Dott.ssa Annamaria Venere
Sociologa Sanitaria,
Criminologa Forense,
Amministratore Unico: AV eventi e formazione, Catania
A volte, gli ignoranti sono quelli che pensano di saperne più di tutti: in parte è vero ed è un fenomeno psicologico, chiamato effetto Dunning-Kruger, che si verifica quando una persona con scarsa competenza in un determinato campo tende a sovrastimare le proprie capacità e a sottovalutare quelle degli altri. Questo fenomeno è stato identificato e descritto per la prima volta dagli psicologi sociali David Dunning e Justin Kruger nel 1999. Secondo gli studiosi, le persone che ne soffrono hanno una percezione distorta della propria competenza e spesso si mostrano eccessivamente sicure delle proprie opinioni, nonostante l’evidente mancanza di conoscenza o abilità. Al contrario, le persone altamente competenti tendono ad avere una maggiore consapevolezza delle proprie lacune e a mostrarsi meno sicure di sé (Kruger & Dunning, 1999). Elementi che finiscono per avere non solo un impatto sul fronte psicologico, ma anche sociale.
La scoperta dell’effetto Dunning-Kruger
Lo studio sull’effetto Dunning-Kruger è nato quasi per caso. Nel 1995 a Pittsburgh, un uomo di 45 anni di nome McArthur Wheeler decise di rapinare due banche nello stesso giorno, senza maschere o travestimenti, nonostante sapesse che le telecamere lo avrebbero ripreso. Dopo poche ore, la polizia lo arrestò incredulo per la sua stupidità. Al momento dell’arresto, egli affermò di essersi cosparso, su suggerimento di un amico, il viso di succo di limone, poiché convinto che questo lo avrebbe reso invisibile.
Prima di recarsi in banca, si era anche scattato una foto con una polaroid, ma aveva fotografato accidentalmente il soffitto, rendendo la propria immagine invisibile e rafforzando la convinzione che il succo di limone lo rendesse invisibile agli occhi degli altri. Non era sotto l’influenza di alcool o droghe, ma lucido e sorpreso di essere stato scoperto. Il professor David Dunning e l’allievo Justin Kruger, entrambi della Cornell University, colpiti da quanto successo, studiarono quindi l’accaduto sotto un profilo scientifico (Grant, 2021). I due psicologi intrapresero uno studio sui test di umorismo, grammatica e ragionamento logico coinvolgendo i propri allievi.
Prima di svolgere i test, i partecipanti espressero il proprio grado di competenza in ognuno dei tre campi. I risultati rivelarono che i partecipanti meno competenti si autovalutavano molto al di sopra delle proprie capacità, mentre i partecipanti più competenti si valutavano leggermente al di sotto. Giunsero così alla conclusione che coloro che hanno meno conoscenza in un campo sono spesso quelli che sopravvalutano le proprie competenze, mentre quelli più esperti sono quelli che sottostimano le proprie abilità. Il fenomeno, come anticipato, è stato chiamato effetto Dunning-Kruger, consistente nell’incapacità di riconoscere la propria incompetenza. Inoltre, i risultati dello studio dimostrarono che le autovalutazioni non veritiere degli incompetenti sono molto difficili da correggere (Dunning & Cruger, 1999).
L’opposto: la sindrome dell’impostore
Nell’esperimento sopra, una situazione opposta caratterizzava invece gli studenti più bravi: erano gli unici ad aver fornito un’autovalutazione, in relazione agli altri, inferiore rispetto al risultato effettivo. Si tratta della sindrome dell’impostore, un fenomeno psicologico in cui una persona, nonostante i suoi successi e le sue competenze, non riesce a sentirsi adeguata e continua a dubitare delle proprie capacità. Le persone che soffrono di questa sindrome attribuiscono i loro successi alla fortuna o a fattori esterni, piuttosto che al loro talento e impegno personale (Dunning & Kruger, 1999).
Inoltre, spesso si sentono come degli “impostori”, convinti di essere stati scelti per un ruolo o un lavoro solo per caso o per errore, e temono di essere scoperti come “falsi”, il ché può portare a sentimenti di ansia, stress e scarsa autostima. Con l’effetto si determina quindi il paradosso per cui chi possiede maggiori competenze sembra essere più insicuro di chi non le possiede (Falchi & Carmignani, 2020).
Che tipo di conseguenze psicosociali?
Le conseguenze di simili effetti sono evidenti innanzitutto sul profilo dell’autostima: chi patisce di un effetto Dunning-Kruger può avere problematiche narcisistiche, se non addirittura di distorsione della realtà e della personalità. L’effetto Dunning-Kruger, così come la sindrome dell’impostore, influiscono cioè sul modo in cui una persona percepisce e gestisce il proprio successo o insuccesso, specie in rapporto agli altri (Grant, 2021).
Nella sindrome dell’impostore, in particolare, le persone vivono con costante ansia e stress, poiché sentono di non essere all’altezza delle aspettative altrui, nonostante abbiano ottenuto risultati di successo in passato. Questo porta a un senso di alienazione, isolamento e a un limitarsi nell’affrontare nuove sfide, nella paura di essere esposti come “imbroglioni”.
L’effetto Dunning-Kruger, d’altra parte, conduce il più delle volte a un eccesso di fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità, nonostante la mancanza di competenze reali. Questa sovrastima delle proprie capacità porta, a sua volta, a commettere decisioni sbagliate, a problemi relazionali e anche a danni concreti.
Ad esempio, un medico che soffre dell’effetto Dunning-Kruger potrebbe non riconoscere la propria inadeguatezza in una particolare area di competenza e, pertanto, mettere a rischio la salute dei propri pazienti. Non solo, a livello sociale, l’effetto DunningKruger porta a una diffusa scarsa valutazione delle competenze altrui, favorendo l’insorgere di conflitti e il mancato riconoscimento del merito di chi ha realmente le competenze necessarie per svolgere un determinato compito, come spesso accade in ambito politico (Dunning & Kruger, 1999; Falchi & Carmignani, 2020).
In entrambi i casi, in definitiva, questi fenomeni influiscono sulle relazioni personali e professionali, sulla salute mentale e fisica e sulla capacità di una persona di raggiungere il successo e la felicità a lungo termine. È importante quindi riconoscere queste problematiche e cercare supporto e aiuto per gestirle e superarle, sebbene si tratti di manifestazioni psicologiche fin troppo recenti, cui andrebbero affiancati più studi approfonditi per capirne l’origine e le conseguenze sociologiche.
Bibliografia
Falchi, A., Carmignani, M. (2020). Effetto Dunning-Kruger: l’asimmetria del giudizio, Carmignani Editrice, Pisa. Grant, A. (2021). Thing Again, Viking, New York.
Kruger, J., Dunning, D. (1999). Unskilled and Unaware of It: How Difficulties in Recognizing One’s Own Incompetence Lead to Inflated Self-Assessments, Journal of Personality and Social Psychology.
Dott. Rodolfo Lisi
Docente di Scienze Motorie
Coreno Ausonio (FR)
“Linee guida” sul comportamento più idoneo se un bambino affetto da scoliosi, ipercifosi o valgismo varismo delle ginocchia, intende praticare il tennis
Ipotesi n. 1: il tennista in erba è affetto da scoliosi
Presentazione dei problemi e potenziali soluzioni
Oggi è martedì. Carlo (nome fittizio a rendere l’esempio), alla 2a e 3a ora, si recherà in palestra perché lo aspetta il docente di educazione fisica. Il collega tiene sotto vigile controllo i movimenti degli allievi e nota che il nostro – visto di dietro e in una fase di ‘riposo attivo’ (corsa leggera, ad esempio) – presenta la caratteristica ‘asimmetria delle spalle’. Cosa fare? Il docente, dopo aver fermato Carletto, comincia ad attivare un dialogo del tutto informale. Porrà quesiti del tipo: «I tuoi genitori sono a conoscenza che hai una spalla più bassa dell’altra? Quale sport stai praticando? Ti affidi a personale qualificato?». Se le risposte si rilevano soddisfacenti, il docente, ricevute le informazioni, terminerà ‘la sua indagine’ raccomandando, però, una visita di controllo dal medico di medicina generale almeno una volta all’anno fino alla pubertà.
Nel caso invece, le risposte siano altre (“il dottore mi ha detto che ho una scoliosi. Non porto il corsetto, però non posso giocare a tennis perché mi può far male”), è necessario un incontro a breve con i genitori di Carlo. A papà e mamma, il collega informato chiarirà che, ad oggi, gli studi su detto argomento sono pochi, e quei pochi scarsamente attendibili (1, 2). Dunque, l’educatore sportivo si limiterà a dare consigli dettati dal buon senso e dalla sua esperienza. Il nuoto agonistico, invece, è dannoso (3, 4, 5). Ancora, il professore consiglierà una visita dal medico di base. Quest’ultimo, eventualmente, invierà il bimbo o la bimba ad un ortopedico specialista nel trattamento delle deformità spinali. Molto probabilmente, al fine di confermare la paventata scoliosi, l’ortopedico prescriverà un’indagine radiografica in toto del soggetto e chiarirà la reale consistenza della patologia scoliotica.
E il tennis?
Nel pomeriggio, Carlo va a giocare a tennis per 2 ore, prima di fare i compiti. La sua attività è amatoriale e non ha ambizioni del tipo “voglio vincere Wimbledon!”. Prendiamo il Carlo che ha informato l’insegnante di essere affetto da scoliosi. Sul campo, il maestro e il preparatore fisico e/o il fisioterapista avranno l’accortezza di alternare palleggi e partite a esercizi mirati per ‘contenere’ la scoliosi. Gli esercizi non possono frenare o, ancor meno, arrestare la patologia, ma possono creare un forte busto muscolare che sostiene la colonna e la rende meno suscettibile a movimenti potenzialmente pericolosi (1, 2). È auspicabile che il Tennis Club disponga di una palestra, anche se la maggior parte degli esercizi possono essere effettuati sul campo (esercizi di compensazione con palla medica, esercizi di potenziamento addominale, esercizi sul materassino). In caso contrario, non c’è da disperarsi.
I summenzionati esercizi (quelli ‘isometrici’, per intenderci) possono essere eseguiti anche a casa. In caso di scoliosi grave, e se il giovane intende praticare il tennis a livello agonistico, il consiglio è quello di sospendere l’attività sportiva (1, 2). Si tratta di sottoporre un “rachide di per sé fragile” a carichi sopportabili da “rachidi normali” (1, 2).
Ipotesi n. 2: il tennista in erba è affetto da ipercifosi
Presentazione dei problemi e potenziali soluzioni
Forniamo una breve dissertazione sulla patologia per meglio comprendere la reale entità del problema che può avere risvolti diversi nel caso si è in presenza di una ipercifosi lieve e non strutturata, o, invece, della più temuta ipercifosi osteocondrosica, cioè strutturata. Nel primo caso, i caratteri fisici, le abitudini e l’esercizio spiegherebbero molti atteggiamenti devianti e/o incongrui. È il caso, appunto, di Carlo che sovrasta in altezza i compagni e che, per essersene fatto un complesso, prova a farsi ‘più piccolo’, incassando il capo e arrotondando le spalle. Analogo è il caso di una ragazzina in piena fase puberale, la quale tenderà a forzare il tronco in un atteggiamento arcuato ed ‘avvolgente’ per mascherare il carattere fisico tipico della donna già matura. Queste tipologie di ipercifosi vengono chiamate ‘paramorfismi’ (risultato di mancato adeguamento muscolare, vizi posturali, scarsa attività motoria). Ben diverso è il secondo caso: Carlo è affetto da una ipercifosi strutturata (‘dismorfismo’).
Tale condizione patologica è il risultato di un’infiammazione dell’osso durante il suo stadio cartilagineo, come nel caso della ‘ipercifosi osteocondrosica’, caratterizzata da deformazione a cuneo di una porzione dei corpi vertebrali (6). In casi severi, il ricorso al corsetto è indispensabile. Ma anche qui la ginnastica, eseguita in modo razionale, può risultare utile. Durante le ore di Educazione Fisica, l’insegnante non dovrebbe avere problemi nel riconoscere in Carlo la presenza di una specie di ‘gobba’ assieme alle spalle anteriorizzate. In questi casi è bene parlare con l’allievo per sapere se i genitori si sono recati dal medico di base e/o dallo specialista ortopedico.
Altro compito del collega di Educazione fisica è quello di sapere se esistono problemi in famiglia, paure inconsce o semplicemente una ‘non accettazione’ del proprio fisico. In questo caso, l’intervento dei docenti e di una psicologa potrebbe realmente essere di aiuto al ragazzo. Si parla, ovviamente, della forma ‘posturale’. In quella strutturale, purtroppo, ricorrere al bustino e praticare una sana e corretta attività fisico-motoria sono le uniche possibilità di intervento conosciute.
Tennis sì o tennis no?
Ad avviso dello scrivente, qualsiasi attività fisica in ambiente aperto è una panacea per i ragazzi sofferenti della forma meno grave di ipercifosi. Si tenga presente che nella maggior parte dei casi, l’atteggiamento viziato è il risultato di una insoddisfacente consapevolezza dei propri mezzi: la rappresentazione fornita dianzi – la ragazza che si avvolge le braccia intorno al corpo con il capo reclinato in avanti – rappresenta la tipica paura di ‘affrontare la vita che cambia’. Il ragazzo, in ultima istanza, deve essere libero di praticare lo sport preferito ed anche il tennis può esserlo. Nelle forme strutturate, invece, i dati scientifici sono scarsi. Da uno studio tutto italiano (7) si evince comunque che nel gruppo tennis l’incidenza di ipercifosi è praticamente nulla.
Nulla osta, dunque, alla pratica del tennis in soggetti con ipercifosi di natura posturale e anche in quelli affetti da forme strutturate, ovviamente nelle ore libere dal tutore. In attesa, intanto, di altri e più probanti studi al riguardo.
Ipotesi n. 3: il tennista in erba è affetto da valgismo o varismo delle ginocchia Presentazione dei problemi e potenziali soluzioni
Due altre patologie possono manifestarsi nel giovane tennista: il valgismo o il varismo delle ginocchia. Nel primo caso, il nostro “Carlo” ha le ginocchia a “x”, ovvero le stesse si toccano tra loro (l’asse femore/tibia forma un angolo aperto in fuori). Da un punto di vista etiopatogenetico, tale malformazione può essere ricondotta ad una insufficienza muscolo-legamentosa generica e, in taluni casi, può determinare anche un appiattimento della volta plantare.
Il piattismo, comunque, può insorgere anche indipendentemente dall’alterazione del ginocchio, mentre l’ipotonia generale della muscolatura e dei legamenti risulta ancora essere il primum movens. Pivetta e Scarfì (8) ritengono deficitari tra i muscoli, il lungo peroneo; tra i legamenti, invece, il deltoideo. Il trattamento va iniziato precocemente dato che la sua validità è limitata all’età dell’accrescimento. È giustificato, tra l’altro, il pessimismo di alcuni autori sulla potenzialità terapeutica del solo esercizio fisico: si tratta di una patologia molto delicata che abbisogna di presidi medico-ortopedici nelle forme lievi-modeste, mentre nelle forme gravi può richiedere addirittura l’intervento chirurgico. L’educatore sportivo e/o il fisioterapista attento, dotato di buon senso e professionalità, ricorrerà a movimenti che tendono ad allontanare le ginocchia, avvicinando i piedi.
Si concorda con Pivetta (9) che, riprendendo gli studi di Dubois e Durafourg (10), consiglia di focalizzare l’attenzione sui piedi e prevenirne le deformità, perché a loro volta responsabili proprio di quelle del ginocchio. E cioè: – Mantenere un adeguato controllo muscolare dell’equilibrio antero-posteriore e trasversale del piede; – Effettuare una rieducazione globale dell’arto inferiore.
Il varismo è, logicamente, il problema inverso. L’asse femoro-tibiale (quello della gamba, per intenderci) forma un angolo aperto all’interno. La tipica forma a ‘parentesi’ delle gambe è molto comune alla nascita. Dal varismo si passa al valgismo e, infine, verso i 7-8 anni, le ginocchia si raddrizzano. Purtroppo, così come il valgismo, il varismo poco si giova del solo esercizio fisico. Nelle forme leggere la terapia è innanzitutto preventiva, ossia vitamina D, ultravioletti, ritardo nell’inizio della deambulazione ed utilizzo di docce correttive.
Per quanto concerne poi la terapia fisica, scopo primario è quello di applicare forze di pressione che tendano ad avvicinare le ginocchia. Pivetta (10) consiglia giustamente movimenti di flessoestensione della gamba e della coscia, interponendo un cuscino o una palla tra le caviglie e cercando di bloccare le ginocchia mediante una fasciatura.
E il tennis?
L’attività fisico-motoria e sportiva può rientrare a giusto titolo in un programma riabilitativo specifico. Ad esempio, nel valgismo, alcuni specialisti consigliano l’equitazione e il calcio (attività sportive che tendono ad allontanare le ginocchia). Così si è già accennato, nelle forme severe è indicato l’intervento chirurgico.
Nelle forme lievi, invece, sia che si tratti di valgismo sia che si tratti di varismo, è importante affrontare precocemente ed efficacemente la malformazione in atto. Il miglioramento del trofismo muscolare, assieme ad esercizi specifici, dovrà sempre accompagnare la seduta giornaliera al Tennis Club. Il problema, però, è un altro. Il soggetto, costretto a ritrovare un equilibrio già di per sé deficitario, si stancherà facilmente in ragione di un appoggio plantare al suolo non corretto e di una muscolatura degli arti inferiori ipotonica. Inoltre, il rischio di infortuni è alto.
Non essendo normale l’asse femore/tibia, il peso del corpo va a gravare – invece che su entrambi – su un solo compartimento (mediale o laterale) del ginocchio (11). Ciò può determinare – soprattutto se il campo di giuoco è in duro cemento e/o in sintetico – lesioni legamentose e meniscali (12). La superficie indicata – in termini di prevenzione degli infortuni – è la terra rossa che consente, tra le altre cose, il cosiddetto ‘scivolamento controllato’ (12), ovvero maggior tempo di frenata che si traduce in minori sollecitazioni.
Bibliografia
1. Lisi R. Tennis e scoliosi, stato dell’arte. Lombardo Editore, Roma, 2007.
2. Lisi R. La scoliosi nel tennis, tutta la verità. Il Trifoglio Bianco, Latina, 2018.
3. Geyer B. Scoliose thoracique et sport. Atti XIV Journées d’Etudes G.K.T.S. Palavas-les-Flots, Francia, 1986.
4. Vercauteren M et al. Trunk asymmetries in a Belgian school population. Spine 7: 555-562, 1982.
5. Lisi R, Giuffrida C. Il nuoto non fa bene. Il Trifoglio Bianco, Latina, 2019.
6. Cailliet R. Il dolore lombo-sacrale. Edilombardo, Roma, 1991.
7. Boldori L, Dal Soldà M, Marelli A. Anomalie del tronco. Analisi della prevalenza nel giovane sportivo. Minerva Pediatr. 51(7-8):259-264, 1999.
8. Pivetta S, Scarfì G. Ginnastica correttiva degli atteggiamenti viziati nell’età della scuola. Monografie ortopediche PAIS, Roma, 1954.
9. Pivetta S, Pivetta M. Tecnica della ginnastica medica. Cifosi-Lordosi-Arti inferiori. Edi.Ermes, 5a Edizione, 1998.
10. Dubois JPH, Durafourg MPH. Physiologie et rééducation fonctionnelle du pied. Masson & Cie, Paris, 1972.
11. Lisi R. Tennis e salute. Lombardo, Roma, 2009.
12. Lisi R. Patologie degli arti inferiori nel tennista. Aracne, Roma, 2016.
Le recenti scoperte relative il funzionamento del Nervo Vago offrono nuove possibilità terapeutico per molti disturbi che sono stati finora considerati attinenti psicologici o biomedici. Tra queste nuove possibilità, la stimolazione transcutanea del nervo vago, sembra essere una delle più promettenti per efficacia e non invasività del trattamento.
ABSTRACT
In questo scritto descriveremo lo stato dell’arte attuale del trattamento relativo la stimolazione transcutanea del nervo vago. Sempre più ricerche stanno dimostrando la potenziale utilità di questa interventistica clinica che, pur essendo non invasiva, riesce a manipolare efficacemente il funzionamento del nervo vago. Questo nervo, permettendo in maniera unica la comunicazione veloce tra la mente, il cervello e tutto il resto del corpo, rappresenta di fatto una modalità strategicamente cruciale per il trattamento di molti disturbi psicologici e fisiologici in un’ottica integrata.
In this paper, we will describe the current state of the art of treatment related to transcutaneous vagus nerve stimulation. More and more research is demonstrating the potential usefulness of this clinical interventional procedure, which, while noninvasive, can effectively manipulate the functioning of the vagus nerve. This nerve, uniquely enabling fast communication between the mind, brain, and the entire rest of the body, is in fact a strategically crucial modality for the treatment of many psychological and physiological disorders from an integrated perspective.
Il nervo vago rappresenta la principale connessione nervosa tra il cervello e tutto il resto del corpo e quindi risulta strategicamente importante dal punto di vista clinico nel trattamento di numerosi disturbi considerati generalmente psicologici o di natura più fisiologica/ medica. Nell’ottica integrata, scientifica ed olistica di benessere e salute umana, la manipolazione del nervo vago offre ampie potenzialità terapeutiche proprio perché questo nervo ha una funzione sistemica molto complessa che prevede la connessione con aspetti cognitivi, emotivi e motivazionali così come la gestione infiammatoria e la comunicazione con l’enorme ecosistema di microorganismi che colonizzano il nostro organismo: il microbiota.
È noto che il cervello riceve informazioni dalle proiezioni afferenti del nervo vago (Liu et al., 2011). Queste fibre afferenti proiettano al nucleo tractus solitarius (NTS), nucleo che a sua volta proietta a diverse strutture, tra cui il locus coeruleus, la materia grigia periacqueduttale, il nucleo dorsale del rafe, il nucleo talamico paraventricolare, l’amigdala e il setto mediale (Brog et al., 1993; Van Bockstaele et al., 1999), il mesencefalo, l’ipotalamo, l’amigdala e il lobo frontale (Nomura et al., 1984; Carreno et al., 2016) e, sebbene non esista una proiezione anatomica diretta dal NST alla formazione dell’ippocampo (Castle et al., 2005), alcuni risultati suggeriscono che l’input vagale potrebbe passare attraverso l’NST e quindi raggiungere l’ippocampo probabilmente attraverso il successivo percorso multisinaptico (Broncel et al., 2018).
In letteratura esistono numerose evidenze relative gli effetti positivi della stimolazione vagale nel trattamento della depressione maggiore resistente ai farmaci (Sackeim et al., 2001; Tabitha et al., 2020). Il nervo vagale ha un ruolo anche nella gestione dello stress, modula sia l’eccitabilità intrinseca dei neuroni PVN CRF (neuroni del fattore di rilascio della corticotropina nel nucleo paraventricolare dell’ipotalamo (PVN), sia la segnalazione GABAergica locale dell’asse HPA, ipotalamo-ipofisi-surrene (Keller et al., 2021). La letteratura scientifica, inoltre, è concorde nel ritenere il nervo vago parte integrante di un complesso sistema di comunicazione bidirezionale tra il cervello e il tratto gastrointestinale, il cosiddetto “asse cervello-intestino” (Breit et al., 2018), network di cui fanno parte anche il sistema nervoso simpatico (per mezzo dei gangli prevertebrali), quello endocrino, quello immunitario (Bonaz, 2017), e il microbiota intestinale. Tale sistema ha quindi la funzione di regolare l’omeostasi gastrointestinale e modulare alcune espressioni emotive e cognitive del cervello (Agnoletti, 2019; Carabotti et al., 2015).
Nella definizione dell’“asse microbiota-intestinocervello-mente” (più ampia e corretta dal punto di vista epistemologico rispetto quella largamente condivisa di “asse intestino-cervello”) proposta da Agnoletti (Agnoletti, 2023), il nervo vago assume un ruolo unico e cruciale nel mettere in relazione tutte le dinamiche bio-psico-sociali che caratterizzano l’organismo umano. Alla luce di queste (ed altre) evidenze scientifiche è chiaro che “l’asse cervello-intestino” (o “l’asse microbiotaintestino-cervello-mente” nella proposta teorica di Agnoletti) stia diventando sempre più importante come bersaglio terapeutico sia per i disturbi gastrointestinali che per quelli psichiatrici, come la malattia infiammatoria intestinale (IBD) (Bonaz et al., 2017), la depressione (Evrensel et al., 2015), il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) (Leclercq et al., 2016; Sciocco et al. 2019) ed altre tipologie di disturbi (Mariano, 2023). In un recente studio condotto dal gruppo di Rei (Rei et al., 2021) si sono analizzati gli effetti del microbiota sulla memoria di animali anziani trovando che una minore attività vagale provocava una riduzione della funzionalità dell’ippocampo. Inoltre, l’evidenza che la stimolazione del nervo vago (VNS) porti ad un miglioramento mnemonico sia negli animali (Clark et al., 1995; Clark et al., 1998) che negli esseri umani (Clark et al., 1999; Sjögren et al., 2002), supporta l’idea che potrebbe essere anche un trattamento efficace per le malattie neurodegenerative associate al declino cognitivo (Rosso et al., 2020).
Nei modelli murini la stimolazione del nervo vago (VNS) ha anche ottenuto risultati positivi per indurre una plasticità sinaptica mirata a facilitare l’estinzione dei comportamenti appetitivi e per ridurre le ricadute nelle dipendenze da droghe, in particolare cocaina (Childs, 2016) ed eroina (Liu et al., 2011). Una meta-analisi del gruppo di Ridgewell (Ridgewell et al., 2021) sulla stimolazione transcutanea del nervo vago (t-VNS) in giovani adulti sani ha riscontrato un effetto significativo, sebbene moderato, relativo al miglioramento delle prestazioni cognitive, specificatamente quelle esecutive. Il nervo vagale può essere influenzato anche dalla respirazione, dalla meditazione e dallo yoga, contribuendo alla resilienza e alla mitigazione dei sintomi dei disturbi dell’umore e dell’ansia (Breit et al. 2018).
Ma l’intervento sul nervo vago può essere però effettuato, oltre che per mezzo di esercizi corporei, anche attraverso una tenue stimolazione elettrica. Il primo dispositivo per la stimolazione elettrica del nervo vagale (iVNS) richiedeva l’impianto chirurgico di elettrodi e uno stimolatore (Beekwilder et al., 2010). I dispositivi iVNS venivano suturati sotto la pelle del torace con una dissezione laterale del collo sinistro intrapresa per esporre il nervo vago cervicale sinistro e avvolgerlo attorno a un elettrodo stimolante (Dolphin et al., 2022). Tale impianto invasivo, pur essendo un trattamento relativamente sicuro, portava con sé eventi avversi (AE), generalmente un’infezione topica dovuta all’impianto stesso (Jurgens et al., 2013) oppure al continuo alternarsi on-off della stimolazione (Ben-Menachem et al., 2015).
Fortunatamente meno frequenti sono stati gli effetti iatrogeni più gravi, ma comunque possibili, quali bradicardia e asistolia, così come la paresi delle corde vocali (Dolphin et al., 2022). La VNS invasiva (iVNS) ricevette l’approvazione normativa degli Stati Uniti per il trattamento complementare delle crisi epilettiche refrattarie al trattamento farmacologico nel 1997 e per l’uso nella depressione resistente al trattamento nel 2005 (O’Reardon et al., 2006). Un intervento di stimolazione non invasiva è la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS), introdotta per altre aree del cervello già dal 1985 (Barker et al., 1985). La procedura prevede l’invio di impulsi magnetici alla corteccia cerebrale che inducono una corrente elettrica nel tessuto nervoso depolarizzando i neuroni bersaglio (Hallett et al., 2000). Relativamente all’applicazione sul nervo vagale la rTMS è stata usata, in tempi recenti, soltanto per il trattamento della depressione, efficace al pari della psicoterapia o della farmacoterapia (Akhtar et al., 2016).
Agli inizi degli anni 2000, prima sugli animali e poi sull’uomo, sono stati sviluppati sistemi VNS non invasivi (nVNS o tVNS) che eliminano la necessità di impianto chirurgico e conseguentemente annullano i rischi correlati all’interventistica chirurgica (Goadsby et al., 2013). Tali tecniche comportano l’uso di elettrodi sulla pelle per eccitare le fibre vagali afferenti e può essere eseguita attraverso il collo (VNS cervicale transcutaneo: tcVNS) oppure l’orecchio (VNS auricolare transcutaneo: t-VNS).
La tecnica di t-VNS sfrutta l’anatomia periferica del nervo vago, attivando proiezioni afferenti vagali attraverso la stimolazione del ramo auricolare del nervo vago (ABVN) all’orecchio (Peuker & Filler, 2002; Mercante et al., 2018). Per un approfondimento dei risultati della stimolazione del nervo afferente vagale auricolare (RAVANS) attraverso la respirazione rimandiamo allo studio del gruppo capitanato da Sclocco (Sclocco et al., 2019). Nella t-VNS le forme d’onda di stimolazione del nervo vago auricolare transcutaneo possono essere erogate con una varietà di diverse impostazioni dei parametri che variano la frequenza (Hz), l’ampiezza (mA), l’ampiezza dell’impulso (μs-msec) e la durata della stimolazione. La ricerca sta ancora determinando gli obiettivi di stimolazione ottimali (Badran et al., 2018), sebbene i due posizionamenti più comuni siano la parete anteriore del condotto uditivo esterno (trago) e la conca cilindrica (Badran et al., 2019).
Attraverso l’elaborazione dei risultati con modelli computazionali il gruppo diretto da Kreisberg (Kreisberg et al., 2021) ha valutato tre posizioni di stimolazione nell’orecchio: il trago interno, la parete inferoposteriore del condotto uditivo, la conca del cymba, tutte con un elettrodo di ritorno sulla superficie esterna del trago, considerandole sostanzialmente equivalenti per efficacia. La validità anticonvulsivante equivalente alla iVNS è stata dimostrata in studi preclinici prima che la fattibilità e il significato terapeutico di questa tecnica nell’uomo fossero dimostrati (Stefan et al., 2012) e l’evidenza di molteplici studi di imaging cerebrale funzionale confermano la significativa attivazione delle proiezioni vagali centrali attraverso questo metodo non invasivo (Kraus et al., 2013; Frangos et al., 2015; Yakunina et al., 2017).
In una ricerca sperimentale che ha coinvolto trentasei pazienti, il gruppo di Yakunina (Yakunina et al., 2018), ha verificato l’efficacia del trattamento anche per soggetti sofferenti di acufene cronico e fischi auricolari, giungendo alla conclusione che la t-VNS applicata al trago interno e alla cymba conchae nei pazienti con acufene ha soppresso con successo le aree cerebrali uditive, le aree limbiche e altre implicate nei meccanismi coinvolti nella generazione ed alla percezione dell’acufene attraverso le vie ascendenti uditive e vagali. In sintesi, la stimolazione non invasiva transcutanea del nervo vago rappresenta un intervento clinico preferenziale e complementare a molti trattamenti di disturbi psicologici e fisiologici soprattutto all’interno di una visione moderna e scientifica di benessere e salute umana che condivide i canoni di integrazione ed olismo.
Bibliografia
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Dott. Roberto Urso
Ortopedia e Traumatologia
Ospedale Maggiore di Bologna
ABSTRACT
Il campo della chirurgia della mano è un settore estremamente vasto, così come può essere piccolo il segmento interessato. La mano e il polso sono costellati da una miriade di possibili lesioni e, quasi sempre, il pensiero va alla traumatologia. E cioè alle lesioni ossee, le lesioni tendinee o quelle vascolo-nervose che molto spesso vengono provocate da insulti traumatici di tipo motociclistico, sportivo o da infortuni lavorativi. Questa branca è, invece, anche interessata, seppur in forma minore, dalle lesioni di tipo neoplastico che, come i grandi segmenti o i tumori non visibili, vanno trattati con la stessa importanza e precisione. In questa sessione si parlerà di una neoplasia abbastanza rara, ma che spesso porta, nonostante la sua natura, a mal interpretazioni e spesso a indicazioni medico-chirurgiche non corrette. Vedremo, quindi, un case report inerente una neoformazione della famiglia degli emangiomi.
Gli emangiomi:
L’emangioma cutaneo è un neoplasia appartenente agli angiomi cutanei; è un tumore benigno che si sviluppa e cresce in modo autonomo e afinalistico dalle cellule endoteliali dei nostri vasi sanguigni e l’emangioma capillare appartiene a questa categoria, presentando quasi sempre come una macchia o “voglia” della pelle.
Il suo sviluppo può essere sia precoce che tardivo; precoce perché spesso presente nel nascituro in forma di una o più piccole areole di color rosso vinaccia scuro, che il più delle volte tende a scomparire dopo poco tempo dalla nascita, i quali rappresentano circa il 30% degli emangiomi; tardivo, in quanto da piccola areola può, nel tempo, assumere dimensioni maggiori.
Un emangioma tardivo può evolvere da semplice macchia rosso scura a massa molto più grande assumendo una consistenza paragonabile ad una piccola spugna, con crescita estremamente veloce raggiungendo spesso dimensioni fino a 6-8 cm. Hanno uno sviluppo che può essere sottocutaneo o extracorporeo.
Nell’età adolescenziale il più delle volte tendono a regredire spontaneamente. E il trattamento molto spesso non è di tipo chirurgico, ma qui tratteremo una forma in paziente di mezza età sviluppatosi in modo assolutamente anomalo rispetto ai vari emangiomi che siamo abituati a vedere nelle nostre esperienze cliniche e in considerazione del fatto che le possibilità chirurgiche sono rare, in quanto la regressione della neoplasia è nella maggior parte dei casi, spontanea.
Case report:
Donna di circa 55-60 anni: al dito indice della mano destra presenza da anni di piccola macchia cutanea color rosso vinaccia di minime dimensioni, circa 2 mm di diametro. Nel corso di un tempo estremamente breve, circa 30- 35 giorni, la neoformazione ha iniziato una crescita esponenziale fino ad arrivare alla forma ovulare e di misura di circa 4 cm per 3 cm.
La caratteristica più importante, oltre alla dimensione assunta in breve tempo, era l’aspetto di tipo lobato e la sua importante vascolarizzazione che lo portava al sanguinamento appena veniva toccato o grattato. Tant’è che la paziente si trovò costretta a mantenerlo sempre bendato sia per proteggersi dai sanguinamenti, sia per coprire una forma neoplastica avente un brutto aspetto. Un’altra caratteristica era la totale assenza di dolore e la perfetta funzionalità del dito della mano con una flesso-estensione assolutamente conservata ma che.
Causa le dimensioni, portavano sempre al traumatismo dell’emangioma con relativo sanguinamento. Come si vede dalla figura 1 il quadro clinico che si presentò non era di bell’aspetto, con una dimensione importante, con un aspetto vascolarizzato e una crescita estremamente veloce. La paziente fu sottoposta a vari esami clinici e laboratoristici preparativi all’intervento, escludendo dalla anamnesi familiarità per malattie tumorali.
E una valutazione anestesiologica determinò la scelta dell’anestesia di tipo plessico, invece che locale, in quanto una chirurgia applicata ad un segmento così piccolo imponeva una ischemizzazione di una porzione più alta della semplice mano, così che il campo chirurgico potesse essere esteso fino al gomito nel caso che si fosse reso necessario un approccio più vasto di quanto in realtà fu fatto. Sul campo chirurgico, con laccio alla radice dell’arto, si potè manovrare la neoplasia liberamente, senza rischi di sanguinamento attivo che avrebbero potuto compromettere la visione in toto dell’intervento.
Sollevato il tumore ci si rese conto che lo stesso era cresciuto partendo da quella unica piccola macchia della pelle che la paziente aveva sempre avuto. Una vera e propria evaginazione di tessuto. La parte interessata era partente dal punto di passaggio del fascio vascolonervoso mediale del dito e, il rischio, era quello di una possibile interessamento del ramo sensitivo del dito.
La enucleazione fu estremamente semplice e la zona di nascita del tumore fu cauterizzata e applicato solo un punto di sutura. Una normale medicazione fu posizionata a fine intervento e al risveglio dell’arto interessato non si ebbero danni di tipo neurologico. La neoformazione fu poi inviata al laboratorio per eseguire una biopsia mirata, la cui risposta fu di “emangioma capillare lobulato”, quindi una neoplasia benigna, asportata in toto e che non ha lasciato strascichi clinici alla paziente, la quale, dopo pochi giorni, ha ricominciato le sue ordinarie attività lavorative.
Dott. ssa Annamaria Venere
Sociologa Sanitaria;
Criminologa Forense;
Socio AICIS (Associazione Criminologi per l’Investigazione e la Sicurezza);
Amministratore Unico: AV eventi e formazione, Catania;
Direttore editoriale: Medicalive Magazine;
annamariavenere.it
Relazione tra vendetta e rancore rispetto al perdono. La vendetta può essere definita come un comportamento intenzionale che mira a infliggere una punizione, fisica o psicologica, a qualcuno che ha causato, a sua volta, un danno o un’offesa. Sotto un profilo psicologico, pertanto, la vendetta è spesso motivata dalla rabbia, dalla frustrazione o dal desiderio di ripristinare la propria reputazione contro chi l’ha indebolita. Prima di esaminare la vendetta, però, è necessario analizzare il sentimento che ne sta alla base: il rancore. Per impedire che questi sentimenti possano comportare conseguenze penali, basterebbe allora il perdono.
Il sentimento alla base della vendetta: il rancore
Il rancore è un forte e persistente risentimento verso qualcuno che ci ha fatto del male o ci ha in qualche modo deluso. Spesso, è alimentato da un senso di iniquità o di offesa subita, che a sua volta conduce alla percezione di essere stati trattati male o di essere stati vittime di un’ingiustizia. Riguarda vari campi della vita, da quello lavorativo a quello amoroso, ma in ognuno di essi la persona che lo prova ha difficoltà a superare l’evento che l’ha scatenato: un individuo, infatti, è rancoroso nel momento in cui prova difficoltà nel perdonare chi lo ha ferito. Sotto un profilo sociale, di conseguenza, il rancore ha effetti negativi sulla capacità di mantenere relazioni sane e positive, anche perché chi nutre rancore èin genere emotivamente distante dagli altri (Socarides, 1996).
Il sentimento del rancore, a causa del suo insinuarsi in modo ossessivo nella mente di chi lo prova, conduce, se non elaborato o superato, alla creazione di quello che potremmo definire un vero e proprio circolo vizioso. Ci si illude, in altre parole, che soltanto perpetuando un’azione concreta, che possa in qualche modo restituire all’altro ciò che ci ha fatto, esso si possa quietare. In questi casi, quando ovvero non si è in grado di superare il proprio rancore, ecco che compare il già accennato comportamento vendicativo.
La dinamica comportamentale vendicativa
In linea generale, la dinamica comportamentale della vendetta si compone di tre fasi. La prima fase è l’esperienza di una perdita o di un’offesa subitache, come accennato, può essere causata da un’azione o da un comportamento che viene percepito come ingiusto o lesivo dei propri interessi o bisogni. Questa fase può scatenare una serie di reazioni emotive, tra cui tristezza, frustrazione, rabbia e senso di ingiustizia, amplificando quelle provate con il nascente sentimento rancoroso. La seconda fase del processo di vendetta è invece la mancata gratificazione dei bisogni personali. In questa fase, il soggetto si sente ferito nell’orgoglio e nella dignità: il senso di frustrazione può portare a comportamenti aggressivi e distruttivi, volte a ripristinare l’equilibrio (emotivo) precedentemente infranto. Infine, la terza fase, prevede una liberazione di aggressività verso la presunta causa della perdita subita. Tale ultima fase comportail danneggiamento o la distruzione di ciò che viene considerato di proprietà o di valore per il colpevole, come le sue proprietà, il suo status o le sue ricchezze. La motivazione principale di questa fase è ripristinare l’equilibrio psicosociale attraverso il diritto e il dovere del soggetto leso di vendicarsi contro chi ha arrecato danno (Grillo, 2018).
Più in particolare, l’obiettivo principale della vendetta è preservare la reputazione, comunicando all’offensore e agli osservatori un messaggio che affermi il proprio valore. A tal proposito, si è ha notato che le persone che subiscono atti aggressivi attribuiscono all’offensore la credenza che esse non meritino un trattamento migliore di quello ricevuto. La vendetta mira quindi a influire sul sistema di credenze dell’aggressore, cercando di modificare l’immagine che egli ha della vittima, da individuo insignificante a persona degna di rispetto. Un altro motivo, che giustificherebbe la vendetta è il desiderio di “dar lezione” all’offensore: la vendetta assume cioè un valore simbolico che ha lo scopo di convincere l’offensore che un certo comportamento non sarà più tollerato. La punizione inflitta dalla vittima ha, in definitiva, una funzione educativa e morale, insegnando che un certo comportamento non rimarrà impunito. In questo senso, la vendetta è simile alle punizioni impartite ai bambini per scoraggiare comportamenti socialmente riprovevoli, ma differisce dal “pareggiare i conti” perché il suo obiettivo è quello di insegnare una lezione morale, non di ottenere un risarcimento per l’offesa subita (Grillo, 2018; Socarides, 1996).
Quali conseguenze psicosociali: c’è la possibilità di perdonare?
Come abbiamo visto, il rancore e la vendetta portano solitamente a una escalation di violenza e conflitti, in cui gli interessi dei soggetti coinvolti diventano contrapposti, a qualsiasi livello li si vogliano analizzare: amore, lavoro, militare, politico. Vengono meno la percezione dell’individuo sulle relazioni interpersonali e sulla fiducia negli altri. In generale, la vendetta non è dunque un meccanismo sano per risolvere le dispute o le ingiustizie, ma piuttosto un modo per perpetuare lo scontro e la sofferenza.
Se ne deriva che un simile comportamento vendicativo, può avere delle conseguenze sia psicologiche che sociali nella persona che lo attua e in quella che lo subisce, a volte anche gravi. Dal punto di vista psicologico, quando una persona non riesce a soddisfare i propri bisogni e subisce una perdita, può reagire in diversi modi in base al proprio livello di maturità. Chi è immaturo emotivamente potrebbe manifestare la frustrazione attraverso scatti di rabbia, comportamenti di isolamento, sentimenti di risentimento o una rigida chiusura emotiva. In particolare, la ferita all’orgoglio, in questi casi, può scatenare il desiderio di vendetta.Al contrario, una persona psicologicamente sana potrebbe affrontare la frustrazione per la perdita subita in modo diverso, ad esempio attraverso il perdono. In questo modo, si eviterebbe di cadere nel circolo vizioso dell’odio e del desiderio di rivalsa. È importante notare che l’eccesso patologico della vendicatività si verifica quando si passa dalla giusta punizione alla rappresaglia, ovvero quando si cerca di fare del male in modo eccessivo e ingiustificato alla persona che ha causato la perdita o il danno (Searles, 1996).
Sotto un profilo sociale, invece, quando le persone si vendicano,formano una spirale di violenza, intensificando, laddove presenti, anche stereotipi e pregiudizi nei confronti di gruppi sociali specifici, comportamenti discriminatori o conflitti inter-gruppo.La vendetta, non a caso, è protagonista, peraltro, di molti femminicidi, figli più che altri di sentimenti rancorosi negli uomini, tradimenti innescati e mai perdonati. Se ne deriva, dunque, che della vendetta, e quindi dal rancore, si nutrono anche atti criminali, nonché tutte quelle logiche che confluiscono nel voler far male a una persona (Fadda, 2012).
Eppure, al di là di problematiche psicologiche personali da elaborare in apposite sedi cliniche, una soluzione al rancore e alla vendetta, prima che scivolino in strade penali, ci sarebbe: il perdono. Il desiderio di vendetta, infatti, può portare soltanto a un’apparente soddisfazione, poiché diversi studi dimostrano che è il perdono che porta a un maggiore appagamento rispetto alla vendetta. Le persone che scelgono il perdono sono più consapevoli della fallibilità umana e sono quindi in grado di comprendere le emozioni altrui, mentre la vendetta alimenta, al contrario, emozioni negative difficili da superare. Perdonare richiede da un lato una liberazione dal dolore che si prova per il danno subito, dall’altro è un processo interiore che richiede tempo e rispetto per i propri sentimenti, ma che alla fine può condurre anche a un riavvicinamento con la persona che ha causato il danno. In altre parole, è una gestione costruttiva del rancore e del comportamento vendicativo (Carella, 2018). Eppure, se fosse davvero così semplice innescare il processo psicologico del perdono, anziché farsi trasportare da logiche rancorose e vendicative, il mondo sarebbe tutt’altro da quello che le cronache quotidiane ci descrivono.
Bibliografia
Carella, V. (2018). Vendetta e psicologia: vendicarsi fa stare bene?, in https://www.centroclinicospp.it.
Fadda, M.L. (2012). Differenze di genere e criminalità, Diritto Penale Contemporaneo.
Grillo, A.A. (2018). Perché vogliamo vendicarci? Un approfondimento sul comportamento vendicativo, in www.fisppsicologia.it.
Searles, H. (1996). La psicodinamica della vendicatività. In Rabbia e vendicatività, Bollati e Boringhieri, Torino.
Socarides, W.C. (1996).La vendicatività: il desiderio di “pareggiare i conti”. In Rabbia e vendicatività, Bollati e Boringhieri, Torino.
Dr. Francesco Pisani
Medico Chirurgo; Specialista in Medicina Generale e di Famiglia.
Specialista in Dietologia e Nutrizione clinica.
Specializzando in Anestesia e Rianimazione,
Terapia Intensiva e del Dolore,
Potenza
Abstract
Una gran quantità di evidenze scientifiche sta gettando nuova luce sulla relazione tra corpo umano ed il super-organismo simbionte ospitato nel suo intestino, sia in condizioni di salute che di patologia esistente. Esso gioca un ruolo centrale nel complesso meccanismo di funzionamento dell’organismo umano: contribuisce allo sviluppo del sistema immunitario, al ricavo energetico supplementare a partire da carboidrati complessi indigeribili, così come ha un ruolo sempre più emergente in diverse patologie, come insufficienza renale cronica (CKD), obesità, diabete e malattie cardiovascolari (CVD), che mostrano una disbiosi, ossia una disregolazione morfologica e funzionale del microbiota. Il legame molecolare di tutto questo è il metabolismo microbiotale: prevalentemente suddiviso in via proteolitica e saccarolitica, la salute si ha quando è maggiormente shiftato verso la seconda, infatti questa favorisce il rilascio di acidi grassi a catena corta (SCFA), con azione immunomodulante, antinfiammatoria e genericamente benefica. Viceversa la via proteolitica è associata al rilascio di metaboliti tossici, p-cresilsolfato (p-CS) e inndossilsolfato (IS), normalmente escreti dai reni, emergenti come principali tossine uremiche, accumulate nel sangue quando la funzionalità renale si riduce, come in CKD (dove sono riconosciuti come promotori flogistici), complicanze cardiovascolari e patologie progressive.
I β – glucani dell’orzo riducono il p-cresilsolfato, promuovono uno shift saccarolitico nel metabolismo del microbiota intestinale, migliorando la funzionalità cardiovascolare e renale in soggetti in salute.
Le strade della salute passano sempre più dalla via dell’alimentazione, ma servono piani economici e finanziamenti per sviluppare un settore che può diventare strategico. La nutraceutica è la nuova frontiera della ricerca scientifica, nonché una scienza interdisciplinare, che fa dell’applicazione clinica e pre-clinica il suo punto di forza. Scopriamo di cosa si tratta…
I nutraceutici sono sostanze normalmente derivate da piante, alimenti e fonti microbiche, che possono essere assunte sia sotto forma di alimento “naturalmente nutraceutico” sia di alimento “arricchito” di uno specifico principio attivo. E’ possibile assumerli anche sotto forma di integratori alimentari in formulazioni liquide, compresse o capsule.
La sedentarietà tipica del Mondo Occidentale nei giorni nostri, l’evidenza scientifica circa il ruolo della dieta sull’incidenza di patologie cardine nella mortalità nei Paesi industrializzati (accidenti cardiovascolari e neurovascolari, malattia renale cronica, diabete, tumore), hanno contribuito a consentire lo sviluppo dei FunctionalFoods: essi hanno la capacità, scientificamente testata, di influire positivamente su una o più funzioni fisiologiche, preservando o migliorando lo stato di salute, e riducendo il rischio delle malattie suddette.
La Fibra Alimentare ha assunto un ruolo di rilievo nella dietoterapia; essa compone strutturalmente gli alimenti di origine vegetale, è priva di un valore energetico-nutrizionale significativo, perché costituita da carboidrati complessi, quindi non digeribili. Consiste principalmente in due tipologie: solubile ed insolubile. La prima è principalmente presente negli ortaggi a foglia verde, con effetto drenante e pro-cinetico, senza influenza alcuna sul metabolismo lipo-glucidico. La seconda, di particolare interesse per lo studio che sto per andare a spiegare, è presente principalmente in frutta e verdura, legumi, cereali, quindi nelle farine, alle quali oggi è rivolto grande interesse, come vettori di nutraceutici, per il loro uso plastico e diffuso in tutto il mondo.
Avena ed orzo soprattutto, sia naturalmente, che nella formulazione arricchita in β-glucano, presentano una spiccata azione ipocolesterolemizzante, ipoglicemizzante ed antinfiammatorio-antiedemigena.
Per queste sue proprietà, prestiamo attenzione a questa interessantissima fibra alimentare solubile, il β-glucanoche fa ben sperare nel presente e nel futuro nella ricerca medico-scientifica, per le sue applicazioni nella prevenzione e (forse) nella cura di aterosclerosi e malattia renale cronica.
Ma prima, analizziamo insieme come e dove si estrinseca la sua azione: concentrata essenzialmente sul sistema gastro-enterico, essa si sviluppa contemporaneamente su più livelli: nello stomaco e piccolo intestino (tenue), assorbe acqua, grazie alla sua elevata idratabilità, formando una sostanza gelatinosa che aumenta il volume del contenuto gastrico, con senso di sazietà più precoce e svuotamento gastrico più ritardato; conseguentemente, a livello del tenue, l’assorbimento dei macronutrienti viene dilazionato nel tempo, per effetto del rallentato svuotamento gastrico e della viscosità della fibra, quando a contatto con acqua, che “sequestra” nutrienti, rallentando l’azione digestiva degli enzimi litici del pancreas.
A livello gastro-endocrino (pancreas endocrino, esocrino, fegato, tessuto adiposo), il β-glucanocontiene il picco-insulinico post-prandiale e stimola la produzione di leptina (l’ormone della sazietà), a livello adipocitico, potenziando il senso di sazietà generato dalla maggiore volumizzazione gastrica post-prandiale e dal ritardato svuotamento. Inoltre lega gli acidi biliari (prodotti dal fegato, e deputati nell’emulsionamento, quindi assorbimento dei grassi) neutralizzandoli, ed inibendo così l’assorbimento di grassi, eliminati tramite le feci.
Infine, agisce a livello del grande intestino (crasso), tramite la sua tendenza alla fermentescibilità parziale o totale, da parte della flora batterica ivi presente; questo garantisce una selezione della popolazione batterica, in senso positivo, garantendo un microbiota qualitativamente migliore di chi non assume β-glucano (motivo per cui quest’ultimo è da considerarsi anche come pre-biotico).
Chiarito la sua azione a livello del nostro organismo, condividerò nella maniera più semplice e chiara possibile, i contenuti di uno studio, da me condotto insieme alle equipe della U.O.C. di Cardiologia e di Nefrologia del Policlinico di Bari, e portato come Tesi di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia, nel Dicembre del 2017.
E’ uno studio di coorte, in cui sono stati reclutati, 28 soggetti in salute e onnivori, tra i 30 e 70 anni, BMI tra il 18.5 e 24.9, ai quali veniva somministrata giornalmente, per 60 giorni, una quantità di 100 g di pasta, a base di farina d’orzo arricchita conβ-glucano, per un equivalente di 3 g/die.
Al tempo T0 (visita preliminare al trattamento) e T1 (visita a posteriori), sono stati rilevati parametri antropometrici (altezza, peso, BMI), entità della vasodilatazione (tramite la valutazione della vasodilatazione flusso-mediata nella arteria brachiale), analizzati campioni ematici per la valutazione dell’andamento di colesterolo totale, colesterolo – LDL, colesterolo – HDL, emoglobina glicata – HbA1C, glicemia, stress ossidativo (tramite l’analisi dei livelli sierici di 8 – ossi – D – glucosio) e pentrassina 3 (PTX 3), nonché di cresolo ed indolo, marcatori precoci di malattia renale cronica; sono stati analizzati anche campioni fecali, con lo scopo di individuare i livello di SCFA e MCFA (acidi grassi a catena corta e media)
Dalla correlazione dei parametri sopraelencati, tra T0 e T1, abbiamo rilevato:
riduzione di colesterolo totale e colesterolo – LDL, invariato il colesterolo – HDL;
aumentati SCFA e MCFA;
ridotti cresolo (p-CS) ed indolo (IS);
aumentata la vasodilatazione flusso-mediata (FMD);
aumentala pentrassina 3 (PTX 3);
aumentata la glicemia, HbA1c, e 8-ossi-D-glucosio.
Come abbiamo interpretato queste correlazioni?
In questo studio abbiamo dimostrato come un trattamento dietetico della durata di due mesi, fornendo un apporto quotidiano di 3 g di beta-glucano, presenta effetti ipercolesterolemizzanti, promuove un cambiamento saccarolitico nel metabolismo della flora batterica intestinale, migliora la funzione dell’endotelio vascolare, in una coorte di soggetti sani. L’intervento dietetico infatti, modula il pannello di marcatori metabolici microbiotali, diminuendo i livelli sierici di cresolo e indolo, aumentando la concentrazione fecale di SCFA, migliorando la funzionalità endoteliale vascolare, mediante un incremento della vasodilatazione flusso-mediata.
Partendo da una preliminare conoscenza sull’azione ipocolesterolemizzante del beta-glucano, abbiamo focalizzato l’attenzione sulla sua azione a livello del metabolismo microbiotale intestinale; il microbiota intestinale, la più grande comunità simbionte dell’organismo umano, sta emergendo come giocatore fondamentale nel rapporto tra lo stile di vita e la salute, facendo sì che possa essere considerato come il secondo cervello nel nostro organismo. Infatti presenta una complessità paragonabile alle reti neurali: più di 160 specie batteriche e virali diverse, 10 volte il bagaglio cellulare umano, 100 volte la quantità di DNA umano. Al di là di svolgere attività locali attraverso la digestione, esercita un ruolo fondamentale in molteplici funzioni metaboliche ed immunitarie. Si stanno accumulando sempre più evidenze secondo cui una sua disfunzione (disbiosi), correli con diverse patologie, quali malattia renale cronica, diabete, malattia cardiovascolare e neurovascolare, e malattie infiammatorie intestinali come Crohn e RCU.
Il lato interessante ed incoraggiante di queste evidenze è che è possibile agire sul microbiota semplicemente controllando il suo “carburante”, tramite la cura della alimentazione. Infatti, nonostante la composizione microbiotale sia individuo-specifica ed abbastanza costante nel corso della vita, essa è in possesso di una plasticità notevole, a seconda della composizione della dieta del singolo individuo; il cibo quindi sta emergendo come pressore selettivo del microbiota.
Come il microbiota agisce su organi e apparati dell’organismo umano, influenzandone lo stato di salute/malattia?
Dopo l’ingestione di cibo, una frazione di carboidrati, sia digeribile che le cosiddette indigeribili “fibre prebiotiche”, sfugge a digestione ed assorbimento nel piccolo intestino e raggiunge il grande, dove rappresenta un substrato per i microbi della flora che, dal catabolismo di tali sostanze indigeribili, rilasciano acidi grassi a catena corta e media (SCFA e MCFA). La quasi totalità dei SCFA sono rapidamente assorbiti dal colon, stimolando l’assorbimento di acqua e sodio, riducendo il carico osmotico e contribuendo ad un 5-10 % del fabbisogno energetico medio umano. Essi influenzano anche il metabolismo glucidico (inibendo la gluconeogenesi, aumentando la glicogenolisi), quello lipidico (riducendo la sintesi di colesterolo endogeno). Agiscono sul pHendoluminale a livello dei vili intestinali, aumentando l’assorbimento di sali minerali, esercitano azione anti-infiammatoria riducendo citochine pro-infiammatorie (interferone, TNF-α), inducono la produzione di i-NOS (con effetti pro-dilatatori ed antiaggreganti).
SCFA e MCFA agiscono anche limitando la proliferazione dei cosiddetti batteri proteolitici a livello microbiotale, inibendo lo shift del metabolismo microbiotale verso la via proteolitica e putrefattiva, riducendo così la produzione di cresolo ed indolo, considerate tossine uremiche, perché marker di predizione precoce di malattia renale cronica (sono i primi ad aumentare nella malattia renale cronica, quando ancora non ci sono effetti sulla funzionalità renale), oltre che correlati ad una peggiore prognosi (non eliminabili tramite dialisi).
Alla luce di queste evidenze, tali risultati indicano come una riduzione di tossine uremiche (cresolo e indolo) ed un miglioramento di vasodilatazione flusso-mediata (FMD), suggeriscano un comune meccanismo di base, degno di essere ulteriormente approfondito.
Inoltre, come già detto, si è osservato un aumento della pentrassina 3 (PTX 3), una proteina dell’immunità innata, di recente interesse come fattore protettivo cardiovascolare, in quanto anti-aterogena; questa evidenza va a potenziare la forza cardioprotettiva del β-glucano, già evidente con l’effetto pro-dilatatorio (si ricordi che lo shift dell’equilibrio vasodilatazione/vasocostrizione verso la seconda, è il primummovens di aterosclerosi).
L’intervento dietetico tuttavia, ha anche esercitato effetti inattesi: a differenza di quanto emerso in precedenti studi sul β-glucano, abbiamo osservato una tendenza verso l’induzione del metabolismo glicemico: infatti glicemia e HbA1c sono leggermente aumentati dopo il trattamento, pur restando nel range di normalità. Tale aumento ha coinvolto anche un marker di stress ossidativo, 8-ossi-D-glucosio. Recenti studi testimoniano, in parallelo alle succitate azioni benefiche degli SCFA, anche un ruolo sistemico come regolatori dell’omeostasi energetica umana, ed un ruolo presuntivo nell’indurre l’insulino-resistenza.
Tuttavia, tornando al nostro studio occorre precisare che: l’intervento dietetico è stato condotto in soggetti sani, non in presenza di uno stato di disbiosi intestinale che necessitava di essere riequilibrato con un trattamento pre-biotico; glicemia ed emoglobina glicata post-intervento, seppur al di sopra della norma, sono molto lontani da uno stato di pre-diabete. Per queste ragioni posso confermare che la dose raccomandata di 3 g/die di beta glucano per due mesi in soggetti sani, esercita un effetto totalmente salutare, senza implicazioni patologiche. Tuttavia non possiamo capire quale sia l’effetto del beta-glucano a dosi superiori, né di dedurre cosa accadrebbe, alla stessa dose in un soggetto affetto da diabete e/o obesità, ove uno stato di disbiosi è sempre presente.
Concludendo, questo rafforza la seguente considerazione: un eccesso alimentare di una singola componente non è sempre utile, anzi spesso risulta dannoso, anche se si tratta di un alimento promuovente la salute. Questo risultato deve essere sostenuto ed ulteriormente investigato da altri studi, possibilmente finalizzato alla definizione di una soglia, che definisca un approccio intelligente all’equilibrio tra effetti prebiotici/benefici ed una azione di promozione dell’insulino-resistenza.
Dott. Carmelo Giuffrida
Dottore in Scienze e Tecniche delle Attività Motorie Preventive e Adattate.
Docente incaricato all’insegnamento di “Attività Fisica Adattata” presso
il Master Universitario di I° Livello in “Posturologia Clinica e Scienze dell’Esercizio Fisico”,
Università degli Studi di Catania
Sintesi
La disfunzione del pavimento pelvico coinvolge l’attività o la funzione anomala esercitata dai muscoli che costituiscono la regione pelvica. Si riferisce a un’ampia costellazione di sintomi e cambiamenti anatomici correlati alla funzione anormale della muscolatura del pavimento pelvico.
L’Attività Fisica Adattata (A.F.A.) è fortemente efficace sulle disfunzioni pelvi-perineali poiché contrasta l’ipocinesia, consente di cambiare lo stile di vita correggendo le anomalie e i vizi, permette di migliorare la qualità della vita, incrementa l’autonomia personale. In realtà, assume tono di importante mezzo per la prevenzione di patologie e mantenere un buono stato di salute. Rappresenta il trattamento più idoneo nell’ambito delle disfunzioni perineali quando, ormai, è stata superata la fase acuta e non si necessita della prescrizione di un trattamento in specifico ambiente sanitario.
Abstract
Gli aspetti clinici della disfunzione del pavimento pelvico possono essere urologici, ginecologici o colorettali e, frequentemente, sono correlati.
Il pavimento pelvico è una combinazione mio-fasciale multipla con inserzioni legamentose che creano una cupola diaframmatica attraverso l’uscita pelvica ossea. Questo complesso si estende anteriormente, dal pube al sacro/coccige nella regione posteriore; bilateralmente si colloca in corrispondenza delle tuberosità ischiatiche.
La maggioranza della muscolatura pelvica è costituita dall’elevatore dell’ano.
I muscoli del pavimento pelvico svolgono diverse funzioni:
Supportano gli organi pelvici e il contenuto intra-addominale;
Coadiuvano la continenza di urina e feci;
Contribuiscono alle funzioni sessuali dell’eccitazione e dell’orgasmo.
Un’ampia varietà di condizioni è attribuibile alla disfunzione del pavimento pelvico a causa di ipertonicità, ipotonicità, perdita del supporto pelvico o preoccupazioni contrastanti.
Le emorroidi rappresentano una costituente considerevole dell’Anatomia e nella Fisiologia del canale anale.
Quando il tessuto emorroidario si manifesta attraverso varie sintomatologie che vanno dal sanguinamento, al prolasso e al dolore, si determina la malattia emorroidaria. Tale condizione gastro-intestinale patologica è mastodonticamente frequente e, la maggior quantità delle persone, ad un certo momento della propria vita, ne viene interessata.
I fattori che contribuiscono all’aumento dell’incidenza di emorroidi sintomatiche, nella multifattorialità, includono le predisposizioni individuali (familiarità), fattori alimentari, condizioni che indeboliscono il tessuto di supporto come l’incremento della pressione intra-addominale, condizioni ormonali connessi alla gravidanza e gli sforzi per sollevamenti di carichi meccanici, componenti psicologiche.
Sebbene il numero di persone che utilizza con regolarità l’attività fisica per ottenere benessere rimane troppo basso, il movimento svolge un ruolo determinante per la salute dell’essere umano tanto sull’efficienza del corpo quanto quello psicologico.
In pratica, quando il soggetto ha ormai stabilizzato la sua patologia, nella fase di mantenimento o come trattamento preventivo nei casi a maggiore rischio, o se si è instaurata una cronicità della patologia, l’Attività Fisica Adattata (A.F.A.) fornisce un valido aiuto.
La salute del pavimento pelvico è di fondamentale importanza per l’intera durata della vita!
Abstract
Clinicalaspects of pelvicfloordysfunction can be urological, gynecological, or colorectal, and are frequentlyrelated. The pelvicflooris a multiple myofascial combination with ligamentousinsertionsthat create a diaphragmatic dome through the pelvic bone exit.
This complex extendsanteriorly, from the pubis to the sacrum/coccyx in the posteriorregion; bilaterallyitisplaced in correspondence of the ischialtuberosities. The majority of the pelvicmusculatureconsists of the anus lift. Pelvicfloormusclesperformseveralfunctions:
They support the pelvicorgans and intra-abdominalcontent;
Assist in the continence of urine and faeces;
Theycontribute to the sexual functions of arousal and orgasm.
A wide variety of conditions isattributable to dysfunction of the pelvicfloor due to hypertonicity, hypotonicity, loss of pelvic support or conflictingconcerns. Hemorrhoidsrepresent a considerableconstituent of the Anatomy and Physiology of the anal canal. Whenhemorrhoidaltissuemanifestsitselfthroughvarioussymptomatologyranging from bleeding, to prolapse and pain, hemorrhoidal disease isdetermined.
Factors contributing to the increase in the incidence of symptomatichemorrhoids, in multifactoriality, include individualpredispositions (familiarity), dietary factors, conditions thatweaken the supporting tissuesuchasincreased intra-pressure abdominal, hormonal conditions related to pregnancy and efforts to lift mechanicalloads, psychologicalcomponents. Although the number of peoplewhoregularly use physical activity to achievewell-beingremainstoo low, movementplays a decisive role for the health of the human beingboth on the efficiency of the body and psychological.
Although the number of peoplewhoregularly use physical activity to achievewell-beingremainstoo low, movementplays a decisive role for the health of the human beingboth on the efficiency of the body and psychological.
In practice, when the subject hasnowstabilizedhispathology, in the maintenance phase or as apreventive treatment in casesatgreater risk, or if a chronicity of the pathologyhasestablished, the Adapted Physical Activity (A.F.A.) providesvaluable help.
The health of the pelvicflooris of paramountimportance for the entirelifespan!
La disfunzione del pavimento pelvico coinvolge l’attività o la funzione anomala esercitata dai muscoli che costituiscono la regione pelvica. Si riferisce a un’ampia costellazione di sintomi e cambiamenti anatomici correlati alla funzione anormale della muscolatura del pavimento pelvico.
Nel complesso, si evidenza il ruolo del team inter-multi-professionale e pluri-disciplinare, sia nella valutazione che nella gestione dei soggetti che mostrano disfunzionalità.
La funzione disordinata corrisponde all’aumento dell’attività (ipertonicità) o alla diminuzione dell’attività (ipotonicità) o alla coordinazione inappropriata dei muscoli del pavimento pelvico.
Le alterazioni relative al supporto degli organi pelvici sono note come “prolasso degli organi pelvici”.
Gli aspetti clinici della disfunzione del pavimento pelvico possono essere urologici, ginecologici o colorettali e, frequentemente, sono correlati.
Un altro metodo per compartimentalizzarne gli elementi è quello di localizzarne le regioni anatomiche:
– anteriore: uretra/vescica,
– media: vagina/utero,
– posteriore: ano/retto.
Anatomia
Il pavimento pelvico è una combinazione mio-fasciale multipla con inserzioni legamentose che creano una cupola diaframmatica attraverso l’uscita pelvica ossea. Questo complesso si estende anteriormente, dal pube al sacro/coccige nella regione posteriore; bilateralmente si colloca in corrispondenza delle tuberosità ischiatiche.
La maggioranza della muscolatura pelvica è costituita dall’elevatore dell’ano. Didatticamente, questo muscolo si suddivide in:
– pubo-rettale, avvolgendosi come un’imbragatura attorno alla giunzione anorettale, accentua l’angolo anorettale durante la contrazione e fornisce un contributo primario alla continenza fecale.
– pubo-coccigeo, rappresenta la componente più mediale che si separa; modella lo iato dell’elevatore con aperture per l’uretra, la vagina (femmine) e l’ano.
– ileo-coccigeo.
L’elevazione e il supporto degli organi pelvici sono associati a questi ultimi due fasci muscolari.
I muscoli bulbo-spongioso e ischiocavernoso sono i principali contributori alla porzione superficiale del pavimento pelvico anteriore.
La muscolatura più superficiale del pavimento pelvico posteriore costituisce lo sfintere anale esterno.
I muscoli perineali trasversali attraversano la porzione mediana dell’aspetto superficiale del pavimento pelvico e si fondono con i muscoli bulbo-spongiosi e lo sfintere anale esterno come corpo perineale.
L’apporto nervoso alle strutture del pavimento pelvico deriva essenzialmente dai nervi sacrali S3 e S4 come il nervo pudendo.
L’afflusso di sangue predominante è derivato dai rami parietali dell’arteria iliaca interna.
Funzioni
I muscoli del pavimento pelvico hanno diverse funzioni:
Supporto degli organi pelvici:
– vescica, uretra, prostata (maschi),
– vagina e utero (femmine),
– ano e retto (entrambi i sessi);
Supporto generale del contenuto intra-addominale;
Coadiuvare la continenza di urina e feci;
Contribuire alle funzioni sessuali dell’eccitazione e dell’orgasmo.
Condizioni
Un’ampia varietà di condizioni è attribuibile alla disfunzione del pavimento pelvico a causa di ipertonicità, ipotonicità, perdita del supporto pelvico o preoccupazioni contrastanti. I vari aspetti sono:
Urologico
Minzione difficile: esitazione, ritardo nel flusso urinario;
Cistocele: rigonfiamento o ernia della vescica nella vagina (anteriore);
Uretrocele (prolasso uretrale): rigonfiamento dell’uretra nella vagina (anteriore);
Incontinenza urinaria: fuoriuscita involontaria di urina.
Ginecologico
Dispareunia: dolore con o dopo un rapporto sessuale;
Prolasso uterino: ernia dell’utero attraverso la vagina oltre l’introito;
Prolasso vaginale: ernia dell’apice vaginale oltre l’introito;
Enterocele: rigonfiamento o ernia dell’intestino nella vagina (apicale/posteriore);
Rettocele: rigonfiamento o ernia del retto nella vagina (posteriore).
Colorettale
Costipazione: contrazione paradossale o inadeguato rilassamento dei muscoli del pavimento pelvico durante la tentata defecazione (defecazione dissinergica);
Incontinenza fecale: fuoriuscita involontaria di feci (non correlata alla rottura dello sfintere).
Prolasso rettale: invaginazione del retto oltre il margine anale (Procedentia) o prossimale all’ano (Occulto).
Generale
Dolore pelvico: dolore cronico che dura da tre a sei mesi, non correlato ad altre condizioni definite.
Spasmo dell’elevatore dell’ano: altro termine per il dolore pelvico cronico correlato alla muscolatura dell’elevatore dell’ano.
Proctalgia fugax: dolore spastico fugace, correlato alla muscolatura dell’elevatore dell’ano.
Discesa perineale: rigonfiamento del perineo al di sotto dell’uscita pelvica ossea.
Emorroidi e patologia emorroidaria
Le emorroidi rappresentano una costituente considerevole dell’Anatomia e nella Fisiologia del canale anale.Sono varicosità delle vene del plesso venoso emorroidario deputate alle funzioni di continenza e di evacuazione. Vengono definite come ectasie di uno o più rami dei plessi venosi emorroidari o, piuttosto, come un tessuto spugnoso altamente vascolarizzato, sostenuto da connettivo elastico e fibre della muscolatura liscia in cui una fitta rete di capillari arteriosi contrae anastomosi con i plessi venosi tributari delle vene emorroidarie.
L’etiopatogenesi delle emorroidi prevede, essenzialmente, un’alterazione dello strato di supporto fibro-muscolare della sub-mucosa rettale che, degenerando, provoca una dislocazione dei cuscinetti emorroidari dalla loro posizione anatomica normale fino a prolassarsi, con l’aumentare della pressione endoaddominale, durante la defecazione. Il concetto dell’ipertono del canale anale supporta la teoria dello scivolamento della struttura fibro-muscolare anale e giustifica l’uso dei dilatatori anali crio-termici (Dilatan).
Quando il tessuto emorroidario si manifesta attraverso varie sintomatologie che vanno dal sanguinamento, al prolasso e al dolore, si determina la malattia emorroidaria. Tale condizione gastro-intestinale patologica è enormemente frequente e, la maggior quantità delle persone, ad un certo momento della propria vita, ne viene interessata. I fattori che contribuiscono all’aumento dell’incidenza di emorroidi sintomatiche, nella multifattorialità, includono le predisposizioni individuali (familiarità), fattori alimentari, condizioni che indeboliscono il tessuto di supporto come l’incremento della pressione intra-addominale, condizioni ormonali connessi alla gravidanza e gli sforzi per sollevamenti di carichi meccanici, componenti psicologiche. Entrambi i sessi riportano il picco di incidenza dall’età di 45 a 65 anni. In particolare, i caucasici sono colpiti più frequentemente degli afroamericani e uno status socioeconomico più elevato è associato a una maggiore prevalenza[1]. Pertanto, la malattia emorroidaria sintomatica, nonostante la sua prevalenza e bassa morbilità, è uno dei disturbi più diffusi associati a un impatto significativo sulla qualità della vita. Le opzioni di gestione per tale patologia vanno dalle misure conservative a una varietà di procedure ambulatoriali e chirurgiche.
Chi accede all’ambulatorio proctologico, il più delle volte, è convinto che i disturbi anali siano dovuti alle emorroidi e non si considerano molte altre malattie, sia benigne che maligne, riguardanti l’ano, il retto e il colon con sintomi del tutto sovrapponibili.
Tra l’altro, non sempre viene rispettata la gerarchia che, dalla prevenzione in poi, dovrebbe interessare:
una visita da parte del Medico di Medicina Generale (1° livello);
la visita dello Specialista – Chirurgo generale o Gastroenterologo (2° livello),
la visita dello Specialista Chirurgo coloproctologo, colo-rettale, o di un Esperto di patologie pelvi-perineali (3° livello);
l’eventuale intervento per il recupero funzionale in ambiente specializzato se ricorre uno stato di patologia acuta (ambulatorio di Fisiokinesiterapia) o, se presente una stabilità o cronicità della patologia, il ricorso allo Specialista Chinesiologo Clinico per la somministrazione di uno specifico piano di trattamento con Attività Fisica Adattata (A.F.A.).
Fermo restando che la cultura personale dovrebbe essere in grado di fare abbattere i falsi pudori, l’argomento dovrebbe essere affrontato con serenità.
Il dolore non è il principale sintomo della malattia emorroidaria, poiché, contrariamente all’opinione diffusa, la principale sintomatologia è fornita dal sanguinamento (“emo-reo”, sangue che scorre). Le cause maggiormente frequenti di ematochezia sono benigne e, nella maggioranza dei casi, il trattamento è possibile tramite terapia farmacologica o ambulatoriale. L’ematochezia, sebbene sia un fenomeno isolato, non va sottostimato, soprattutto nei soggetti a rischio, per escludere il cancro colorettale.
L’esclusione di neoplasie è l’elemento imprescindibile e fondamentale nella gestione di sintomatologie anali.
Anatomia e Fisiopatologia delle emorroidi
Le emorroidi sono gruppi di tessuti vascolari, muscoli lisci e tessuti connettivi, che si trovano lungo il canale anale in tre colonne:
posizione laterale sinistra;
posizione anteriore destra;
posizione posteriore destra.
Le emorroidi sono universalmente presenti negli individui sani come cuscini che circondano le anastomosi tra l’arteria rettale superiore e le vene rettali superiore, media e inferiore. Tuttavia, il termine “emorroide” viene comunemente utilizzato per indicare il processo patologico della malattia emorroidaria sintomatica invece di denotare la normale struttura anatomica.
La classificazione di un’emorroide corrisponde alla sua posizione rispetto alla linea dentata.Le emorroidi esterne si localizzano distalmente alla linea pettinea; la componente interna è prossimale.[2][3][4]
Le emorroidi esterne si trovano al di sotto della linea dentata e si sviluppano dall’ectoderma a livello embrionale. Sono ricoperti da anoderma, composto da epitelio squamoso, e sono innervati da nervi somatici che forniscono la pelle perianale in grado di produrre dolore. I deflussi vascolari delle emorroidi esterne avvengono attraverso le vene rettali inferiori nei vasi pudendo e, perciò, nelle vene iliache interne.
Tipicamente, i sintomi correlati alle emorroidi esterne includono discomfort con senso di pesantezza anale, dolore quando è presente trombosi e prurito legato alla difficoltà ad ottenere una adeguata igiene perianale per la concomitante presenza di marische.
Le emorroidi interne, al contrario, si trovano sopra la linea dentata e derivano dall’endoderma. Sono ricoperti da epitelio colonnare innervato da fibre nervose viscerali e, quindi, non possono causare dolore. I deflussi vascolari delle emorroidi interne comprendono le vene rettali medie e superiori che, successivamente, drenano nei vasi iliaci interni.
Le emorroidi interne si presentano con rettorragia in assenza di dolore, prolasso, perdite di mucose e senso di evacuazione incompleta.
Le emorroidi interne vengono stratificate in base alla gravità del prolasso in 4 gradi (schema classificativo di Parks):
le emorroidi interne di primo grado, sono ubicate all’interno del canale anale e, conseguentemente, sono visibili solo tramite esame anoscopico. Quindi, non sono prolassate fuori dal canale, caratterizzate da una vascolarizzazione prominente, generalmente indolori al punto che il soggetto si rende conto della patologia solo per effetto del sanguinamento.
le emorroidi di secondo grado, prolassate al di fuori del canale durante i movimenti intestinali o lo sforzo dell’atto defecatorio per rientrare spontaneamente; si associano a sanguinamento e a fastidio anale.
le emorroidi di terzo grado,prolassano persistentemente all’esterno del canale analee richiedono una riduzione manuale per il riposizionamento all’interno del canale.
le emorroidi di quarto grado sono irriducibili e, nonessendo riposizionabili all’interno del canale, lamucosa anale permane costantemente al di fuori della rima anale nonostante i tentativi di normalizzazione con la manipolazione.
L’esatta fisiopatologia della malattia emorroidaria sintomatica è poco conosciuta. Le teorie sulle emorroidi come varici anorettali sono obsolete, poiché, i soggetti con ipertensione portale e varici non presentano una maggiore incidenza di emorroidi[5]. Attualmente è più accreditata la teoria del rivestimento scorrevole del canale anale; questa teoria propone che le emorroidi si manifestino quando i tessuti di supporto dei cuscinetti anali si deteriorano. Si ritiene che l’incremento dell’età, un’attività di intensi sollevamenti di carichi meccanici, lo sforzo derivante dalla defecazione associato a una prolungata seduta nel water, contribuiscano alla manifestazione del processo.
Le emorroidi rappresentano, pertanto, il termine patologico per descrivere l’anormale spostamento verso il basso dei cuscini anali che causano la dilatazione venosa[6].
All’esame istopatologico, i cambiamenti osservati nei cuscinetti anali includono dilatazione venosa anormale, trombosi vascolare, processo degenerativo nelle fibre di collagene e nei tessuti fibroelastici, distorsione e rottura del muscolo sotto-epiteliale anale. Nei casi più gravi, una reazione infiammatoria prominente che coinvolge la parete vascolare e il tessuto connettivo circostante è stata associata a ulcerazione della mucosa, ischemia e trombosi[7].
Attività Fisica Adattata e disfunzioni pelvi-perineali
Sebbene il numero di persone che utilizza con regolarità l’attività fisica per ottenere benessere rimane troppo basso, il movimento svolge un ruolo determinante per la salute dell’essere umano tanto sull’efficienza del corpo quanto quello psicologico.
L’Attività Fisica Adattata (A.F.A.) dimostra una forte efficacia sulle disfunzioni pelvi-perineali poiché contrasta l’ipocinesia, consente di cambiare lo stile della propria vita correggendo le anomalie e i vizi, permette di migliorare la qualità della vita, incrementa l’autonomia personale. In realtà, diventa un importante mezzo per la prevenzione di patologie consentendo il mantenimento di un buono stato di salute.
In particolare, rappresenta il trattamento più idoneo nell’ambito delle disfunzioni perineali quando, ormai, si è risolta la fase acuta e non si necessita della prescrizione di un trattamento in ambiente sanitario specifico.
In pratica, quando il soggetto ha ormai stabilizzato la sua patologia, nella fase di mantenimento o come trattamento preventivo nei casi a maggiore rischio, o se si è instaurata una cronicità della patologia, l’Attività Fisica Adattata (A.F.A.) fornisce un valido aiuto.
La salute del pavimento pelvico è di fondamentale importanza per l’intera durata della vita!
Piano di trattamentodi “Chinesiologia rieducativa pelvi-perineale per il ri-apprendimento propriocettivo e posturo-cinetico volto al miglioramento dell’endurance muscolare e del corretto coordinamento dell’attività muscolare”[8].
Fattori di inclusione
Stato patologico stabile;
Attività fisica inserita in “INDICAZIONI”;
Considerazione dei processi involutivi dell’età e stato residuo delle capacità fisiche di base;
Capacità di apprendimento di Esercizi Adattati per il miglioramento della compliance specifica e generale;
Capacità di recupero e di controllo, per quanto possibile, del pavimento pelvico e dei muscoli peri-anali.
Disponibilità a lavorare sui parametri metabolici attraverso l’Esercizio Fisico Adattato per migliorare le aspettative della qualità di vita, prevenire gli stati di deficienza funzionale e motoria, migliorare le capacità fisiche di base e, essenzialmente, la resistenza e la forza mio-fasciale generale e, in particolare, il potenziamento del pavimento pelvico, del power house e del corestability addominale.
La “Pianificazione Specialistica per Attività Motoria Preventiva e Adattata (A.M.P.A.) ed Esercizio Fisico Adattato (E.F.A.)”:
– viene indirizzata al piano perineale con ginnastica pelvica,
– generalizzato al recupero delle qualità fisiche di base e delle grandi funzioni organiche,
– utilizza una protezione ergonomica con specifico training del pavimento pelvico associato a presa di coscienza del perineo,
– prevede l’assegnazione di esercizi domiciliari atti a stimolare la componente tonica muscolare e l’endurance, dopo averne appresi i contenuti.
Al fine di raggiungere l’obiettivo primario del recupero della disfunzione pelvi-perineale si consiglia:
la rettificazione delle disfunzioni pelvi-rachidea attraverso la riprogrammazione degli specifici engrammi percettivo-sensoriali e motori,
il riapprendimento propriocettivo e posturo-cinetico,
la rieducazione pelvi-perineale,
l’utilizzo delle tecniche di Attività Fisica Adattata ritenute più idonee.
Una corretta programmazione, la gestione e la somministrazione di protocolli di A.F.A. – Attività Fisica Adattata, condotta in ambiente altamente specializzato, garantisce i soggetti in salute e/o con patologie croniche clinicamente stabilizzate e che presentano una co-morbilità con altre patologie non trasmissibili, impone delle scelte tecniche e tattiche.
Per effetto dei disordini bio-meccanici e per migliorare lo stato di efficienza fisica dell’apparato locomotore, in genere, si consiglia:
tipologia di esercizio: regime aerobico adattato;
intensità: al 70÷80% Fcmax;
durata min/die: Da 35’ a 60’;
frequenza n° sessioni/settimana: 1÷2 esclusivamente in ambiente specializzato (per quanto è possibile); + 3÷4 a domicilio secondo indicazioni personalizzate fornite.
Monitorare con cardiofrequenzimetro in fascia verde: HRmax 80% Fcmax
Per quanto attiene alla regione pelvica -peri-anale:
tipologia di esercizio: Esercizio fisico a carico naturale, contro-resistenza, in regime isotonico, isometrico, auxotonico, per il potenziamento dei principali distretti muscolari del bacino e, con particolare riguardo ai muscoli pelvici e perianali, per lo sviluppo della resistenza e della forza muscolare;
intensità: al 50÷70% Fcmax – 1 RM
durata min/die: 1 ÷ 3 serie da 20÷30 ripet. senza sforzo, pause da 15” a 2’
frequenza n° sessioni/settimana: 1÷2 esclusivamente in ambiente specializzato; + 2÷3 a domicilio secondo indicazioni personalizzate fornite.
Monitorare con cardiofrequenzimetro in fascia verde: HRmax 70% Fcmax
Gli obiettivi da raggiungere devono essere orientati a:
Training Muscolare:
esercizi isotonici per le fibre fasiche (tipo II – fibre bianche – fast twitchfibres): rapide contrazioni massimali del muscolo Pubo-coccigeo per 1÷2 sec., seguite da un periodo di riposo doppio 2÷4 sec. (10÷15 ripetizioni);
esercizi isometrici per le fibre toniche (tipo I – fibre rosse – slow twitchfibres): contrazioni sub-massimali per 4÷5 sec., e riposo doppio 8÷10 sec. prima di eseguire la contrazione successiva (10÷15 ripetizioni). L’intera serie di esercizi va effettuata 3÷5 volte al giorno anche a domicilio.
Ginnastica addominale ipopressiva associata ad esercizi isometrici del pavimento pelvico:
acquisizione della consapevolezza del pavimento pelvico e della capacità di compiere contrazioni e decontrazioni miofasciali (corticalizzazione): si verifica l’interferenza di pattern disfunzionali quali glutei ed adduttori (muscoli agonisti) e addominali e diaframma (muscoli antagonisti), che devono essere inibiti durante l’attività perineale.
Potenziamento dei distretti mio-fasciali del Power house e del Core Stability al fine di realizzare un corsetto muscolare capace di difendere la colonna vertebrale in occasione di sollevamenti (salvaguardando il pavimento pelvico ed evitando sovraccarichi endo-perineali);
Apprendimento della retroversione di bacinoe applicazione ergonomica di corretti schemi motori a situazioni posturali quotidiane;
Apprendimento del tetraritmo respiratorio e distinzione tra respirazione toracica e respirazione diaframmatica;
Svolgimento di specifici esercizi di Attività Fisica Adattata effettuati in retroversione di bacino e con scarico completo dei carichi meccanici, interessanti i muscoli dell’intero sistema pelvico e del piano perineale, finalizzati al recupero della funzionalità;
Esercizi di propriocezione e di equilibrio su piani instabili e pedane elastiche con idonee stimolazioni retro-attive telencefaliche e corticalizzanti per il controllo degli schemi motori;
Prevenire o attenuare i momenti di stimolazione algica utilizzando scarichi meccanici localizzati al pavimento pelvico;
Mantenere una condizione di benessere psico-fisico, svolgendo un serio impatto positivo sulla sfera psichica ed emotiva.
Automatizzazione:
Integrare la contrazione del pavimento pelvico agli sforzi compiuti durante le attività quotidiane: nel tossire, nel sollevare o spostare un peso, scendendo le scale, nel valicare un ostacolo, etc…
Normalizzazione della disfunzione osteoarticolare:
Normalizzazione della disfunzione meccanico-strutturale delle componenti pelviche (la variazione dell’esatto orientamento spaziale delle strutture ossee modifica la tensione mio-fasciale e legamentosa del pavimento pelvico);
Restituire una corretta informazione meccanica normalizzando la disfunzione osteoarticolare senza agire sulla perdita di tono del muscolo elevatore dell’ano, che sarà recuperata (per quanto possibile) tramite la ginnastica perineale;
Rinforzare il pavimento pelvico in forma tonica per mezzo di una sequenza di posture mantenute per 10÷25 sec. in “apnea espiratoria” associata ad una “falsa inspirazione” (contrazione volontaria m. elevatori gabbia toracica);
Generare un’ipopressione con una “falsa inspirazione” o “aspirazione diaframmatica”, ossia, una pressione intraddominale negativa che indurrà una contrazione riflessa (involontaria) della muscolatura perineale, responsabile di incrementare il tono di base.
PREVENZIONE:
Sorveglianza perineale preventiva;
Abbattimento rischi per il pavimento pelvico;
Evitare i sovraccarichi articolari;
Evitare uno stile di vita sedentario e agevolare il ritorno al “lavoro” con un progressivo controllo del pavimento pelvico e del piano perineale (allenamento allo sforzo);
Modificare il proprio stile di vita;
Miglioramento del gesto motorio con ricerca della eliminazione dei momenti lesivi e disfunzionali per ricavarne una migliore economicità ergonomica;
Prevenire o attenuare i momenti di stimolazione algica utilizzando scarichi meccanici localizzati al pavimento pelvico;
Riorganizzazione delle abitudini di vita con adeguato uso di misure protettive ergonomiche in riferimento all’attività quotidiana (work hardening) secondo corretti schemi ergonomici bio-meccanici e biodinamici ed evitando generosi e lunghi periodi di inattività e di astensione dalla regolare attività motoria (aumento del rischio di decondizionamento muscolare);
Esercizi da svolgere a domicilio (insistendo sulla regolarità esecutiva per mantenere nel tempo il benessere raggiunto);
Indicazioni:
Lavoro in ambiente specializzato per la somministrazione di Attività Fisica Adattata (A.F.A.): una÷due volte per settimana individualmente con rapporto One to One (in seguito è possibile inserimento in un mini-gruppo di lavoro).
Lavoro a domicilio: tutti i giorni, come da programmazione e secondo le indicazioni che saranno appositamente fornite, si seguiranno corrette norme motorie ed ergonomiche;
Rivalutazione in follow up facendosi seguire dagli Specialisti che, in équipe, ruotano intorno alla problematica: Chirurgo-Proctologogo, Urologo, Ginecologo, Gastro-Enterologo, … Terapista della Riabilitazione (se ricorre una fase acuta), Chinesiologo Clinico o Dottore in Scienze e Tecniche delle Attività Motorie Preventive e Adattate (in seno alla cronicità e stabilità), Psicologo, …
Si effettuerà un follow up a circa 12÷16 settimane di distanza dall’inizio del piano di trattamento per verificare se il lavoro somministrato è adeguato secondo gli indicatori di efficacia del protocollo concordato; si creerà un confronto costante con il Chirurgo-Proctologogo, Urologo, Ginecologo, Gastro-Enterologo, … ricercando un costante coordinamento per una prospettiva in team.
La Chinesiologia Rieducativa distrettuale e il percorso chinesiologico è sequenziale.
Ha l’obiettivo di facilitare la presa di coscienza dell’attività muscolare perineale tramite una “corticalizzazione”degli eventi motori di un’area corporea poco rappresentata delle aree primarie corticali, sia motoria che sensitiva.
La PRESA DI COSCIENZA è la fase più delicata dell’intero programma chinesiologico. Perciò, da essa dipende il buon esito del risultato complessivo nel recupero del Pavimento Pelvico e perineale.
La postura di lavoro ideale per lo stretch reflex perineale (riflesso di stiramento del perineo) deve produrre consapevolezza della funzione fisiologica non rilevata coscientemente. È uno strumento percettivo che consente di percepire le attività fisiologiche non apprezzabili a livello cosciente in condizioni normali. Aiuta ad evidenziare l’informazione recettoriale interferendo e migliorando il controllo dell’area con ridotta capacità sensitiva e motoria o di una funzione.
Quando la coscienza zonale migliora e la percezione mio-fasciale è più intensa, l’intervento di tipo chinesiologico permette il mantenimento di una adeguata capacità propriocettiva che riporta allo stato fisiologico.
L’ELIMINAZIONE DELLE SINERGIE AGONISTE ED ANTAGONISTE è indissociabile dalla fase precedente.
Dopo aver preso coscienza dell’esistenza anatomica del perineo e della possibilità di provocare movimenti volontari dei muscoli pelvici (corticalizzazione), si verifica l’interferenza di pattern disfunzionali con i muscoli agonisti quali i glutei e i muscoli adduttori, con i muscoli antagonisti quali gli addominali e il diaframma. Questi complessi muscolari, di fatto, durante l’attività perineale devono essere inibiti.
Nei casi più complessi di inversione del comando è utile ricorrere all’utilizzo di apparecchiature di Biofeedback (ma la competenza spetta ad altre figure professionali).
Se il soggetto è in grado di effettuare una contrazione isolata del muscolo Pubo-Coccigeo si avvia il TRAINING MUSCOLARE del Pavimento Pelvico e perineale individualmente e, successivamente, in mini-gruppi di lavoro.
Questa fase, in realtà, diventa il cardine del trattamento educativo.
Il training agisce sull’elevatore dell’ano, incrementando la forza, la resistenza allo sforzo e la velocità di accorciamento del muscolo. Modificando la sua capacità elastica e di estensibilità si agisce sia sulle fibre slow-toniche che sulle fibre fast-fasiche. Pertanto, il protocollo prevede sia esercizi isotonici che esercizi isometrici.
Gli ESERCIZI ISOTONICI, nella realtà, consistono in rapide contrazioni del muscolo Pubo-Coccigeo, seguite da un periodo di riposo doppio rispetto al periodo di contrazione.
Generalmente, il lavoro si facilita con lo stretch reflex (riflesso miotatico) e la massima resistenza opposta dall’Operatore, poiché, l’attivazione dei motoneuroni fasici richiede il massimo sforzo (massima tensione-massima velocità). L’aumento della contrazione fasica dell’elevatore dell’ano, pertanto, assume importanza nei casi di aumenti della pressione endo-addominale.
Quando i muscoli del pavimento pelvico sono contratti, a seguito di contrattura muscolare per effetto di compressione strutturale mio-fasciale e/o neurologica zonale con conseguente flogosi localizzata, si usa il Reverse Kegel. Cioè, si aumentano i tempi di rilassamento muscolare rispetto alla contrazione (il contrario del tradizionale metodo di Kegel). In pratica, si incrementa la presa di coscienza dei muscoli da contrarre escludendo l’interferenza dei muscoli accessori: glutei, addominali, diaframma e adduttori, per evitare di peggiorare la situazione.
Gli ESERCIZI ISOMETRICI, invece, migliorano la performance delle fibre toniche. Per esattezza, si basano su carichi medi e numerose ripetizioni di ciascuna contrazione intervallata da adeguati periodi di riposo (durata doppia del tempo di contrazione). Si caratterizzano per il mantenimento della contrazione muscolare per almeno 6 secondi, sviluppando una forza compresa tra il 50% e il 75% della forza massimale. Questi esercizi, aumentando il tono di base dell’elevatore dell’ano ne riducono l’affaticabilità migliorandone l’endurance e, di conseguenza, la continenza a riposo.
L’INTEGRAZIONE DELL’ATTIVITÀ MUSCOLARE CON L’ATTIVITÀ DELLA VITA QUOTIDIANA consiste in attività motorie del Pavimento Pelvico e perineale. Vengono usati esercizi che si integrano con la contemporanea attivazione della muscolatura agonista ed antagonista.
In pratica, mimano situazioni tipiche della vita quotidiana sfruttando un alto grado di integrazione corticale per associare o dissociare l’attività dei gruppi muscolari dedicati.
Di fatto, la contrazione perineale deve essere elaborata per poi essere utilizzata sotto forma di impulsi sensoriali o visivi.
Dato che facilita la dissociazione del perineo da altri muscoli (agonisti-antagonisti) assume importanza primaria sia nella presa di coscienza che nel training di rinforzo muscolare.
Questa fase finale non sempre viene raggiunta dall’utenza. In ogni caso, però, deve rappresentare il traguardo del training perineale.
Conclusione
A seguito di un’accurata anamnesi e un’attenta valutazione funzionale, sì programma l’attività da effettuare considerando le capacità fisiche-metaboliche residue, si calibrano i parametri da utilizzare durante l’esecuzione degli esercizi e vengono spiegate le norme comportamentali da intraprendere e mantenere per tutto il periodo di attività. Questi elementi sono basilari per raggiungere gli obiettivi pre-fissati e per mantenere i risultati perseguiti e raggiunti con il proprio percorso individualizzato.
Un’attività fisica improvvisata, non attentamente calibrata e non adeguatamente programmata, può determinare disturbi al pavimento pelvico e restituire risposte anomali come la perdita di feci o di urine, diastasi addominali o prolassi. Tale esito si riscontra, soprattutto, quando si opera con frequenti sollevamenti di pesi, in occasione di salti o di balzi, in improvvise attività in cui si crea un brusco aumento della pressione endo-addominale.
È indispensabile eseguire una corretta meccanica della respirazione coordinando il ritmo dell’atto respiratorio e la ventilazione polmonare durante l’esecuzione degli esercizi.
Per tutelare il pavimento pelvico in tutte le situazioni potenzialmente a rischio, assume importanza fondamentale la presa di coscienza che consente di selezionare la percezione dei muscoli pelvici rispetto ai glutei e alle cosce.
Lo svolgimento di alcuni esercizi interessanti la contrazione e il rilassamento dei muscoli del pavimento pelvico, consente di ottenere il potenziamento dell’intero sistema di sostegno degli organi pelvici.
Una corretta programmazione, la gestione e la somministrazione di protocolli di A.F.A. – Attività Fisica Adattata, condotta in ambiente altamente specializzato, garantisce i soggetti in salute e/o con patologie croniche clinicamente stabilizzate e che presentano una co-morbilità con altre patologie non trasmissibili, impone delle scelte tecniche e tattiche.
Gli obiettivi da raggiungere devono essere orientati a:
Training muscolare, ginnastica addominale ipopressiva associata ad esercizi isometrici del pavimento pelvico, potenziamento dei distretti mio-fasciali del power house e del Core Stability, apprendimento della retroversione di bacino e del tetraritmo respiratorio, propriocezione, benessere psico-fisico, normalizzazione della disfunzione osteoarticolare, prevenzione.
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[8] Protocollo del Prof. Carmelo Giuffrida 2022 studiato secondo parametri e principi della “Chinesiologia Sinergetica” e della “Tensintegrità”.
Nella BPCO è presente una componente psicologica importante ed è compito del supporto psicologico fornire un aiuto al paziente e ai familiari per accettare la diagnosi e conviverci nel miglior modo possibile. Gli interventi prevedono: psicoeducazione per creare la compliance, gruppi di sostegno rivolti ai caregiver e terapia individuale per la gestione dello stress, derivante dalle difficoltà che la malattia comporta.
Abstract
Scopo del presente articolo è quello di valutare l’importanza dell’intervento psicologico nei pazienti affetti da BPCO. L’impatto della malattia sulla sfera psicologica si manifesta con una riduzione della QdV. L’attenzione deve essere posta ai pazienti e ai loro caregiver attraverso interventi che agiscono sull’adattamento alla malattia e sulla ricerca delle risorse personali e sociali per individuare tecniche di risoluzione dei problemi efficaci. La migliore aderenza terapeutica può essere ottenuta grazie a modelli di relazione empatica in uno scambio reciproco che consente al paziente di essere protagonista attivo nella cura.
La Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) è una malattia infiammatoria cronica caratterizzata da persistenti sintomi respiratori e limitazioni al flusso aereo, che è dovuta ad anomalie delle vie aeree e/o alveolari solitamente causate da una significativa esposizione a particelle nocive o gas. I sintomi respiratori più comuni comprendono la dispnea, la tosse e/o produzione di espettorato. Può essere caratterizzata da periodi acuti con peggioramenti dei sintomi respiratori. Il principale fattore di rischio è il fumo di sigaretta inalato, ma contribuiscono anche altre esposizioni ambientali, anomalie genetiche, anomalo sviluppo polmonare e invecchiamento precoce. Può associarsi nella maggior parte dei pazienti a malattie croniche concomitanti, che ne aumentano la mortalità e morbidità. Sulla base delle più recenti Linee Guida Gold, sono disponibili alcuni sistemi di classificazione della gravità della BPCO (Gold, 2019).
La BPCO è un grave problema sanitario in tutto il mondo. La crescita del numero di fumatori e l’aumento del numero degli anziani sono i principali fattori responsabili della maggiore prevalenza della malattia a livello mondiale. Secondo i risultati del terzo National Health and NutritionExamination Survey, l’aspettativa di vita si riduce di 5,8 anni negli uomini di 65 anni con BPCO in stadio GOLD 4 e di altri 3,5 anni se si continua a fumare (Nhanes III, 2009).
La pandemia di Covid-19, inoltre, ha comportato un rischio particolare per le persone affette da BPCO, accentuando alcune criticità e provocando un malessere psicologico generale, generato da paura e vissuti di solitudine.
Essendo una patologia cronica, interferisce negativamente sul benessere mentale dei pazienti che ne sono affetti, determinando l’aumento dei disturbi d’ansia e dell’umore.
Nel 2006 l’American Thoracic Society e l’EuropeanRespiratory Society hanno definito la riabilitazione polmonare come un intervento multidisciplinare rivolto a pazienti affetti da patologie respiratorie croniche per ridurre i sintomi e ottimizzare lo stato funzionale. Il programma è multidisciplinare e include la funzione fisica e psicosociale (ATS/ERS, 2006).
La riabilitazione polmonare è l’insieme degli interventi che si basano sulla valutazione del paziente con terapie personalizzate in grado di migliorare la condizione fisica e psicologica delle persone affette da malattie respiratorie croniche e promuovere l’aderenza a programmi per il benessere del paziente (McCarthy et al.2015).
Questi pazienti sperimentano difficoltà psicologiche, sociali, disfunzione cognitiva e neuropsicologica; di solito diventano ansiosi e spaventati, manifestando ritiro sociale, rabbia, maggiore dipendenza nelle Adl/ Iadl e la paura e l’ansia a loro volta causano più dispnea.
I pazienti non hanno in questo caso solo bisogni fisici ma anche relazionali, richiedendo ascolto, chiarezza, contatto fisico ed emotivo, condivisione e comprensione dei loro stati d’animo. Il supporto psicologico si configura come una risorsa durante l’intero processo della malattia con un approccio centrato sulla persona (Rogers, 1951).
Lo psicologo interviene riconoscendo i bisogni del paziente, aiutandolo nel grande percorso di cambiamento fisico e psicologico che dovrà gestire inevitabilmente con la malattia. L’attività psicologica offre uno spazio protetto, importante per il paziente, in cui riconoscere le difficoltà esistenti e promuovere il processo di adattamento. In questo modo diventa possibile acquisire gli strumenti necessari per affrontare il disagio indotto dalla malattia ed in particolare, permette di apprendere, riconoscere e trattare emozioni negative, pensieri disfunzionali, comportamenti disadattivi e interiorizzare modalità efficaci di problem solving.
Lo stress della gestione della patologia agisce anche sui caregiver, infatti il carico di chi cura può portare la famiglia ad avere livelli elevati di Emotività Espressa che rappresenta un’elevata e intensa risposta emotiva alla situazione (Vaughn, 1988). Alcuni interventi possono aiutare le famiglie a ridare un senso a quello che stanno vivendo e a non sentirsi soli, come ad esempio interventi psicoeducativi per accrescere le conoscenze in merito alla malattiae gruppi di sostegno con l’obiettivo di supportare psicologicamente chi cura, evitando l’isolamento e sostenendo la rimotivazione. Il sostegno psicologico appare particolarmente importante per le famiglie, al fine di mantenere un atteggiamento di fiducia, prendere contatto con le proprie emozioni e dedicarsi del tempo per sestessi.
Per i pazienti con disturbi psicologici gravi è possibile intervenire, con una terapia individuale breve strategica che permette di costruire interventi basati su obiettivi prestabiliti e sulle caratteristiche specifiche del problema utilizzando tecniche flessibili molto efficienti ed efficaci (Watzlawick, Nardone, 1997).
Un importante contributo che consente al paziente di essere messo al centro della cura deriva dal progressivo sviluppo della Medicina Narrativa. La Consensus Conference, promossa dall’Istituto Superiore di Sanità, ha segnato una tappa fondamentale con lo scopo di produrre delle raccomandazioni per lo sviluppo futuro e l’implementazione della NBM. Questa metodologia focalizza l’attenzione sulla persona malata, intesa come soggetto portatore di bisogni psicologici, sociali, esistenziali, documentabili attraverso lo strumento della narrazione (Conferenza di consenso, 2015).
Il miglioramento dello stato di salute, dei sintomi fisici e psicologici e della QdV deriva da un aiuto multidisciplinare che combina interventi medici, psicologici, sociali e la rieducazione dello stile di vita.
Una relazione empatica con il paziente affetto da BPCO in un setting di fiducia e comprensione è un passo in avanti in grado di massimizzare l’efficacia del trattamento terapeutico.
Bibliografia
American Thoracic Society, EuropeanRespiratory. ATS/ERS statement on pulmonaryrehabilitation. Am J RespirCrit Care Med. 2006;173:1390-1413.
Global Strategy for the Diagnosis, Management and Prevention of COPD, Global Iniative for Chronic Obstructive Lung Disease (GOLD) 2019. http://www.goldcopd.org/.
Istituto Superiore di Sanità, CNMR- Centro Nazionale Malattie Rare, Conferenza di Consenso. Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico-degenerative. I Quaderni di Medicina, Il Sole24Ore Sanità, Allegato al n.7, Milano, 2015.
McCarthy B, Casey D, Devane D, Murphy K, Murphy E, LacasseY. Pulmonaryrehabilitation for chronicobstructivepulmonarydisease. Cochrane DatabaseSyst Rev2015;2(2): CD003793
Rogers,Carl. (1951). Client-CenteredTherapy:ItsCurrent Practice, Implications and Theory. London: Constable.
Shavelle RM, Paculdo DR, Kush SJ, Mannino DM, Strauss DJ. Life expectancy and years of life lost in chronic obstructive pulmonarydisease : findingsfrom the NHANES III Follow-up Study. Int J Chron ObstructPulmonDis. 2009;4:137.
Vaughn, C.E. (1988). Introduzione al concetto di emotività espressa, in Atti del Convegno internazionale “Schizofrenia e famiglia: modelli a confronto”. Notizie ARS, 2(3), 6-11.
Watzlawick P., Nardone G. (1997), Terapia breve strategica, Cortina Raffaello, Milano.
Che si preferisca l’inverno o l’estate non ha importanza, a nessuno piacciono gli acciacchi e le malattie stagionali.
Le temperature che calano portano inevitabilmente ad alcuni disturbi, dovuti a un abbassamento delle difese immunitarie e una maggiore aggressività di virus e batteri.
Inoltre temperature più basse significano il più delle volte anche una minore aerazione dei locali e una più alta concentrazione di persone in una stessa stanza, e questo comporta che per i virus è molto più semplice viaggiare da un ospite a un altro.
Esistono diversi metodi che permettono la cura, ma anche la prevenzione, tra cui la possibilità di acquistare integratori per il sostegno alle difese immunitarie su alcuni siti come https://www.dulacfarmaceutici.com/it/integratori-difese-immunitarie. Ma vediamo nello specifico quali sono i malanni di stagione più frequenti e in che modo è possibile difendersi.
Malanni di stagione: quali sono i più frequenti
La maggior parte dei malanni di stagione sono quelli che prendono in considerazione le vie respiratorie e che possono più facilmente diffondersi proprio per via aerea.
Questo spiega perché sono malanni tipici di questo periodo, quando più difficilmente si procede con un aerazione dei locali e le persone preferiscono concentrarsi tutte in uno stesso posto, nel loro tempo libero.
I più frequenti, quindi, sono:
• Raffreddore, spesso causato da Rhinovirus.
• Mal di gola, solitamente causato dallo stesso virus del raffreddore o dallo Streptococcus, un batterio.
•Laringite, che colpisce principalmente i bambini.
• Bronchite, con tosse, sibili e difficoltà respiratorie.
• Influenza, caratterizzata da tosse, febbre, dolori muscolari, mal di gola, naso chiuso e cefalee.
Come proteggersi da questi malanni
La maggior parte delle persone non si preoccupa di proteggersi troppo da questo tipo di malanni, se non coprendosi maggiormente e cercando di restare al caldo.
Il più delle volte, infatti, il loro trattamento consiste nell’assumere farmaci necessari all’attenuazione dei sintomi, una volta che questi compaiono, e nei casi più gravi l’uso di antibiotici.
Ma il trattamento di alcuni malanni dovrebbe passare dalla prevenzione, evitando posti affollati, preoccupandosi della propria igiene (e quindi lavandosi spesso le mani), portando mascherine quando necessario e arieggiando spesso i locali.
Uno dei metodi più efficaci di prevenzione, inoltre, risulta essere l’assunzione di vitamina C tramite alimentazione o, ancora più efficace, integratori.
L’uso di integratori risulta più efficace in quanto permette l’assunzione della giusta quantità di vitamina C, senza rischio di andare in calo, e spesso in associazione ad altre sostanze benefiche che ne facilitano l’assorbimento.
Perché la vitamina C funziona?
La vitamina C è una sostanza che si trova in abbondanza in alcuni alimenti come ad esempio kiwi, carote, agrumi, uva, cavolfiori, verdura a foglia, pomodori, patate e molti altri.
Il vero nome della vitamina C è acido ascorbico ed è stato visto essere un potente antiossidante, in grado perciò di combattere i radicali liberi, sostanze che facilitano il deterioramento cellulare.
Questo comporta che la vitamina C risulta essere estremamente efficace contro l’invecchiamento ma è anche un forte alleato del nostro sistema immunitario, innalzando le sue difese.
Ciò che nello specifico è in grado di fare è:
• Contrastare i danni dei radicali liberi.
• Aiuta a far assorbire il ferro dal corpo.
• Aiuta la produzione di collagene.
• Aiuta il metabolismo di proteine.
• Sostiene il processo di guarigione dalle ferite e riparazione dei tessuti.
• Mantiene in salute ossa, cartilagini e denti.
• Aumenta le difese immunitarie.
In conclusione
Anche chi ama questa stagione sicuramente non apprezza i malanni di stagione, che puntualmente si ripresentano tutti gli anni.
L’arma migliore contro questi è e sarà sempre la prevenzione, applicando alcuni accorgimenti nel quotidiano o assumendo integratori utili al sostegno delle difese immunitarie, come la vitamina C.
Dott.ssa Annamaria Venere
Sociologa Sanitaria;
Criminologa Forense;
Socio AICIS (Associazione Criminologi per l’Investigazione e la Sicurezza);
Amministratore Unico: AV eventi e formazione, Catania;
Direttore editoriale: Medicalive Magazine;
annamariavenere.it
La detenzione rappresenta, per qualsiasi persona ne venga coinvolta, un evento traumatico, al di là della meritevolezza o meno della pena subita. Questo perché il detenuto, al momento dell’ingresso in carcere, deve per forza di cose abbandonare la quotidianità, il lavoro e le relazioni sociali fino ad allora vissute. La detenzione, però, non comporta un alienamento soltanto dal mondo esterno, ma anche da tutto ciò che ha a che fare con la sfera affettiva, dalle relazioni familiari a quelle sessuali e sentimentali (Ceraudo, 1999).
Poiché, dunque, l’affettività rappresenta un fattore determinante per il benessere psicologico e la riabilitazione dei detenuti, la privazione e la mancanza di contatti con la famiglia o gli amici possono avere un impatto negativo sulla salute mentale e sulla capacità di adattamento a un ambiente spesso ostile e isolante (Maslow, 1997). In Italia, in particolare, la realtà carceraria, nella maggior parte dei casi, è caratterizzata da sovraffollamento, condizioni di vita precarie e una carenza di programmi riabilitativi e di supporto psicologico: questo rende ancora più cruciale l’attenzione alle tematiche affettive e relazionali, al fine di integrarle nel processo di detenzione e riabilitazione del detenuto. Ciò però si scontra con criteri normativi e applicativi spesso di difficile coniugazione con le necessità psicosociali (Manca, 2019).
La dimensione affettiva: legalità costituzionali e difficoltà applicative In base agli artt. 2, 3, 25 e 27 della Costituzione, lo Stato ha il dovere di “assicurare la dignità della persona” anche all’interno dell’istituzione carceraria. Per tale motivo, se con “affetto” intendiamo l’insieme delle componenti relazionali, familiari e sessuali, ne deriva che la tutela della dimensione affettiva è parte integrante della dignità umana (Manca, 2019). Se da un lato, però, tale dimensione è rimarcata all’interno dell’ordinamento penitenziario, ci sono degli ostacoli che impediscono, specie nel contesto italiano, una completa fruizione della sfera affettiva da parte del detenuto, tanto da farne per molti un problema di legalità costituzionale.
Ne emergerebbero, infatti, i presupposti di violazione del principio di legalità delle pene (art. 25 Cost.), della libertà di disporre il proprio corpo (art. 13 Cost.), della violazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.) e, per l’appunto, della dignità personale (art. 2 Cost.) (Purgiotto, 2019). In realtà, integrare la dimensione affettiva, nei canoni sopra espressi, all’interno del carcere non è semplice, sia per la difficile situazione delle carceri italiane, che spesso non permettono la fruizione di adeguati programmi di riabilitazione sociale, che in relazione ad alcuni regimi di detenzione.
Per fare un esempio, si pensi al 41-bis: appare chiaro che in determinate situazioni, la capacità di includere la dimensione affettiva si scontra con con difficoltà oggettive dovute all’isolamento del detenuto (Nestola, 2019). Eppure, le conseguenze, almeno sotto il profilo sociale e psicologico, e quindi non giuridico, sono rilevanti, come dimostrato da numerose ricerche (Maslow, 1947). Effetti negativi della privazione affettiva La privazione delle relazioni affettive nei detenuti (intese sia quelle familiari che quelle sessuali) può essere causa di una serie di difficoltà, tra cui la limitazione degli spazi e delle opportunità di socializzazione, la stigmatizzazione sociale e la solitudine. Ciò induce a una riduzione della qualità della vita e a un aumento dei disturbi psicologici, come ansia, depressione e alterazioni in un contesto già molto instabile e caratterizzato da estraniazione e distacco. In Italia, la situazione è particolarmente critica a causa del sovraffollamento delle carceri, che limita ancora di più gli spazi di socializzazione e di svago, ma anche di intimità sessuale, nonché per programmi di recupero spesso deficitari sotto il profilo dell’efficienza psicosociale (Ceraudo, 1999).
Gli effetti della privazione affettiva nei detenuti sono stati affrontati da più autori, come ad esempio Clemmer (1941), che ha individuato tre livelli generali di adeguamento: il livello normale, il quasi-normale e l’anormale. Il livello normale riunisce gli individui che hanno avuto uno sviluppo normale della sfera amorosa e che, una volta inseriti all’interno del carcere, risentono maggiormente della privazione cui sono sottomessi. Per questo, in loro, fa spesso largo un senso di solitudine diffuso che porta a problematiche relazionali. Il quasi-normale e l’anormale, invece, rappresentano quei gruppi di detenuti che hanno pochi o nessuna relazione significativa presente all’esterno del carcere e, pertanto, hanno più capacità di adattarsi, rispetto ai primi, al nuovo contesto di detenzione. In estrema sintesi, tra gli effetti dovuti alla privazione della dimensione affettiva ritroviamo senso di solitudine, accresciuta asocialità, disturbi sessuali, regressione infantile e adolescenziale, nonché presenza di problematiche relazionali.
Per quanto riguarda le famiglie, ad esempio, le modalità con cui esse reagiscono all’arresto di un familiare dipendono essenzialmente da tre componenti: la situazione o l’evento in sé; le risorse della famiglia, la struttura e la flessibilità rispetto ai ruoli; la definizione che la famiglia dà all’evento, se lo ritengono una minaccia o meno per i loro status sociale e i loro obiettivi. Dal momento della detenzione, in altre parole, sia nel detenuto che nei familiari si innesca un processo di riadattamento dei ruoli. Da un lato, questo porta il detenuto ad adattarsi all’esperienza carceraria, dall’altro la famiglia a una redistribuzione dei compiti che, spesso, tendono a escludere lo stesso detenuto, il quale, a sua volta, espiata la pena, avrà considerevole difficoltà per reinserirsi all’interno di quel contesto familiare e sociale di cui faceva parte (Hill, 1949).
Quali possibili miglioramenti? Per affrontare queste difficoltà, riferendoci al contesto italiano, è importante che le istituzioni carcerarie adottino politiche e programmi che favoriscano lo sviluppo e il mantenimento delle relazioni affettive durante il periodo di detenzione. Ad esempio, la promozione di incontri regolari con i familiari, l’organizzazione di attività che favoriscano la socializzazione tra i detenuti, la possibilità di condividere spazi comuni, come biblioteche o palestre e l’offerta di servizi di sostegno psicologico. Tale miglioramento si può ottenere, tuttavia, soltanto con una globale riforma del sistema penitenziario, ancora lontana dal realizzarsi. In Italia, d’altronde, la situazione è carente e la mancanza di programmi a sostegno dell’affettività rappresenta una sfida importante da affrontare, magari implementando i parametri di socializzazione da un lato e, dall’altro, migliorando la privacy dei detenuti per quanto riguarda la componente sessuale (Manca, 2019).
La promozione dell’affettività, in definitiva, può contribuire non solo a migliorare la qualità della vita dei detenuti, ma anche a supportare il loro percorso di riabilitazione e reinserimento nella società e nella propria famiglia, per ritrovarle, magari, come le avevano lasciate prima di entrare in carcere.
Bibliografia
Ceraudo, F. (1999). La sessualità in carcere: aspetti psicologici, comportamentali ed ambientali, in Sofri, A., Ceraudo, F., Ferri battuti, Archimedia, Pisa. Clemmer, D. (1941).
The prison community, The Christopher Publishing House, Boston. Hill, R. (1949).
Families Under Stress, Harper Bros, New York. Manca, V. (2019). Perché occuparsi della questione “affettività” in carcere?,Giurisprudenza Penale, 2, 7-12.
Maslow, A.H. (1947). Deprivation, Threat, and Frustration, in Newcomble, T.M., Hartley, E.L., Reading in Social Psychology, Henry Holt & Co., New York, 1997. Nestola, M. (2019).
Il diritto all’affettività per i detenuti al 41-bis, Giurisprudenza Penale, 2, 159-182. Purgiotto, A. (2019).
La castrazione di un diritto. La negazione della sessualità in carcere come problema di legalità costituzionale, Giurisprudenza Penale, 2, 15-45.
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