi naturali”. Si tratterebbe di “uno stress subacuto, persistente e perturbante che si è evoluto da acuto a cronico. Ognuno di noi ha reagito a questi eventi stressanti in maniera differente, ma tutto ciò ha certamente determinato un aumento dei disturbi, anche psichiatrici, in tutto il mondo, con prevalenza di disturbi depressivi, del sonno, alimentari, della libido; e negli adolescenti ha generato una vera e propria emergenza con tentati suicidi e autolesionismo”.

Tra i più giovani e gli adolescenti è aumentato anche l’uso di sostanze e l’abuso di alcool. L’isolamento e lo spegnersi o, comunque, il potere ridotto delle relazioni, portano soprattutto negli adolescenti all’emersione di disturbi psicologici rilevanti per la mente che si sommano alle normali difficoltà collegate all’età adolescenziale. “La nostra Onlus Angelo Azzurro – spiega la dottoressa Calapai – ha lavorato e continua a lavorare proprio in questo ambito, costruendo progetti per dare sostegno e assistenza alle persone e alle famiglie con malati psichiatrici, anche molto giovani, in difficoltà sia economiche, sia sociali, sia sanitarie”.

L’obbligo di stare chiusi e di distaccarsi in qualche maniera dagli altri ha in sostanza fatto venire a galla situazioni latenti, come stati depressivi in precedenza soppressi dalla quotidianità routinariaquadri nevrotici tenuti sottocontrollo in balìa della vita ordinaria che nel corso della pandemia da latenti sono diventati evidenti. Oppure, semplicemente, la pandemia ci ha rivelato ciò che non andava dentro e fuori di noi.

In definitiva, lo stress da pandemia sembra avrebbe portato alla luce molte ombre (…), aiutandoci a liberarci da molte catene dalle quali ci facevamo imprigionare anche solo per convenzione e quieto vivere, per mera abitudine, condizionando la mente.

Pandemia psichiatrica

Constatato l’aumento di disturbi psichiatrici a causa della pandemia da Covid, gli psichiatri parlano quindi, a tutti gli effetti, di “pandemia psichiatrica” vera e propria. Dopo la prima ondata sembrava tutto superato ma con la seconda, e poi anche la terza ondatail trauma è riemerso proprio perché si è riaperta una ferita.

Il “trauma” è un fenomeno molto complesso in psichiatria. Nello specifico “il trauma pandemico disarticola la linearità del tempo e dell’esperienza lasciandoci senza riferimenti”, come spiegano gli psichiatri. In pratica ognuno di noi è come una nave alla deriva che a mano a mano deve ritrovare degli attracchi interni ed esterni, “una forza o una motivazione interna, anche all’interno della propria casa per ricrearsi un proprio mondo, questo è un fattore molto importante nel trauma”, afferma la dottoressa Calapai, “perché nel trauma emergono anche angosce ancestrali che sono legate ad altri traumi vissuti in passato”. Quindi durante una situazione di emergenza le risposte che ognuno di noi mette in atto dipendono “sia dai traumi pregressi sia dalle modalità di reazione che abbiamo ereditato dal contesto familiare”Per questo motivo ogni soggetto reagisce al trauma in maniera diversa. Susan Sontag nel suo libro “Malattia come metafora” afferma: “Come ogni situazione estrema, una malattia porta alla luce quanto di meglio e di peggio c’è in ciascun individuo”.

Si tratta in effetti di una situazione “estrema”, mai vista prima, la pandemia ha reso le persone molto più vulnerabili e le conseguenze per la salute mentale probabilmente resteranno per un tempo più lungo, rispetto al previsto o prevedibile. I giovani che ad esempio oggi hanno disturbi psichiatrici, tipo fenomeni di autolesionismo e tentato suicidio, è probabile che saranno dei pazienti psichiatrici anche nell’età adulta: “Sono soggetti che molto probabilmente avranno bisogno di aiuto durante tutto il periodo di crescita e non si sa come reagiranno quando la pandemia sarà finita, ed inoltre non ci sono strutture sanitarie idonee e sufficienti. Al Bambin Gesù, ad esempio, ci sono appena otto posti letto”, ammonisce la dottoressa Calapai. Sembra comunque molto probabile che tali ragazzi avranno bisogno di aiuto per un periodo piuttosto lungo, oltre il periodo pandemico, “non sappiamo come reagiranno alla riapertura dei canali sociali, se hanno sviluppato delle strategie da Covid per reagire al mondo esterno”, non è chiaro come reagiranno tornando ad una vita più o meno normale. Si parla in sostanza di “pandemia psichiatrica” perché c’è un’emergenza dovuta ai disturbi della mente a partire dall’adolescenza fino all’età adulta.

In definitiva, ad avere bisogno di aiuto per la mente non sono solo i più fragili, come gli anziani, i disabili e i soggetti con malattie croniche, ma anche persone e ragazzi normali, disoccupati che non riescono a recuperare il lavoro, donne che hanno dovuto interrompere la propria vita professionale o perché licenziate o per dedicarsi alla vita familiare travolta dal caos pandemico, anche sotto il profilo finanziario. Tutti fattori che secondo gli studiosi potrebbero aumentare il rischio di suicidio, come riporta anche la rivista The Lancet Psychiatry.

Dobbiamo restare molto ancorati ai fatti e alla quotidianità e provare a concentrarci su quelli che pensiamo essere i nostri punti di forza, gli “attracchi” interni ed esterni, ma soprattutto interni.

Questo periodo di radicale cambiamento dello stile di vita quotidiano potrebbe trasformarsi, in effetti, in un’opportunità per ripensare le proprie relazioni, il proprio lavoro, il rapporto con il cibo, in pratica tutta la propria vita. È molto importante non avere pensieri ruminativi riguardo alla situazione futura che noi in fondo non possiamo prevedere o conoscere a pieno.

Come testimoniano i dati il sostentamento materiale e quotidiano rimane comunque la principale fonte di angoscia per le persone senza un’occupazione. Tra le evidenze scientifiche risulta ad esempio che coloro che hanno livelli di reddito più bassi mostrano una necessità di supporto maggioresia economico che psicologico.

L’Italia è fra i Paesi più a rischio dal punto di vista economico e la rete di supporto psicologico dovrebbe quindi essere pronta ad assistere le persone che hanno ad esempio difficoltà lavorative. Si tratta di una rete preziosa ma che va potenziata, perché la salute mentale si sviluppa sul territorio e non tutte le persone dispongono di risorse economiche sufficienti per potersi rivolgere a dei professionisti privatamente. Da qui l’importanza dell’opera preziosa ed essenziale svolta sul territorio da Associazioni come Angelo Azzurro Onlus.

Medical News Psicologia

Ricerche molto recenti su modelli animali gettano luce sulle regioni del cervello che promuovono i comportamenti altruistici d’aiuto nei confronti di chi consideriamo “simili” a noi ma non verso chi riteniamo appartenenti ad un diverso gruppo sociale.


Italian abstract comportamenti altruistici

La letteratura sta identificando alcuni specifici meccanismi attraverso i quali i comportamenti altruistici avvengono in maniera selettiva nei confronti del legame sociale e del senso di appartenenza (concetto di in-group) percepito rispetto conspecifici nel contesto in cui questi ultimi richiedono di essere supportati.

Questi fattori possono essere più significativi dell’empatia provata dal soggetto che esprime il comportamento d’aiuto quindi i dati emersi recentemente sono particolarmente interessanti da considerare in funzione di promuovere maggiori comportamenti pro-sociali.

English abstract 

Scientific literature is identifying some specific mechanisms through which altruistic behaviors occur selectively towards the social bond and sense of belonging (in-group concept) perceived concerning conspecificsin a context in which they require to be supported.

These factors may be more significant than the empathy felt by the subject expressing the helping behavior, so the recently emerged data are particularly interesting to consider in order to promote greater prosocial behaviors.


Autore

Dott. Massimo Agnoletti – Psicologo, Dottore di ricerca esperto di Stress, Psicologia Positiva e Epigenetica. Formatore/consulente aziendale, Presidente PLP-Psicologi Liberi Professionisti-Veneto, Direttore del Centro di Benessere Psicologico, Favaro Veneto (VE).


Un recente studio ha individuato nei topi le aree del cervello coinvolte nell’attuazione di comportamenti altruistici pro-sociali selettivi (cioè solo verso coloro che venivano percepiti come appartenenti allo stesso gruppo sociale) nei confronti di loro conspecifici che si trovavano nel contesto in cui questi ultimi avevano bisogno di aiuto.

Questo meccanismo neurale che alcuni ricercatori definiscono “biasin-group” o “pregiudizio in-group” relativo la prosocialità deve ancora essere individuato nella specie umana anche se è del tutto probabile che sia una architettura condivisa da tutti i mammiferi, specie umana compresa.

Già altre ricerche avevano in passato evidenziato il ruolo selettivo dei comportamenti altruistici prosociali in diversi modelli animali e nella specie umana (Olff et al., 2013) ma, a mio avviso, due studi in particolare hanno recentemente impreziosito di dettagli questa complessa dinamica sociale.

Entrambi gli studi hanno evidenziato quanto il concetto riduzionistico relativo l’ossitocina quale ormone che promuove una prosocialità “tout court” (l’ossitocina come “ormone dell’amore”) sia profondamente errato quanto irrealistico se non potenzialmente pericoloso.

Il primo studio, condotto dal prof. Carsten De Dreu e la sua equipe e pubblicato sulla rivista Science, ha infatti provato che, all’interno di un contesto in cui dovevano effettuare scelte finanziarie, le persone che assumevano ossitocina registravano un aumento dei comportamenti altruistici ma solo nei confronti degli altri membri del proprio gruppo di appartenenza sociale in-group mentre contemporaneamente veniva promosso un “atteggiamento difensivo” verso il gruppo considerato “esterno” out-group (De Dreu et al., 2010).

Il secondo studio dal titolo, esplicito quanto provocatorio “Oxytocin promotes human ethnocentrism” (“L’ossitocina promuove l’etnocentrismo”) pubblicato dalla prestigiosa rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (De Dreu et al., 2011) rappresenta, per la sua metodologia, ricchezza di informazioni ed implicazioni pratiche, una ricerca particolarmente illuminante molte dinamiche psicosociali umane.

In questo studio sono stati pubblicati i risultati di cinque esperimenti dove volontari maschi olandesi, che avevano assunto ossitocina (o, in alternativa, un placebo per esigenze metodologiche), dovevano effettuare delle scelte morali (virtuali ma estreme) relativamente altre persone che corrispondevano a due gruppi: quello di appartenenza olandese, cioè l’in-group e l’altro di cui nutrivano un pregiudizio negativo tedeschi e musulmani, cioè l’out-group.

Risulta importante far notare che sondaggi abbastanza recenti condotti nei Paesi Bassi hanno fatto emergere che circa metà della popolazione ha dichiarato di aver pregiudizi nei confronti dei musulmani e dei tedeschi.

In seguito all’assunzione di ossitocina il processo decisionale relativo le scelte morali estreme dei soggetti olandesi (in cui dovevano decidere chi doveva morire tra una persona dell’in-group o, in alternativa, una persona dell’out-group) sacrificavano più facilmente tedeschi e musulmani rispetto gli olandesi.

Il terzo studio che voglio discutere qui aggiunge un livello di analisi ulteriore particolarmente importante riguardo i meccanismi neurali di questa dinamica pro-sociale selettiva che, con tutta probabilità, ciascuno di noi possiede.

La ricerca molto recente alla quale faccio riferimento ha individuato nei ratti le regioni del cervello coinvolte nel dare la priorità ai propri consimili che si trovano in difficoltà suggerendo che una logica simile relativa questo “bias neurale” può essere condivisa anche negli esseri umani (Ben-Ami Bartal et al., 2021).

In questo studio i ratti hanno dimostrato di essere selettivi nei comportamenti altruistici aiutando i loro con specifici appartenenti al loro gruppo in-group percepito ma non i ratti di un gruppo considerato estraneo out-group, nel compito di liberarli da un dispositivo che li intrappolava. I ratti oggetto dell’indagine avevano naturalmente appreso perfettamente in precedenza la modalità attraverso la quale erano in grado di “liberare” i loro conspecifici dal dispositivo.

Attraverso una metodologia molto sofisticata quale la quantificazione del gene c-Fos, il gruppo di ricerca capitanato dalla professoressa Ben-Ami Bartal ha identificato una rete neurale attiva in tutti i ratti oggetto dello studio indipendentemente dal gruppo di appartenenza percepita nei confronti dei ratti richiedenti aiuto.

Questa rete neurale attiva condivisa dai topi che si trovavano nella situazione di poter aiutare un loro conspecifico, a prescindere dal gruppo di appartenenza dei topi potenzialmente assistiti, include la corteccia frontale e la corteccia insulare.

Le aree del cervello attive esclusivamente nei confronti dei topolini che venivano percepiti come appartenenti allo stesso gruppo in-group erano invece il nucleo accumbens e lo striato.

L’effettivo comportamento proso-ciale che si esprimeva nel “liberare” i topi conspecifici dal dispositivo che li stava intrappolando avveniva quando queste ultime aree cerebrali erano attive in combinazione con quelle precedentemente menzionate, attive invece a prescindere dalla percezione del gruppo di appartenenza del topo “assistito”.

L’imaging microendoscopico in vivo del calcio ha evidenziato come l’attività del nucleo accumbens fosse maggiormente intensa quando i ratti si avvicinavano a un membro conspecifico in-group intrappolato che necessitava quindi di essere aiutato.

Le aree cerebrali identificate nello studio dimostrano che le reti neurali della motivazione e della ricompensa sono connesse con il comportamento effettivo di supporto pro-sociale fornito ad un membro in-group fornendo, per la prima volta, dei dettagli sul meccanismo neurale relativo il cosiddetto “bias dell’in-group” nei topi.

“Il fatto di considerare un membro dello stesso gruppo di appartenenza può essere un fattore più potente rispetto l’empatia al fine di promuovere la motivazione pro-sociale”, ha dichiarato l’autrice principale dello studio Inbal Ben-Ami Bartal, professoressa di psicobiologia presso l’Università di Tel-Aviv in Israele.

La Bartal, insieme al professor Kaufer ed al professor Keltner, entrambi docenti presso l’University of California di Berkeley, hanno guidato dal 2014 un gruppo di ricerca che ha cercato di identificare le reti cerebrali attivate nei ratti in relazione all’empatia confermando che questi risultati possono essere presenti anche negli esseri umani.

“La scoperta di una rete neurale simile coinvolta nell’aiuto empatico nei ratti, come negli esseri umani, fornisce nuove prove che prendersi cura degli altri si basa su un meccanismo neurobiologico condiviso tra i mammiferi”, ha affermato la prof.ssa Bartal.

Vista l’importanza relativa il gestire scenari di crisi e difficoltà sociale che globalmente stiamo vivendo come specie umana, ritengo che queste conoscenze dovrebbero essere conosciute dai decisori politici per essere implementate al fine di promuovere l’integrazione sociale soprattutto considerando che la specie umana è caratterizzata da una particolare capacità neuroplastica “esperienza dipendente” attraverso la quale le varie categorie in-group e out-group possono essere modificate.

 

Bibliografia:

Ben-Ami Bartal, I., Breton, J. M., Sheng, H., Long, K. L., Chen, S., Halliday, A., Kenney, J. W., Wheeler, A. L., Frankland, P., Shilyansky, C., Deisseroth, K., Keltner, D., & Kaufer, D. (2021). Neural correlates of ingroup bias for prosociality in rats. eLife, 10, e65582. https://doi.org/10.7554/eLife.65582.

De Dreu, C.K., Greer, L.L., Handgraaf, M.J., Shalvi, S., Van Kleef, G.A., Baas, M., Ten Velden, F.S., Van Dijk, E., &Feith, S.W. (2010). The Neuropeptide Oxytocin Regulates Parochial Altruism in Intergroup Conflict Among Humans. Science, 11, 1408-1411.

De Dreu, C. K., Greer, L. L., Van Kleef, G. A., Shalvi, S., & Handgraaf, M. J. (2011). Oxytocin promotes human ethnocentrism. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 108(4), 1262–1266. https://doi. org/10.1073/pnas.1015316108

Olff, M., Frijling, J.L., Kubzansky, L.D., Bradley, B., Ellenbogen, M.A., Cardoso, C., Bartz, J.A., Yee, J.A., & Van Zuiden, M. (2013). The role of oxytocin in social bonding, stress regulation and mental health: An update on the moderating effects of context and interindividual differences.

Psychoneuroendocrinology, 38, 9, 1883-1894

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Il nuovo paradigma epigenetico e quella che viene definita “microbiota revolution” per il forte impatto nelle conoscenze biomediche, convergono nel ridimensionare significativamente l’attribuzione della componente genetica finora largamente accettata.


English abstract 

The scientific sector dealing with human epigenetic studies the role of extra genetic factors in influencing the fitness of the body as a whole.

In this context, it has only recently been understood that the microbiota, that is the complex ecosystem made up of bacteria, viruses and fungi that live in our bodies but which do not share our DNA, is also of fundamental importance for our survival.

Up to now, many researchers have adopted the comparative methodology existing between homozygous and heterozygous twins to measure the genetic contribution (DNA) with respect to the extragenetic component, thus greatly underestimating both the fundamental role of hereditary epigenetic memory now documented by the literature and the equally solid relative literature about the massive interactions of the microbiota in our organism.

This conceptual and methodological error indicates, on the one hand, a significant overestimation of the genetic component in the understanding of all complex phenotypic structures (including behaviors), on the other hand, an equally significant general underestimation of extragenetic factors in explaining these human complex phenomena.

Italian abstract 

Il settore scientifico che si occupa di epigenetica umana, studia il ruolo dei fattori extra genetici nell’influenzare la fitness dell’organismo nella sua globalità.

In questo contesto solo recentemente si è capita l’importanza fondamentale, anche per la nostra sopravvivenza, del microbiota ossia il complesso ecosistema formato da batteri, virus e funghi che vivono nel nostro organismo ma che non condividono il nostro DNA.

Fino ad oggi molte ricerche hanno adottato la metodologia comparativa esistente tra gemelli omozigoti ed eterozigoti per misurare il contributo genetico (DNA) rispetto la componente extragenetica, sottostimando considerevolmente sia il ruolo fondamentale della memoria epigenetica ereditaria, ormai documentata dalla letteratura, sia l’altrettanto solida letteratura relativa le massicce interazioni del microbiota nel nostro organismo.

Questo errore concettuale e metodologico indica da una parte una rilevante sovrastima della componente genetica nella comprensione di tutte le strutture complesse fenotipiche (comportamenti compresi), dall’altra una altrettanto rilevante sottostima generale dei fattori extragenetici nello spiegare questi fenomeni complessi.

Autore

Dott. Massimo Agnoletti – Psicologo, Dottore di ricerca esperto di Stress, Psicologia Positiva e Epigenetica. Formatore/consulente aziendale, Presidente PLP-Psicologi Liberi Professionisti-Veneto, Direttore del Centro di Benessere Psicologico, Favaro Veneto (VE).


[dropcap color=”#008185″ font=”0″]L’[/dropcap]

Lo studio del microbiota ha rivoluzionato molte conoscenze pregresse delle scienze biomediche e psicologiche perché evidenzia il ruolo fondamentale di questo altamente complesso ecosistema di batteri, funghi e virus all’interno di quella che generalmente consideriamo la “nostra” fitness, riferendoci all’insieme delle cellule che condividono il nostro DNA umano, ma che dobbiamo pensare più come unità simbiotica (olobionte) costituita da cellule umane e non umane che interagiscono funzionalmente per raggiungere scopi (teleonomie) almeno in parte condivisi (Agnoletti 2021a,  Agnoletti 2021b).

Dalla produzione di neurotrasmettitori (ad esempio, più del 90% della serotonina viene prodotta a livello intestinale), alla funzione di elaborazione degli alimenti che ingeriamo, al ruolo fondamentale di apprendimento del nostro sistema immunitario, il microbiota si è già dimostrato essere un protagonista finora grandemente sottovalutato nell’eziologia di molte problematiche di natura sia organica (si veda ad esempio la celiachia, l’obesità o la colite ulcerosa) che psicologica (per esempio l’ansia, la depressione e molte psicopatologie quali l’autismo, la schizofrenia, etc.). (Caio et al., 2019; Cheunget al., 2019; Foster &McVey Neufeld; Sharon et al., 2019; 2013; Garrett et al. 2007; Li & Zhou, 2016; Mangiola et al., 2016; Rescigno, 2021; Rodrigues-Amorim et al., 2018; Simpson et al., 2021).

Risulta evidente da questo scenario particolarmente complesso che il concetto di Self viene ad essere travolto da una quasi disorientante nuova prospettiva dove le teleonomie biologiche del microbiota si intrecciano con quelle più riconducibili al nostro DNA e sono almeno in parte influenzate dai processi decisionali consapevoli e non espressi dalla nostra mente (si pensi banalmente alle scelte alimentari che attuiamo nella nostra quotidianità).

Se da una parte quello che possiamo concettualizzare come il “nostro” Self è influenzato dal cambiamento della composizione del “nostro” microbiota (ad esempio alterando la produzione di serotonina con tutte le sue implicazioni psico-esperienziali), è altrettanto vero che, ad esempio, anche solo attraverso una maggiore consapevolezza/conoscenza relativa questa stessa tematica (o banalmente cambiando scelte alimentari dovute ad un breve soggiorno in qualche località esotica), possiamo modificare il microbiota incidendo sul rapporto tra le varie popolazioni che costituiscono questo enorme ecosistema extraumano.

La connessione tra interazione tra cellule umane e microorganismi extraumani che chiamiamo Self ha quindi una natura assolutamente bidirezionale ed in gran parte integrata.

Anche l’epigenetica umana enfatizza il ruolo delle informazioni che non fanno parte del nostro genotipo (DNA) nella spiegazione delle strutture biologiche e dei comportamenti di una persona ed in questo senso ha già definito una transizione rispetto quello che ritenevamo il nostro Self (Agnoletti, 2020a) coerente e convergente con i dati che stanno emergendo dal settore del microbiota.

Questa prospettiva globalmente contrasta fortemente la visione focalizzata sull’importanza della genetica riconducibile al cosiddetto “dogma centrale della biologia molecolare” dove, invece, viene enfatizzato il ruolo dell’informazione genetica codificata nel DNA di ciascuna cellula.

In questo scenario il flusso di informazioni unidirezionale proveniente dal DNA verso il contesto esterno extragenetico, implica una forma di “impermeabilità” o di “incapsulamento” informazionale rispetto tutto ciò che non si trova all’interno della memoria genomica (Agnoletti, 2020a; Bottacioli & Bottacioli, 2017).

Fino ad oggi, la principale metodologia per stimare il contributo dell’informazione genetica dei fenotipi umani (e non) è stato fondamentalmente basato sull’assunto dicotomico genetico/extra-genetico e DNA/ambiente, dove il Self viene rappresentato a questo livello dai geni ed il non-Self viene rappresentato da tutto ciò che non è codificato nel DNA.

Si tratta chiaramente di un assunto che riflette la visione riduzionistica in cui vi è la  centralità e la priorità dell’informazione genetica rispetto quella non genetica (derivante dal cosiddetto dogma centrale della biologia)che non coglie la complessità del considerare altrettanto importanti (per la fitness globale dell’organismo) anche fattori extra-genetici, attribuibili all’interazione di altri organismi non umani quali il microbiota (o più tradizionalmente, anche strutture intracellulari come i mitocondri).

Il modo di declinare questo scenario teorico in termini metodologici ha cercato finora di identificare il contributo genetico del tratto fenotipico oggetto dello studio comparando gruppi di gemelli omozigoti (che condividono il medesimo DNA) con quelli eterozigoti (che condividono mediamente il 50% del DNA), analizzando la variabilità riscontrata in quel tratto fenotipico (colore degli occhi, altezza, tratto di personalità, felicità, etc.) e assumendo che questa sia attribuibile alla componente extra genetica derivante dall’esposizione di esperienze successive al parto.

Nella logica di questa metodologia, la variabilità riscontrata è attribuibile semplicemente (in maniera autoescludente) alla componente genetica o extragenetica, cioè se non è extra genetica, allora dev’essere necessariamente genetica e viceversa (si veda in proposito ad esempio Goldsmith, 1983; Nichols, 1978; Tellegen et al., 1988).

Così, ad esempio, per stimare il contributo genetico (o presunto tale) della percezione di felicità individuale o di caratteristiche personologiche quali l’estroversione o la timidezza, hanno comparato gruppi di gemelli omozigoti con gruppi di gemelli eterozigoti analizzandole variazioni relative esistenti tra i due gruppi ed attribuendo tale valore alla componente extra genetica.

La logica di questo ragionamento può essere riassunta approssimativamente così: “se la variabilità del tratto fenotipico in questione non è attribuibile alle esperienze vissute dalla persona da quando è stata partorita allora, di conseguenza, detta variabilità è attribuibile alla componente del DNA”.

Come già riportato, questa metodologia è coerente con il paradigma gene centrico dove vi è una separazione dicotomica tra il concetto ereditabilità dovuta all’informazione genetica e il concetto di ambiente come fattore esperienziale vissuto dall’organismo (sia a livello psicologico che fisiologico/cellulare) che non può essere né ereditato né può influenzare l’espressione del DNA.

Con l’affermarsi del paradigma epigenetico viene enfatizzato il valore ed il ruolo dei fattori che determinano l’espressione differenziale del DNA all’interno di un continuo dialogo bidirezionale, tra la memoria genetica con la memoria informazionale extra-genetica che è contemporaneamente non-Self (dal punto di vista del DNA) e Self (se consideriamo la prospettiva dell’organismo stesso). (Agnoletti, 2020a).

L’epigenetica implica un’abolizione della precedente dicotomia Self-ambiente coincidente con il paradigma genecentrico, per la massiccia e continua capacità dell’organismo di selezionare’ anche in modo reversibile (quindi potenzialmente transitorio), l’informazione genetica che viene espressa (Agnoletti, 2020).

La scienza dei telomeri è un esempio evidente di questo più recente paradigmache enfatizza i fattori non genetici che incidono profondamente sulla longevità degli organismi (Andrews & Cornell, 2017; Blackburn, 1991).

Infatti, ricerche molto recenti coerenti con questa visione hanno confermato che gemelli omozigoti condividono non solo lo stesso genoma, ma anche l’insieme dei meccanismi molecolari che regolano l’espressione dei geni proprio perché la loro duplicazione avviene dalla medesima cellula iniziale che già contiene una sua specifica memoria epigenetica precedente il parto (si veda in proposito Bell & Spector, 2011; Fraga et al., 2005; Tan, Christiansen, von Bornemann Hjelmborg & Christensen, 2015; Kaminsky et al., 2009; Van Baak et al., 2018; Wong, Gottesman & Petronis, 2005; Yet et al., 2016).

È stato dimostrato che questa condivisione di informazioni extra-genetica ha origine nelle prime fasi dello sviluppo embrionale ed è così importante da poter predire lo sviluppo di alcune malattie anche oncologiche.

Sul piano informazionale ciò che è comune a due gemelli omozigoti, non è quindi unicamente riconducibile al contenuto di DNA ma anche a dinamiche epigenetiche. Nella metodologia comparativa tra gemelli omozigoti ed eterozigoti che indaga il rapporto del contributo genetico rispetto quello non genetico, la differenza di variazione tra i due gruppi non è riconducibile esclusivamente al contenuto informazionale del DNA.

Durante la fase di sviluppo ontogenetico (che include naturalmente anche la fase fetale) non ci sono solo in atto le variazioni esistenti tra le memorie genetiche ma anche quelle derivanti dalle memorie epigenetiche, che nei gemelli omozigoti sono molto alte (sono infatti chiamate dagli esperti “supersimili”).

Assumendo quindi come esclusivamente “genetica” la parte costante dell’invarianza tra i due gruppi di gemelli, ne deriva un errore metodologico dovuto al fatto che suddetta invarianza è in realtà il risultato della somma della memoria del DNA e della memoria epigenetica “supersimile”(nel caso dei gemelli omozigoti).

Tutte le ricerche che hanno condiviso questa errata metodologia per studiare specifici tratti fenotipici (morfologici, psicologici o comportamentali)hanno quindi, finora, parecchio sottostimato le componenti extragenetiche sovrastimando quelle genetiche.

L’effetto quantitativo di questo errore concettuale e metodologico è presumibilmente molto alto considerando sia l’effetto della “supersimilarità” epigenetica dei gemelli omozigoti sia per l’effetto della probabile “supersimilarità” legata alla condivisione del microbiota comune acquisito nel periodo di gestazione.

La correttezza di molte affermazioni conseguenti la metodologia finora usata, quali ad esempio che il 50% della nostra felicità è dovuta al contributo genetico, sono profondamente da rivedere alla luce del paradigma epigenetico e di quello del microbiota.

Viste le conseguenze che tali comunicazioni hanno anche a livello di percezione di controllo e gestione della propria vita (si pensi solo ad esempio agli importanti effetti placebo e nocebo sulla salute e sul benessere individuale) con le notevoli implicazioni in termini di costi sociali e di qualità di vita, è auspicabile integrare queste nuove conoscenze prima possibile sia con interventi mirati ai cittadini che destinati ai professionisti del benessere psicofisico.

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Medical News Psicologia

I recenti studi relativi il microbiota umano e l’epigenetica sostengono il ruolo della mente come complesso sistema integrato di gestione delle teleonomie dell’olobionte costituito dalle cellule umane e dai molti microorganismi che colonizzano il nostro organismo.


English abstract 

The epigenetic paradigm and the so-called “microbiota revolution” implicitly converge and support a vision that envisages the human mind as an integrated system that not only seeks to satisfy the bio-psycho-social teleonomies implemented by the DNA of the human species but also contemplates the ecosystem’s teleonomies represented by the set of microorganisms of the microbiota that do not share our DNA and that globally we can consider an holobiontic unit.

Italian abstract 

Il paradigma epigenetico e la cosiddetta “microbiota revolution” implicitamente convergono e supportano una visione che prevede la mente umana come sistema integrato che non solo cerca di soddisfare le teleonomie bio-psico-sociali implementate dal DNA della specie umana ma contemplano anche le teleonomie dell’ecosistema rappresentato dall’insieme di microorganismi del microbiota che non condividono il nostro DNA e che globalmente possiamo considerare un’unità olobiontica.

Autore

Dott. Massimo Agnoletti – Psicologo, Dottore di ricerca esperto di Stress, Psicologia Positiva e Epigenetica. Formatore/consulente aziendale, Presidente PLP-Psicologi Liberi Professionisti-Veneto, Direttore del Centro di Benessere Psicologico, Favaro Veneto (VE).


[dropcap color=”#008185″ font=”0″]L’[/dropcap]organismo umano è costituito da circa 30 mila miliardi di cellule che contengono DNA umano e, secondo stime molto recenti (Sender, Fuchs, & Milo, 2016), in media, un numero circa pari o superiore di un terzo di batteri che, insieme a virus e funghi, compongono quello che viene definito microbiota cioè la massa di circa un kilogrammo di microorganismi che popolano il nostro organismo e che possiedono un contenuto genetico diverso da quello umano.

Sulla “nostra” pelle, nelle mucose della “nostra” bocca e delle vie respiratorie, e soprattutto nell’intestino, questo complesso ecosistema con un DNA diverso dal nostro svolge un ruolo fondamentale ed indispensabile per la nostra salute e la nostra sopravvivenza.

Dalle funzioni digestive a quelle metaboliche o immunitarie, il microbiota è essenziale per il funzionamento del nostro organismo e possiede un microbioma, ovvero l’informazione genetica totale contenuta dai suoi microorganismi, stimata essere circa 100 volte più grande del genoma umano.

Diversamente da quanto creduto nel passato è dunque lecito domandarsi se, quando parliamo del “nostro” organismo, ci riferiamo esclusivamente all’insieme delle cellule che condividono il DNA della specie umana trasmesso dai nostri genitori o sia più corretto considerare con questo termine anche il complesso ecosistema che comprende tutte le cellule con un DNA “extra” umano che ci permettono di sopravvivere e prosperare.

Già in passato, anche prima di quella che viene comunemente definita “microbiota revolution” per l’enorme impatto su molti paradigmi fondamentali delle scienze biomediche, alcuni biologi evoluzionisti e microbiologi avevano sentito l’esigenza di coniare il termine, “olobionte”, per descrivere un organismo vivente caratterizzato dalla convivenza simbiotica di organismi che non condividono lo stesso DNA.

La nota biologa Lynn Margulis, che propose negli anni 60 del secolo scorso la teoria dell’endosimbiosi in riferimento soprattutto a strutture biologiche intracellulari (si veda ad esempio il ruolo dei mitocondri), è stata forse la maggiore sostenitrice del concetto di olobionte.

Questa idea è caratterizzata dagli aspetti simbiotici di strutture biologiche di varia natura che, pur condividendo una prossimità spaziale e funzionale, non possiedono lo stesso DNA e possiedono una propria autonomia cellulare (non si trovano cioè all’interno della stessa cellula come nel caso dell’endosimbiosi).

Ogni organismo eucariote (quindi caratterizzato da più cellule che condividono il medesimo DNA concentrato e separato in una struttura chiamata nucleo cellulare)del regno animale, vegetale o fungino vive in simbiosi con microorganismi appartenenti agli altri due regni biologici (batteri e archaea) ma fino alla formalizzazione della “microbiota revolution” abbiamo fatto fatica a comprendere concettualmente la molteplicità di implicazioni che le dinamiche simbioti che comportano soprattutto nel contesto dell’organismo umano.

L’epigenetica e gli studi sul microbiotasupportano il concetto di mente quale unità integrata dell'olobionte umano-microbiota - img1Sia, ad esempio, la produzione di molecole biologiche quali la serotonina e la dopamina, che la funzione di elaborazione ed assorbimento degli alimenti che assumiamo, che il ruolo fondamentale di apprendimento nei confronti del nostro sistema immunitario, definiscono il microbiota quale protagonista finora grandemente sottostimato dalle scienze biomediche relativamente l’eziologia di molte problematiche di natura sia organica (si veda ad esempio la celiachia, l’obesità o la colite ulcerosa) che psicologica (per esempio l’ansia, la depressione e molte psicopatologie quali l’autismo, la schizofrenia, etc.) (Caio et al., 2019; Cheung et al., 2019; Kelly et al. 2016; Li & Zhou, 2016; Sharon et al., 2019; Foster &McVey Neufeld; 2013; Garrett et al. 2007; Mangiola et al., 2016; Rodrigues-Amorim et al., 2018; Simpson et al., 2021).

Grazie alle ricerche sul microbiota sappiamo ad esempio che, soprattutto i primi anni di vita dell’organismo umano attraverso esperienze quali il parto, l’allattamento, la presenza di altri esseri viventi (per esempio animali domestici), l’assunzione o meno di antibiotici, la tipologia di stress psicosociale percepito, etc. (Koenig et al., 2011; Ottman et al., 2012).

I primi anni di vita sono fondamentali per la definizione del microbiota ma questo non significa che la sua composizione non cambi nel tempo e che non possa essere influenzata da molteplici fattori che hanno un impatto globale sulla salute e la qualità di vita della persona.

Le conoscenze sul microbiota stanno cambiando i paradigmi sia delle scienze biomediche che di quelle psicologiche (Agnoletti, 2021).

Alla luce dei dati acquisiti recentemente in questo settore possiamo affermare che, ad esempio, molti modelli di patologie o disturbi che finora avevamo considerato non trasmissibili in realtà possono esserlo (vedi ricerche sul trapianto di microbiota relative l’ansia, la depressione, l’obesità, ecc.) fornendoci anche nuove potenzialità terapeutiche.

A titolo d’esempio pensiamo a come diversamente potrebbe essere considerata da un professionista, come uno psicologo od un medico, una persona che soffre di stati d’ansia o di depressione malgrado affermi di aver vissuto una vita percepita dalla persona stessa come serena e tranquilla e comunque priva di episodi particolarmente stressanti.

Le scienze del microbiota ci forniscono una possibilità interpretativa aggiuntiva molto interessante da approfondire che esula dalle varie forme di riduzionismo e di determinismo rappresentabili, ad esempio, dall’improduttiva ricerca di inesistenti traumi infantili “negati” o dalla semplicistica spiegazione in termini di squilibri chimici.

A questa nuova visione più ampia e complessa del funzionamento globale del nostro organismo si aggiunge il moderno paradigma dell’epigenetica caratterizzato dallo studio dei fattori che determinano l’espressione selettiva del contenuto genetico.

L’epigenetica e gli studi sul microbiotasupportano il concetto di mente quale unità integrata dell'olobionte umano-microbiota - img2

Questo paradigma propone un nuovo concetto relativo il rapporto Self-Ambiente profondamente diverso rispetto quello precedente focalizzato sul contenuto del DNA (Agnoletti,2020a) restituendo un ruolo ugualmente fondamentale a molti aspetti non genetici inclusa la psicologia (Agnoletti, 2020b).

In una prospettiva epigenetica lo studio del microbiota può assumere un significato nuovo dovei rapporti simbiotici tra i microorganismi di questo ecosistema e le cellule umane acquistano un significato aggiuntivo e dove alla psicologia dell’organismo può essere attribuito il ruolo fondamentale di complesso sistema di gestione integrata dell’olobionte umano/microbioma (non solo funzionale esclusivamente alla teleonomia del DNA umano).

L’epigenetica e gli studi sul microbiotasupportano il concetto di mente quale unità integrata dell'olobionte umano-microbiota - img3Il paradigma dell’epigenetica ha ormai rivoluzionato, il cosiddetto “dogma centrale” della biologia molecolare, adottato dalla maggioranza degli accademici e operatori del settore biomedico e psicologico da più di cinquanta anni dimostrando che l’informazione biologica non fluisce esclusivamente e unidirezionalmente, dal genotipo (rappresentato dal DNA) al fenotipo (rappresentato dagli aminoacidi, i “mattoncini” fondamentali del nostro organismo) ma include anche la direzione opposta attraverso l’azione di vari meccanismi che selezionano attivamente quali porzioni di DNA “esprimere” in molecole fisicamente e chimicamente attive e quali invece “silenziare” (rendendole virtualmente assenti in termini di molecole biologicamente attive nell’organismo).

Per diversi decenni il mainstream accademico biomedico ha sostenuto il dogma centrale della biologia e, anche se molti studiosi non appoggiarono l’idea di un DNA “impermeabile” alle informazioni biologiche provenienti dall’ambiente, finora generalmente si è largamente assunto che la maggior parte delle scelte comportamentali che compiamo quotidianamente sono finalizzate ad ottimizzare gli scopi teleonomici di quello che consideriamo il “nostro” self biologico rappresentato dal nostro DNA.

Questo scenario concettuale ha implicitamente prodotto in passato concezioni biologiche e psicologiche della persona umana coerenti con queste radici epistemologiche basate sulla suddivisione tra un Self (sostanziato dal DNA della specie umana) e un Non-Self (il cosiddetto “ambiente”), rappresentato da tutto ciò che non è informazione genetica umana.

Chiaramente questa visione ipersemplificata e gene-centrica non è più sostenibile alla luce delle molteplici funzioni fondamentali ormai riconosciute del microbiota.

Nella pratica clinica, per varie categorie di professionisti, quali ad esempio medici, psicologi, biologi, etc. è spesso stata evidente l’esigenza di trattare l’organismo umano (e non solo) quale entità integrata, almeno in parte autonoma rispetto la sola memoria genetica, ma questo aspetto è stato quasi sempre riconosciuto come concettualmente incoerente con il paradigma largamente condiviso dalla comunità accademica che sosteneva pienamente il dogma centrale della biologia.

Comportamenti quali ad esempio il celibato o il fatto di dedicare la propria vita a teleonomie diverse da quella strettamente biologica (si pensi all’arte, al supporto sociale, etc.) spesso sono quindi state viste da una parte come comportamenti tipicamente umani dall’atra come difficilmente contestualizzabili nel paradigma gene-centrico (se non talvolta addirittura considerati come aberrazioni semi-patologiche espresse dalla complessità umana).

La celebre metafora del DNA come software di un computer che dirige la costruzione di un hardware rappresentato dalle molecole attive nel mondo fisico-chimico organico, ed il noto concetto di “gene-egoista” (Richard Dawkins), dove l’informazione genetica aveva come unico scopo quello di massimizzare la replicazione di se stessa, sono state tanto efficaci dal punto di vista comunicativo quanto incoerenti con la realtà complessa descritta dagli studi bio-psico-sociali e recentemente anche dal settore del microbiota.

La recente sovrapposizione concettuale dell’epigenetica e dello studio del microbiota permette di superare il riduzionismo che prevedeva un Self identificato dal DNA umano ed un “non Self” che corrispondeva a tutto ciò che non si trovava nel contenuto informativo dei geni.

Con l’epigenetica, il Self non ha più una sua collocazione spaziale così ben definita e discriminabile mentre con la “microbiota revolution” si afferma l’importanza vitale degli altri microorganismi che coabitano lo stesso contesto fisico.

L’epigenetica e gli studi sul microbiotasupportano il concetto di mente quale unità integrata dell'olobionte umano-microbiota - img5In questo panorama più complesso si perde la definizione dei confini precisi di un Self/non Self così come si perde il concetto netto di ambiente interno ed esterno dal momento che alcuni confini fisici che siamo abituati a considerare come “interni” al nostro organismo sono invece aree “esterne” rispetto alcuni nostri commensali (si pensi ai batteri intestinali ad esempio).

Considerando quanto già sappiamo sull’ecosistema che chiamiamo microbiota all’interno del paradigma epigenetico è possibile quindi comprendere come il comportamento umano e la sua fitness sia il risultato di una continua negoziazione tra le esigenze del genotipo umano e quello delle migliaia di specie che colonizzano il nostro corpo che si riflette nella complessità delle nostre spinte motivazionali e delle scelte che compiamo quotidianamente.

In questo contesto, la Psicologia Epigenetica, ossia lo studio scientifico dell’influenza dei fattori psicologici sui processi epigenetici dell’organismo (Agnoletti, 2018) rappresenta una nuova sfida concettuale per il fatto che comprende anche l’impatto che possiede sulla memoria epigenetica del microbiota funzionale alle varie teleonomie dell’organismo umano (biologica, psicologica e socio-culturale).

Abbiamo visto come la stessa nozione di “self” (cosa consideriamo e percepiamo come “nostro” nel senso di legato alla nostra identità) e cosa invece giudichiamo essere “altro” rispetto a noi, assumeun nuovo significato nello scenario appena descritto caratterizzato dal paradigma epigenetico (Agnoletti, 2020) soprattutto contestualizzato all’interno di un organismo che riconosce l’importanza di un ecosistema come il microbiota (Agnoletti, 2021).

Lo studio del microbiota è solo recente ma già così rappresenta un profondo rinnovamento dei paradigmi finora considerati dalle scienze psicologiche e biomediche per le molteplici implicazioni relative la salute ed il benessere umano.

Le teleonomie dell’organismo olobiontico non sono quindi più riconducibili né esclusivamente al DNA umano né a quello esclusivamente riconducibile a quello del microbiota, ma ad un dialogo in cui la mente, e quindi le scienze psicologiche, (ri)acquisiscono un valore ed un ruolo più importante rispetto al recente passato proprio perché solo attraverso la modifica della nostra stessa complessità psicologica possiamo ambire a migliorare il nostro organismo in modo intenzionale e cumulativo.

Le recenti scoperte relative il microbiota e la loro divulgazione sono un esempio molto attuale e concreto di come la consapevolezza derivante dalle conoscenze scientifiche culturali che stiamo accumulando nel tempo possono modificare i nostri stili di vita, la nostra longevità, il nostro benessere psicofisico.

L’epigenetica e gli studi sul microbiotasupportano il concetto di mente quale unità integrata dell'olobionte umano-microbiota - img4Il ruolo della mente in questo processo cumulativo ed intenzionale è assolutamente unico e prioritario.

Si può, quindi, affermare che la specie umana rappresenta la specie animale dove la componente epigenetica è la più complessa perché include tra l’altro anche memorie extra-somatiche simboliche oltre al contributo di memorie extra-genetiche umane.

Solo l’atto di consapevolezza umana può promuovere un cambiamento intenzionale operante sulle varie memorie (genetiche, epigenetiche, psicologiche, culturali, umane e non) che compongono sia l’organismo che l’ambiente nel quale interagisce il nostro olobionte.

L’Homo Sapiens è infatti, a mio avviso, l’unica specie animale conosciuta che, attraverso la motivazione può scegliere di selezionare consapevolmente le proprie esperienze in funzione di modificare la “propria” memoria epigenetica (intesa relativamente il DNA umano) insieme a quella dei propri ospiti (intesa relativamente il microbiota) per perseguire un migliore benessere psicofisico globale.

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Medical News Psicologia

È possibile ipotizzare la connessione esistente tra specifici Profili Temporali e specifiche attivazioni del sistema dopaminergico della ricompensa così importante per la motivazione, le decisioni e le varie implicazioni per la nostra salute ed il nostro benessere.


English abstract 

The hypothesis proposed by us in this article is about the connection of two sectors that drive our behaviors: Time Perspective and the Dopaminergic Reward System.

Time Perspective is aninnovative sector of scientific psychology that studies how each of us relates to time. The neural activation of the Dopaminergic Reward System is a part of our brain very related to our motivation to pursue goals and generate expectations about them.

Our hypothesisproposes that specific Time Perspective configurations (called Time Profiles) correspond to specific dopaminergic Reward System patterns. Many studies in the literature converge on this hypothesis, although, none so far have empirically verified this hypothesis.

Currently, the bio-psycho-social model predicts that there is a massive integration between the biological, mental, and socio-cultural aspects that reflect the great complexity and heterogeneity of human behaviors.

The purpose of this article is to explore the possibility that solid correlation now identified concerning the specific Time Perspectives (TP) that each of us possesses, has peculiar neural, endocrine, and immune influences that can be grasped also by a specific Dopaminergic Reward System(DRS).

Italian abstract 

L’ipotesi proposta riguarda la connessione tra due settori che guidano i nostri comportamenti: la Prospettiva Temporale ed il sistema dopaminergico della ricompensa.

La Prospettiva Temporale è un settore innovativo della psicologia scientifica che studia il modo in cui ognuno di noi si relaziona nei confronti del tempo. Il sistema dopaminergico della ricompensa è una parte del cervello particolarmente connessa con la nostra motivazione, il perseguire obiettivi desiderati e generare aspettative su di essi.

La nostra ipotesi propone che specifiche configurazioni relative la Prospettiva Temporale (chiamate Profili Temporali), corrispondano a specifici pattern di attivazione del sistema dopaminergico della ricompensa.

Studi in letteratura convergono con questa tesi sebbene nessuno, finora, l’abbia verificata empiricamente.

Attualmente, il modello bio-psico-sociale prevede una massiccia integrazione tra gli aspetti biologici, mentali e socio-culturali che riflettono la grande complessità ed eterogeneità dei comportamenti umani.

Con questo lavoro intendiamo esplorare la possibilità che la solida correlazione già identificata, riguardante la specifica Prospettiva Temporale (TP) che ciascuno di noi possiede, abbia peculiari influenze neurali, endocrine e immunitarie e che possono essere colte anche da uno specifico funzionamento del Sistema Dopaminergico della Ricompensa (SDR).

Autore

Dott. Massimo Agnoletti – Psicologo, Dottore di ricerca Esperto di Stress, Psicologia Positiva e Epigenetica, Formatore/consulente aziendale, Presidente PLP-Psicologi Liberi Professionisti-Veneto, Direttore del Centro di Benessere Psicologico, Favaro Veneto (VE).

Dott. Philip G. Zimbardo – Professore emerito all’Università di Stanford. Fondatore del settore della psicologia scientifica chiamato Prospettiva Temporale.


[dropcap color=”#008185″ font=”0″]L'[/dropcap]approccio psicologico chiamato Prospettiva Temporale studia la relazione psicologica che un individuo ha nei confronti delle dimensioni temporali vissute nel presente, rispetto agli eventi passati ed alle aspettative che ha del suo futuro (Stolarski et al., 2014; Zimbardo&Boyd, 2008). Ognuno di noi pensa alle esperienze passate, presenti e future, ma è soggettiva la configurazione relativa a “quanto spesso” e “in che modo” investiamo psicologicamente, nei confronti di queste specifiche dimensioni temporali, le energie.

Zimbardo, dopo decenni di ricerca scientifica, ha sviluppato un questionario specifico, lo ZTPI (Zimbardo Time Perspective Inventory), per misurare il peculiare rapporto che ogni singolo soggetto ha con il tempo (chiamato anche Profilo Temporale).

Ogni Profilo Temporale è definito dalla particolare configurazione di sei dimensioni temporali che si sono dimostrate significative nel riconoscere gli specifici stili cognitivo-emotivi e motivazionali legati alla personale costruzione del tempo.

Due dimensioni temporali sono legate alle esperienze passate negative e positive (chiamate rispettivamente il “Passato Negativo” e il “Passato Positivo”), due riguardano il presente (il “Presente Fatalistico” legato a quanto ci sentiamo protagonisti attivi degli eventi significativi che viviamo, e il “Presente Edonistico” che misura la tendenza nel ricercare attivamente le esperienze piacevoli ed evitare quelle spiacevoli) e, infine, la dimensione temporale del “Futuro” (l’insieme delle aspettative sui progetti e gli obiettivi che perseguiamo).

Ai fini di questo lavoro, è utile ricordare che, ad esempio, il profilo temporale caratterizzato da un valore significativamente elevato nella dimensione del Futuro è correlato positivamente sia alla pianificazione che al prevedere le conseguenze possibili delle scelte e delle decisioni effettuate.

Ciò significa che spesso queste persone tendono a concentrarsi sulle gratificazioni a medio e lungo termine invece che a breve termine e quindi sono preferenzialmente caratterizzate da un’attivazione neurale del SDR finalizzata al raggiungimento di obiettivi a medio e lungo termine.

Diversamente, il Profilo Temporale caratterizzato da un valore elevato di Presente Edonistico è correlato a comportamenti più focalizzati sulla percezione temporale attuale dei soggetti, quindi essi sono molto più motivati a raggiungere obiettivi a breve termine rispetto a quelli del medio e lungo termine.
Questa predisposizione decisionale fa si che siano preferenzialmente caratterizzati da un’attivazione neurale del SDR finalizzata al raggiungimento di obiettivi a breve termine.

Può essere interessante notare che la differenza decisionale e comportamentale tra coloro che sono più orientati al Futuro e coloro che sono più focalizzati sul Presente può essere ben rappresentata dal famoso “esperimento dei marshmallows” ideato dallo psicologo dell’università di Stanford Walter Mischel che identificò nell’autocontrollo la capacità di posticipare le gratificazioni e quindi le ricompense alle quali ambiamo (Mischel, 2014).

L’autocontrollo che Mischel ha descritto come fattore fondamentale per ritardare la gratificazione è espresso dal punto di vista neuro-funzionale dall’area cerebrale della corteccia prefrontale che fa parte, a sua volta, della rete neurale del SDR (Baik, 2020).

Il Profilo Temporale caratterizzato da un alto valore di Passato Negativo è invece positivamente correlato a stati depressivi e ruminazioni (pensieri emotivamente negativi ricorrenti rivolti ad eventi del proprio passato) e ciò significa che queste persone sono caratterizzate da un basso livello motivazionale generale che denota un basso livello di attivazione neurale del SDR.
Ogni Profilo Temporale specifico influenza il modo in cui facciamo le scelte, i nostri comportamenti e lo stile di vita che adottiamo, determinando la nostra qualità di vita e il nostro modo caratteristico di gestire lo stress.

Le recenti scoperte della PNEI (approccio psico-neuro-endocrino-immunologico) hanno ora chiarito la natura altamente integrata e interconnessa del nostro organismo in cui gli aspetti biologici influenzano quelli mentali tanto quanto il dominio psicologico può modificare la natura di quello più puramente biologico(Agnoletti, 2017, Bottaccioli & Bottacioli, 2017; Conklin et al., 2015; Epel et al., 2004).

In questo senso, sono già stati evidenziati in letteratura i collegamenti della Prospettiva Temporale con le numerose implicazioni psicofisiologiche esistenti (Agnoletti, 2016a; Agnoletti 2016b; Stolarski et al., 2014).

In questo contesto altamente integrato, è interessante notare il ruolo fondamentale del Sistema Dopaminergico della Ricompensa nel guidare i nostri comportamenti e le nostre scelte di vita quotidiane.
Il SDR è stato a lungo frainteso, anche a livello accademico, perché spesso è stato confuso con la sensazione di piacere stessa (connotata quindi nel “qui ed ora” presente).

Questo bias ha implicato che l’attivazione neurale SDR fosse erroneamente associata unicamente alle esperienze edonistiche stesse, ma recenti ricerche mostrano invece che il vero ruolo di SDR è molto più complesso e può essere rappresentato da un sistema di apprendimento predittivo volto a raggiungere obiettivi significativi che perseguiamo, anche di natura non edonistica (Agnoletti, 2019a).

Il funzionamento del DRS varia a seconda delle esperienze percepite dal sistema nervoso centrale (inteso anche come esposizione a molecole endogene che ne influenzano il comportamento come le citochine proinfiammatorie) attraverso processi neuro-plastici consentiti dalle dinamiche epigenetiche che ne ri-modellano continuamente l’architettura neurale (Agnoletti, 2019b; Klankeret al., 2013; Kobayashi&Hsu, 2019; Treadway, Cooper & Miller, 2019).

Questi processi neuro-plastici estremamente dipendenti dal tipo di esperienze che viviamo sono la chiave per spiegare l’enorme eterogeneità comportamentale umana sia tra gli individui che durante il corso ontogenetico della vita di una persona.

Le reti neurali coinvolte nel SDR realizzano un apprendimento associativo tra l’aspettativa ed il raggiungimento dello scopo perseguito (non necessariamente correlato al piacere edonistico), modificando epigeneticamente i neuroni che includono i recettori della dopamina nella loro struttura cellulare.

Da un punto di vista esperienziale/fenomenologica, l’attivazione del SDR è più connessa con la sensazione percepita di controllo (derivante dalla corrispondenza tra l’attesa e l’obiettivo raggiunto) che con quella di puro piacere sperimentato nel “qui ed ora”, caratteristica del momento in cui vieneeffettivamente raggiunto lo scopo stesso (Agnoletti, 2019a; Salpolsky, 2017).

Recenti esperimenti scientifici ci dimostrano, infatti, che è possibile essere disposti a rinunciare ad una ricompensa edonistica (che attiverebbe il percorso neuroanatomico chiamato “like”) per ottenere preventivamente informazioni sulla ricompensa stessa (Bromberg-Martin &Hikosaka, 2009), o per conoscere informazioni relative ipotetici scenari futuri (Niv& Chan, 2011), o per soddisfare la curiosità di aver ottenuto informazioni anche apparentemente di scarsa utilità immediata (Kobayashi&Hsu, 2019).

Pertanto, diversamente da quanto sostenuto per molti anni, l’attivazione del SDR non è peculiare solo dei comportamenti edonistici legati a qualche forma di dipendenza patologica (si pensi, ad esempio, al consumo di alcol o di sostanze psicoattive o di abuso nel consumo di cibo “comfort food”, etc.) ma anche di quelli che promuovono buone e sane abitudini per la nostra salute (si pensi ad esempio alla pratica di una corretta attività motoria, una sana alimentazione, le esperienze di Flow, etc.) (Agnoletti, 2019a).

I meccanismi neurali che svolgono funzioni motivazionali relativela ricerca attiva della ricompensa e quelli relativi al piacere conseguente il raggiungimento della ricompensa stessa sono diversi (Berridge, 2004; Berridge, 2007; Berridge&Aldridge, 2008; Robinson et al., 2016) anche se possono essere molto legati da un punto di vista esperienziale se il contesto temporale di riferimento è molto limitato.

Quando, ad esempio, siamo coinvolti in un’attività sessuale, gustiamo il nostro piatto preferito o pratichiamo la nostra attività di Flow prediletta, nel nostro cervello si verifica un rilascio massiccio e istantaneo di dopamina, precedentemente prodotta nel tronco cerebrale, nel tratto mesolimbico del SDR che attiva l’area tegmentale ventrale (VTA), il nucleo accumbens ed altre parti del network dopaminergico come lo striato dorsale, l’amigdala e la corteccia prefrontale.

Più precisamente, è attualmente accettato che il tratto mesolimbico del SDR, caratterizzato dal dare maggiore rilevanza alla gratificazione immediata legata allo stimolo condizionato presente nel “qui e ora”, scambi continuamente segnali neurali con il sistema esecutivo espresso dalla corteccia prefrontale (PFC), responsabile di comportamenti complessi come la risoluzione dei problemi, la pianificazione, le scelte e le decisioni che coinvolgono ipotetici scenari futuri.
In alcune teorie è presente anche una terza parte, rappresentata dall’insula, che avrebbe la funzione di mediazione tra i due principali sistemi del SDR appena citati.

Le continue interazioni funzionali tra questi due sistemi neurali (tratto mesolimbico e la corteccia prefrontale) sono influenzate dalle nostre esperienze le quali determinano cambiamenti epigenetici neurali nel nostro SDR.
Considerando globalmente quanto finora descritto, sia per quanto riguarda il contesto psicologico che per quello più fisiologico, possiamo avanzare un’ipotesi riguardante le implicazioni della Prospettiva Temporale sull’attivazione neurale del Sistema Dopaminergico della Ricompensa.

Più specificamente, possiamo avanzare l’ipotesi che se ogni Profilo Temporale è caratterizzato da una specifica configurazione psico-neuro-endocrino-immunologica allora, a parità di altre condizioni, ciò si potrebbe riflettere in una specifica e prevedibile attivazione neurale del SDR.

Per comprendere più facilmente la connessione proposta dalla nostra ipotesi, ricordiamo qui che le persone focalizzate sul Futuro nel contesto di Prospettiva Temporale sono più inclini a ritardare la gratificazione al fine di ottenere i loro obiettivi a medio/lungo termine, il che significa che la loro rete neurale SDR è più attivanel raggiungimento di obiettivi che non si collocano nel momento presente del “qui e ora”.

La rete neurale SDR delle persone orientate al Futuro dovrebbe essere caratterizzata da un settaggioneuro-funzionale che predilige obiettivi di medio/lungo termine, ciò significa che, all’interno della rete SDR, la corteccia prefrontale ed il tratto mesolimbico sono entrambi frequentemente attivi da un punto di vista neurale.
Questa prospettiva è coerente con almeno due fonti informative indipendenti.

La prima è che dai dati statistici raccolti in più di trent’anni di ricerca sappiamo che le persone orientate al Futuro sono più positivamente correlate con un alto livello di autocontrollo ed un basso livello di impulsività (Zimbardo&Boyd, 2008).

La seconda fonte di informazioni è rappresentata dai dati convergentile neuroscienze sociali, cognitive ed emotiveche rivelano che l’interazione tra la corteccia prefrontale e l’elaborazione della ricompensa sottocorticale è cruciale per l’autoregolazione (Kelley et al., 2015; Berkman, 2017; Wagner e Heatherton, 2017).
Numerosi studi hanno dimostrato che un efficace autoregolazione consiste in un controllo del tipo “top-down” espresso dalla corteccia prefrontale sulle regioni di ricompensa sottocorticali coinvolte (Dambacher et al., 2014; Lopez et al., 2017).

Al contrario, il fallimento dell’autoregolazione si verifica quando il controllo “top-down” realizzato dalla corteccia prefrontale sulle aree di ricompensa sottocorticali è scarso e/o comunque sbilanciato rispetto alle regioni neurali sottocorticali del SDR (Lopez et al., 2014; Meyer& Bucci, 2016).

Diversamente e coerentemente con la nostra ipotesi, il Profilo Temporale caratterizzato da un’elevata dimensione temporale di Presente Edonistico, quindi correlato a comportamenti finalizzati ad obiettivi più rivolti al breve termine, dovrebbe essere caratterizzato da una rete neurale SDR maggiormente attivata per il raggiungimento di obiettivi focalizzati sul “qui e ora” quindi sul momento presente.

La rete neurale SDR delle persone focalizzate nel Presente Edonistico dovrebbe essere caratterizzata da un funzionamento per default che promuove maggiormente obiettivi a breve termine pertanto, all’interno della rete SDR, la corteccia prefrontale dovrebbe essere meno attiva in assoluto e/o meno dominante rispetto alle regioni sottocorticali (tratto mesolimbico).

Coerentemente con questa previsione sappiamo che le persone orientate al Presente Edonistico sono più positivamente correlate con un basso livello di autocontrollo, un alto livello di impulsività e di possibile sviluppo di dipendenze negative (Zimbardo&Boyd, 2008; Kelly, Zimbardo&Boyd, 1999) e che, nel momento in cui raggiungono la ricompensa, gli individui patologicamente dipendenti da sostanze hanno mostrato una maggiore attivazione delle regioni di ricompensa sottocorticali (Luijten et al., 2017).

Inoltre, sempre secondo la nostra ipotesi, le persone focalizzate sul Passato Negativo sono positivamente correlate con i sintomi della depressione (Lefèvre et al., 2019, Zimbardo&Boyd, 2008) che a loro volta sono correlati con la disfunzione del Sistema Dopaminergico della Ricompensa (Martin-Soelch, 2009; Schlaepfer et al., 2014; Naranjo et al., 2010).

I sintomi della depressione sono connotati da una diminuzione dell’esperienza di piacere o dell’interesse per attività precedentemente apprezzate (si pensi ad esempioall’anedonia) come il lavoro o gli hobby, e sono accompagnati da una diminuzione generaledella motivazionemolto connessa al funzionamento ed all’attivazione neurale del SDR.
Quindi, sintetizzando, la nostra ipotesi consiste nel sottolineare il possibile legame tra:

• persone orientate al Futuro ed il funzionamento del SDR caratterizzato da un’alta attivazione neurale di default tendente a perseguire obiettivi di medio/lungo termine con un’alta attivazione assoluta e/o relativa della corteccia prefrontale rispetto il tratto mesolimbico,

• persone focalizzate sul Presente Edonistico ed il funzionamento del SDR caratterizzato da un’alta attivazione neurale di default tendente a perseguire obiettivi di breve termine con una bassa attivazione assoluta e/o relativa della corteccia prefrontale rispetto il tratto mesolimbico.

• persone orientate al Passat Negativo con una bassa attivazione neurale generale del SDR.
Potrebbe essere interessante per un futuro lavoro l’esplorazione delle possibili implicazioni teoriche che la Balanced Time Perspective (Prospettiva Temporale Bilanciata), cioè la configurazione ottimale del Profilo Temporale contemplata dall’approccio temporale, ha nell’ambito del Sistema Dopaminergico della Ricompensa, soprattutto relativamente la resilienza, la gestione dello stress e le sue potenziali ricadute immunologiche (Agnoletti, 2021) così cruciali per la nostra salute e qualità della vita.

Ovviamente, anche se esiste già una letteratura convergente con l’ipotesi della connessione tra specifici Profili Temporali e specifiche configurazioni di SDR, il passo successivo è quello di verificare empiricamente l’ipotesi stessa oltre ad affinare i dettagli delle possibili connessioni tra questi due settori della psicologia e della fisiologia.
Speriamo che la nostra proposta teorica qui presentata possa servire da stimolo ad alcuni nostri colleghi nel perseguire le interessanti conferme empiriche richieste.

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Medical News News del giorno Psicologia

La funzione difensiva legata alla sopravvivenza biologica dell’organismo non è che una delle funzioni dello Stress che invece include, nella specie umana, tutti i contesti in cui occorre fornire energia e risorse finalizzate alle teleonomie bio-psico-sociali.


English abstract 

The currently widespread paradigm linked to Stressprovides that, in the context in which a biological threat is perceived(consciously or not) by the organism, there is a specificpsycho-neuro-endocrine activation aimed at resolving the situation to ensure thesurvival of the organism.

This paper aims to criticize this paradigm in whichthe concept of stress is limited exclusively to biological teleonomy, trying tolay the foundations for a new, more complex paradigm of stress where, inaddition to biological purposes, there are also the psychological andsocio-cultural ones characteristics of the human species.

Italian abstract 

Il paradigma attualmente diffuso legato allo Stress prevede che, nel contesto in cui viene percepita una minaccia biologica (coscientemente o meno) dall’organismo, vi sia una specifica attivazione psico-neuro-endocrina finalizzata a risolvere la situazione per garantire la sopravvivenza dell’organismo stesso. Il presente scritto ha come obiettivo la critica di questo paradigma in cui il concetto di stress viene limitato in via esclusiva alla teleonomia biologica cercando di porre le basi per un nuovo paradigma più complesso di stress dove, oltre alle finalità biologiche, trovano posto anche quelle psicologiche e socio-culturali caratteristiche della specie umana.

Autore

Dott. Massimo Agnoletti – Psicologo, Dottore di ricerca esperto di Stress, Psicologia Positiva e Epigenetica. Formatore/consulente aziendale, Presidente PLP-Psicologi Liberi Professionisti-Veneto, Direttore del Centro di Benessere Psicologico, Favaro Veneto (VE).


[dropcap color=”#008185″ font=”0″]A[/dropcap]ttualmente il modello classico di stress condiviso all’interno della comunità scientifica è quello che prevede, anche nella specie umana, l’attivazione di una specifica configurazione psico-neuro-endocrina per risolvere una situazione potenzialmente pericolosa per l’organismo.

Lo scienziato Cannon definì lo stress inizialmente nei termini di reazione fisiologica dell’organismo di fronte ad una minaccia percepita.

meccanismo dello stress - img1

Questa reazione prevedeva la percezione di uno scostamento rispetto il precedente stato fisiologico di equilibrio ed il conseguente tentativo di ripristinarlo attraverso una caratteristica attivazione fisiologica condivisa da varie specie animali.

Vari autori tra i quali Selye, Lazarus, McEwen, Chrousos, Sapolsky, in quasi un secolo di ricerche hanno arricchito di dettagli lo stesso concetto di stress (che deriva dalla parola “stringere”, “premere”) sottolineandone alcuni aspetti più di altri (per esempio l’aspetto di a-specificità rispetto l’agente stressante di alcune caratteristiche neuroendocrine attivate come risposta, la natura delle molecole implicate, etc.).

Probabilmente non c’è stato finora uno sforzo concettuale altrettanto importante per sintetizzarne il suo ruolo esplicativo spettacolarmente complesso presente nella specie umana e questo è uno dei motivi per cui è anche oggigiorno così difficile contestualizzarlo, misurarlo (estrapolando valori oggettivi) e valutarlo (positivo o negativo) nelle persone (Agnoletti, 2019; Agnoletti, 2020).

meccanismo dello stress - img2

Nella visione tradizionale, il meccanismo adattativo dello stress che sottende la particolare attivazione psico-neuro-endocrina ha una finalità puramente biologica e per questo motivo le definizioni di eustress (stress positivo) e distress (stress negativo) trovano il loro spazio logico unicamente in funzione del risultato ottenuto in riferimento alla fitness biologica dell’organismo.

In altri termini, nella versione “standard” o “classica” dello stress, la differenza tra eustress e distress viene definita in base all’efficacia nel garantire la sopravvivenza stessa dell’organismo.

Se la sopravvivenza viene garantita ristabilendo l’equilibrio precedente l’esposizione alla minaccia (di natura batterica, virale o, ad esempio, da parte di un possibile predatore) si parlerà di stress positivo, se invece la reazione comporta una diminuzione della fitness biologica (la morte, nel caso estremo) si parlerà di stress negativo.

Il paradigma standard dello stress ha naturalmente la sua declinazione “acuta”, se caratterizzata da una particolare intensa ma breve attivazione del sistema nervoso (centrale ed autonomo; rispettivamente con il possibile coinvolgimento di aree come la corteccia prefrontale, l’ippocampo e l’amigdala, e il sistema autonomo simpatico e parasimpatico) e del sistema endocrino (il cosiddetto asse ipotalamo-ipofisi-surrene), o “cronica”, se connotata da una particolare dinamica psico-neuro-endocrino-immunologica prolungata nel tempo (medio o lungo termine).

Faccio notare che in questo concetto standard di stress viene assunta implicitamente una visione puramente quantitativa dello stress nel senso che esso può essere positivo solo nel contesto “acuto” (perché l’attivazione psico-neuro-endocrina ha una durata molto limitata, infatti lo stress cronico è considerato esclusivamente come negativo, distress) e solo all’interno della finalità strettamente biologica legata alla sopravvivenza (Agnoletti, 2020).

Altrettanto interessante è notare che in questa versione dello stress non vi è alcun riferimento significativo o funzionale agli altri livelli di complessità che caratterizzano la specie umana ossia gli aspetti psicologici e socio-culturali.

In altre parole, ad esempio, che un evento stressante sia vissuto emotivamente come estremamente negativo o intensamente positivo non ha nessun rapporto funzionale con l’attribuzione del valore positivo (eustress) e negativo dello stress (distress).

Un evento dove una persona vive uno stress acuto evitando di farsi investire da un’auto generalmente viene vissuto come un intenso spavento (quindi con una connotazione estremamente negativa dal punto di vista emozionale) ma, nel paradigma classico, lo stress è considerato ugualmente come positivo perché tale connotato emotivo è comunque finalizzato a preservare la vita dell’organismo stesso.

Giusto a titolo di esempio, un attacco di panico, caratterizzato da un’attivazione psico-neuro-endocrina paragonabile a quella di uno stress acuto, non si sa bene come contestualizzarlo perché pur essendo connotato da uno stato emotivo particolarmente negativo non è riconducibile ad alcuna priorità biologica legata alla sopravvivenza per l’assenza di una minaccia oggettive presente nel “qui ed ora” del soggetto.

Una conseguenza concreta di questa visione riduzionistica dello stress è che, ad esempio, anche gli operatori sanitari del pronto soccorso non sapendo bene trattare questa tipologia di problematiche, non fanno altro che ristabilire farmacologicamente e solo temporaneamente lo stato psico-neuro-endocrino pre-panico dei pazienti non fornendo generalmente ulteriori indicazioni a coloro che vivono questi eventi particolarmente drammatici e destabilizzanti.

 

Se l’unico livello di analisi dello stress rimane quello strettamente biologico, un attacco di panico non è particolarmente pericoloso o lesivo perché non è connotato da una vera e propria minaccia oggettiva per la sopravvivenza della persona malgrado il livello di benessere psicologico e qualità di vita della persona che ne fa esperienza possa essere notevolmente compromesso.

Contestualizziamo ora, in maniera critica, la visione tradizionale dello stress che ammette in via esclusiva la sua funzione biologica difensiva.

Ormai la letteratura scientifica già disponibile ha ampiamente dimostrato quanto l’aspetto psicologico e sociale possa influenzare la fitness biologica dell’organismo fino a comprometterne anche strutture quali i cromosomi, si veda ad esempio la scienza della Psicologia Epigenetica (Agnoletti, 2018,Epel et al., 2004, Kim et al., 2020), quindi già questa constatazione evidenzia quanto miope sia considerare lo stress solo limitatamente la sua teleonomia biologica immediata.

Riguardo l’orizzonte temporale considerato dalla versione classica dello stress sono infatti convinto che, almeno in parte, il grande successo dell’attuale concetto di stress sia anche dovuto al fatto che ben si sposa con il modello biomedico fortemente focalizzato a risolvere efficacemente problematiche legate alla sopravvivenza (quindi dando la priorità alla teleonomia biologica) soprattutto nel contesto “acuto” del breve termine (pensiamo ai grandi progressi ad esempio del settore traumatologico o dei trapianti) ma molto meno adeguato nel trattare dinamiche di medio/lungo termine (si pensi ad esempio al diabete, l’obesità, etc.).

In sintesi, a mio parere, il fatto che il modello biomedico fosse già precedentemente focalizzato sullo studio della patologia e che fosse molto efficace nel trattare problematiche del breve termine, ha fornito un contesto molto coerente con il paradigma dello stress come meccanismo di difesa biologica favorendone la sua diffusione culturale.

In passato vi è stato un apprezzabile sforzo concettuale soprattutto da parte di Lazarus e Folkman (Lazarus&Folkman, 1984) nel cercare di definire la differenza tra distress ed eustress coinvolgendo la dimensione psicologica (elaborazione cognitiva) a livello di significato attribuito all’evento stressante ma si tratta sempre di una modalità che prevede un’attribuzione che avviene a posteriori rispetto un meccanismo fisiologicamente determinato, fisicamente/chimicamente connotato e che possiede di per se unicamente una funzione esclusivamente biologica.

Il “plus valore” attribuito dall’elaborazione cognitiva proposta da Lazarus e Folkmanha la possibilità di rendere positivo uno stress negativo ma possiede una connotazione limitatamente psicologica quasi indipendente dalle dinamiche fisiologiche caratteristiche dello stress.

Non si tratta quindi di una natura diversa di stress rispetto quella condivisa all’interno del modello biomedico per questo motivo l’eustress proposto da Lazarus assume più il valore di “riduzione” delle implicazioni negative dello stress cronico che di proposta di un modello alternativo di stress caratterizzato dal promuovere attivamente la salute ed il benessere psicofisico umano all’interno di un modello integrato bio-psico-sociale.

Già il grande studioso di stress Hans Selye (Selye, 1976) aveva sottolineato il fatto di considerare lo stress come un elemento imprescindibile della vita di molte specie animali (inclusa la specie umana) ma non perché non si può considerare realistico pensare ad una vita priva di stress negativo (quindi di potenziali pericoli) ma per il fatto che probabilmente considerava indispensabile per la vita la sua componente positiva (il cosiddetto stress positivo o eustress).

Personalmente sospetto che dopo aver studiato approfonditamente e per molti anni il concetto di stress, Selye si fosse accorto che il suo paradigma iniziale, basato sullo studio della reazione fisiologica conseguente l’induzione di stress di natura puramente negativa in animali quali i ratti, avvertisse la necessità concettuale di espandere l’ipotesi originaria inglobando anche altri fenomeni non riconducibili ad una visione focalizzata sulla patologia (vedi sindrome generale di adattamento)ma comprendendo invece anche gli aspetti positivi dello stress.

A mio avviso, purtroppo Selye non riuscì mai precisamente a definire concettualmente questo complesso quadro teorico che incorpora sia gli aspetti positivi che negativi dello stress con la conseguenza che tutt’oggi vi è una grande confusione concettuale, anche a livello accademico (per non parlare di quello applicativo/clinico), riguardo cosa viene considerato stress ed in particolare a cosa ci si riferisce quando si parla di eustress.

meccanismo dello stress - img4

In sintesi ritengo che la versione classica dello stress come meccanismo di difesa biologica sia corretta esclusivamente nel ristretto contesto di riferimento caratterizzato dai seguenti fattori:

  • Esposizione ad una minaccia per la sopravvivenza da parte di agenti biologici (batteri, virus, predatori, etc.) presenti (o potenzialmente presenti) nel “qui ed ora” della persona;
  • Per valutare il significato dello stress (positivo o negativo) si prenda in considerazione esclusivamente il breve termine (immediatezza) e non dinamiche temporali del medio/lungo termine;
  • L’organismo, nel momento in cui attiva la risposta di stress, si trova in una situazione in cui non sta aumentando la propria complessità informazionale(nel caso della specie umana detta complessità riguarda gli aspetti bio-psico-sociali/culturali). Sappiamo da diversi anni che i sistemi biologici sono sistemi informazionali che si modificano nel tempo aumentando la loro complessità(Barbieri, 2003; Chernavskii, 1978; Miller, 1970; Monod, 1970; Morin, 1985; Prigogine, 1976; Volkenstein). Un esempio paradigmatico di questo aumento di complessitàè lo sviluppo ontogenetico di una persona che da una cellula totipotente arriva a costituire un organismo di trilioni di cellule differenziate o, sempre nel caso della specie umana, un processo di apprendimento che per esempio conduce ad imparare una lingua straniera o una nuova attività sportiva.

In seguito a quanto appena affermato la versione classica dello stress come meccanismo di difesa biologica non è adatta a descrivere situazioni che prevedono:

  • L’assenza di una minaccia imminente (o potenzialmente tale) per la sopravvivenza rappresentata da agenti biologici (batteri, virus, predatori, etc.);
  • La valutazione del significato dello stress (positivo o negativo) in considerazione degliaspetti psicologici o socio-culturali;
  • La valutazione del significato dello stress (positivo o negativo) in considerazione di dinamiche temporali di medio/lungo termine;
  • Che l’organismo, nel momento in cui stia attivando la risposta di stress, si trovi in una situazione in cui sta aumentando la propria complessità informazionale (nella specie umana la natura di questa complessità è bio-psico-sociale).

Sebbene le implicazioni di questa nuova prospettiva dello stress siano complesse quanto apparentemente disorientanti e manchi ancora la realizzazione di un modello esaustivo, la critica costruttiva del modello classico dello stress offre potenzialmente una possibilità esplicativa molto maggiore nello spiegare comportamenti caratteristici della specie umana in particolare dove vi è una contrapposizione funzionale tra i diversi aspetti evolutivi bio-psico-sociali (Agnoletti 2004).

In riferimento alle persone, questa visione più complessa di stress prevede che il suo ruolo difensivo non è che una delle declinazioni di questo meccanismo di adattamento evoluzionistico che mobilita energie e risorse finalizzate a soddisfare tutte e tre le teleonomie caratterizzanti la specie umana: quella biologica, quella psicologica e quella socio-culturale in tutte le interazioni logiche tra di esse.

Solo in questo scenario può esserci la possibilità esplicativa di valutare, ad esempio, un comportamento come caratterizzato da stress positivo dal punto di vista psicologico (emotivo-cognitivo) anche in assenza di minacce biologiche ma nel contesto di uno sviluppo di complessità particolarmente intenso (come può essere l’esperienza del Flow) o il ruolo di stress negativo psicologico determinato da una malattia autoimmune che continuamente alimenta uno stato infiammatorio che con il passare del tempo debilita sempre più la disponibilità dopaminergica fondamentale a livello motivazionale.

meccanismo dello stress - img5

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Psicologia

I recenti studi sul sistema neurale dopaminergico della ricompensa dimostrano la connessione esistente tra la sua attivazione ed il comportamento del sistema immunitario anche nel contesto oncologico.

Abstract

Il ruolo del sistema dopaminergico della ricompensa è stato recentemente approfondito, aggiungendo alla sua principale funzione di complessa architettura previsionale di apprendimento anche quella fondamentale di modulazione del sistema immunitario definendo la fitness e la nostra qualità di vita.

Abstract

The role of the dopaminergic reward system has recently been deepened by adding to its main function of a complex predictive architecture of learning goal-directed behaviors, even the fundamental one of a system that modulates the immune system determining fitness and our quality of life.

Autore

Dott. Massimo Agnoletti – Psicologo, Dottore di ricerca Esperto di Stress, Psicologia Positiva e Epigenetica, Formatore/consulente aziendale, Presidente PLP-Psicologi Liberi Professionisti-Veneto, Direttore del Centro di Benessere Psicologico, Favaro Veneto (VE).


[dropcap color=”#008185″ font=”0″]L[/dropcap]a complessa architettura neurale del sistema nervoso centrale, che costituisce il sistema dopaminergico, è centrale per i suoi profondi effetti sulla motivazione (e tutti i comportamenti finalizzati ad uno scopo intenzionalmente definito), e per la profonda influenza che essa possiede nei confronti del funzionamento del nostro sistema immunitario.

Vediamo ora brevemente cosa sapevamo finora sul sistema dopaminergico e cosa è stato scoperto solo recentemente negli ultimi quattro anni permettendo di capire anche la sua funzione fondamentale per il sistema immunitario.

Sappiamo, da quindi anni circa, che il sistema dopaminergico è basilare per l’elaborazione di processi mentali come l’attenzione, l’arousal, il movimento muscolare intenzionalmente guidato, il meccanismo di gratificazione utile per comprende lo sviluppo delle dipendenze patologiche, la sindrome di Parkinson, l’ADHD (disturbo da deficit attentivo)(Björklund & Dunnett, 2007; Björklund & Lindvall, 1984; Klanker et al., 2013; Floresco &Magyar,2006).

Il circuito dopaminergico rappresenta una struttura di apprendimento “esperienza dipendente” che modifica continuamente, attraverso dinamiche epigenetiche, la sua stessa rete neurale, determinando le motivazioni che orientano le scelte comportamentali che esprimiamo.

La dinamica dell’apprendimento espresso dal circuito dopaminergico genera un’associazione tra l’aspettativa ed il premio/gratificazione effettivamente raggiunto modificando epigeneticamente i neuroni che includono nella propria struttura i recettori della dopamina (Agnoletti, 2019a).

L’attivazione del circuito dopaminergico della gratificazione è più connesso con la sensazione di controllo percepito (Agnoletti, 2019a) che esperiamo (derivante dalla consapevolezza della corrispondenza tra aspettativa e stimolo percepito) che con la sensazione vera e propria di piacere edonistico conseguente il raggiungimento di un obiettivo (per esempio nel gustarci il cibo preferito o nel fare l’amore).

Anche dal punto di vista anatomico, i meccanismi neurali che realizzano i comportamenti di motivazione nel ricercare attivamente una ricompensa e quelli che si attivano funzionalmente mentre proviamo piacere in seguito al raggiungimento della ricompensa stessa, sono differenti anche se spesso esperienzialmente sono attivati quasi contemporaneamente (Berridge, 2004; Berridge, 2007; Berridge&Aldridge, 2008; Robinson et al. 2016).

A prova della natura complessa e in parte indipendente del funzionamento del sistema dopaminergico nei confronti dell’esperienza edonistica stessa, vi sono anche gli studi che hanno dimostrato come, in alcuni contesti, l’attivazione del sistema della ricompensa abbia come priorità la soddisfazione di un bisogno legato alla curiosità (un soddisfacimento puramente informativo)a scapito di uno strettamente edonistico (Bromberg-Martin & Hikosaka, 2009; Niv & Chan, 2011; Kobayashi & Hsu, 2019).

Oltre alla funzione strettamente motivazionale e finalizzata al raggiungimento di scopi significativi, il sistema dopaminergico è stato solo recentemente connesso al concetto di benessere ed alla salute psicofisica.

Cito qui in merito questa nuova prospettiva l’ipotesiche un sostenuto grado di attivazione del circuito della ricompensa in risposta ad esperienze positive fosse alla base del benessere e della regolazione adattiva dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (Heller et al., 2013), struttura assolutamente centrale per la nostra fitness.

Altro studio degno di nota che lega i livelli di attivazione del sistema dopaminergico alla salute psicofisica dell’organismo umano è quello dove è emersa una connessione tra le citochine infiammatorie circolanti a livello ematico ed i livelli di dopamina presenti nel cervello con i conseguenti effetti sul funzionamento del sistema dopaminergico e quindi sulla motivazione umana (Treadway, Cooper & Miller, 2019).

È solo però attraverso i due studi, che vedremo qui di seguito, pubblicati negli ultimi quattro anni che si è finalmente compreso e dimostrato quanto il sistema dopaminergico possa determinare l’efficacia del sistema immunitario fornendo anche preziose informazioni relative il meccanismo fisiologico coinvolto.

Nel 2016 i ricercatori del Technion-Israel Institute of Technology hanno pubblicato uno studio (Ben-Shaanan et al., 2016) dove hanno dimostrato come, in seguito all’attivazione del sistema della ricompensa (più precisamente area tegmentale ventrale -VTA), il sistema immunitario (sia innato che adattivo) dei topi era significativamente più efficiente nel combattere un’infezione batterica (Escherichia coli).

Lo stesso gruppo di ricerca, due anni dopo, ha scoperto che incrementando l’attivazione del sistema di ricompensa del cervello, il volume e la massa di due tumori maligni (Lewis lung carcinoma e melanoma) indotti precedentemente sui topolini era significativamente ridotta (del 46% relativamente la massa) dimostrando la maggiore efficacia prodotta sul sistema immunitario dalla struttura neurale dopaminergica (Ben-Shaanan et al., 2018).

In questo studio si è compreso il ruolo fondamentale del sistema dopaminergico nel comunicare con le cellule immunitarie del midollo osseo (Myeloid derived suppressor cells – MDSCs) inducendo quindi una risposta antitumorale molto aggressiva nei confronti delle cellule che compongono le due tipologie di tumori sperimentate.

In passato la relazione tra lo stato emotivo di una persona ed il cancro era stata dimostrata, ma principalmente in relazione a stati emotivi negativi (distress cronico e depressione) e, anche in questi casi, senza l’identificazione di una mappatura fisiologica relativa il meccanismo d’azione implicato.

Chiaramente le ricerche citate del gruppo israeliano aprono la strada a notevoli potenziali scenari clinici e di promozione del benessere psicofisico per le possibilità che offrono nell’influenzare positivamente la salute dell’organismo umano inteso come globalità bio-psico-sociale.

Diversamente da una certa piuttosto diffusa disinformazione (anche a livello accademico)presente anche recentemente che considera il sistema dopaminergico quasi unicamente come promotore di fattori negativi per la salute ed il benessere quali lo sviluppo di dipendenze patologiche (Agnoletti, 2019c), il ruolo di questa complessa architettura neurale sembra essere sempre più complesso e centrale anche in senso positivo per promuovere il benessere psicofisico umano.

La positiva e salubre manipolazione strategica dei circuiti dopaminergici indotta nelle persone rappresenta uno scenario dove il settore della psicologia può contribuire significativamente mettendo a disposizione la grande letteratura scientifica già presente (Agnoletti & Formica, in press; Agnoletti, 2019b) relativa le esperienze emotivamente positive, anche in termini di aspettative, che prevedono un’alta attivazione dopaminergica (il gioco, il Flow, etc.). 

Sebbene molti passi devono ancora essere fatti sia per identificare la completa catena causale attraverso la quale avvengono i risultati dimostrati dagli esperimenti citati sia per traslarli nel contesto umano, rimane il fatto che il significato in termini di potenziale miglioramento della salute ed il benessere umano derivante da queste scoperte è assolutamente molto promettente.

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