Avv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.
Con la recentissima sentenza 7.12.2018 – 15 novembre 2019, n. 29709, la Corte di Cassazione torna a occuparsi, con amplissima disamina sistematica, del consenso informato e delle variegate ipotesi di risarcimento conseguenti a un’erronea o incompleta informazione del paziente.
I FATTI
Con atto di citazione notificato il 30.7.2010 Me.Mo. e M.D. convenivano davanti al Tribunale di Torino V.E., che come ginecologo, era stato incaricato dall’attrice di seguirla in una gravidanza, chiedendo l’accertamento del suo inadempimento contrattuale e la sua condanna al risarcimento dei danni per la mancata diagnosi di una grave malformazione cardiaca del feto e la mancata considerazione degli esiti del c.d. tri-test, che aveva segnalato un rischio superiore al normale di sindrome di Down.
L’inadempimento del ginecologo avrebbe impedito a Me.Mo. di esercitare il suo diritto di interruzione volontaria di gravidanza.
In subordine veniva addotta la responsabilità extracontrattuale del ginecologo.
Disposta consulenza tecnica d’ufficio, con sentenza del 24 maggio 2014 il Tribunale rigettava le domande degli attori.
La Corte d’appello di Torino, con sentenza del 9 marzo 2016, dichiarava inammissibile l’appello principale.
Col primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c. per inadempimento del diritto d’informazione completa a Me.Mo. “su test diagnostici, screening e soft markers ai fini della diagnosi prenatale delle cromosomopatie“.
In primo grado si sarebbe chiesto di accertare il grave inadempimento contrattuale di V.E., che sarebbe consistito nell’omesso avviso a Me.Mo. dell’opportunità di esperire un’amniocentesi dopo i test e gli accertamenti ecografici eseguiti, “sul presupposto che l’esame diagnostico avrebbe dato esiti di certezza” ai fini della manifestata volontà di Me.Mo. di abortire se vi fosse stata diagnosi di cromosomopatia.
La domanda sarebbe stata quindi centrata sul mancato adempimento del ginecologo quanto all’istanza di Me.Mo. “di avere diagnosi sottoponendola ad amniocentesi“, che avrebbe dovuto eseguirsi per la sua iniziale richiesta e per “l’inconcludenza degli esiti sia dell’accertamento con lo screening, sia dei dati ecografici di soft markers“.
Al ginecologo si contesta di non avere informato Me.Mo. dell’”inadeguatezza diagnostica dei dati complessivamente raccolti” e di non avere suggerito e informato dell’opportunità del test diagnostico.
I ricorrenti lamentano che il medico “nonostante il risultato, non aveva prescritto nessun accertamento specifico“, al contrario rassicurando che non vi sarebbero stati problemi.
Col secondo motivo si deduce violazione del diritto d’informazione completa della gestante ai fini della diagnosi prenatale delle cromosomopatie.
Si rileva che “se viene provato che la gestante ha chiesto un accertamento funzionale alla diagnosi di malformazioni fetali e, in subordine al suo risultato positivo, dichiarato di intendere di esercitare il diritto di interruzione volontaria della gravidanza, sussiste l’inadempimento del medico se questi non ha dato informazioni su tutte le esistenti possibilità diagnostiche.”
Me.Mo. avrebbe chiesto la diagnosi di possibili malformazioni fetali ma tale diagnosi non avrebbe poi ricevuta.
Non sarebbe stata informata, invero, della possibilità di ottenere una diagnosi di certezza a partire dal terzo mese di gravidanza con una biopsia dei villi coriali e della possibilità di “test di screening combinato della translucenza nucale unita al triplotest” per l’ipotesi in cui non avesse accettato una diagnosi invasiva.
Parimenti non sarebbe stata informata dell’opportunità di amniocentesi per esito non rassicurante dello screening eseguito e per la presenza di soft markers in riferimento a vizio cardiaco e anomalie renali.
L’omessa informazione, quindi, “priva nel concreto la madre della possibilità” di decidere in ordine all’interruzione volontaria della gravidanza.
LA DECISIONE DELLA CORTE
La gestante Me. avrebbe chiesto al ginecologo V. di espletare amniocentesi, non essendo ella disponibile alla gravidanza se il feto avesse avuto malformazioni.
Il V. suggerì viceversa il c.d. tri test, che, infatti, fu eseguito.
Il figlio nacque affetto dalla sindrome di Down, nonché da malformazione cardiaca e asimmetria dei bacinetti renali, i dati cardiaci e renali, quali soft markers per la sindrome di Down, avrebbero dovuto portare, “indipendentemente dall’originaria richiesta di amniocentesi della paziente“, proprio a effettuare quest’ultima.
Se la diagnosi della trisomia 21 fosse stata fornita tempestivamente, Me.Mo. avrebbe optato per l’interruzione volontaria della gravidanza, vista anche la profonda depressione in cui era incorsa dopo la diagnosi al figlio della suddetta sindrome.
Era stato imputato, invero, al ginecologo di non avere considerato gli esiti del tri-test “che avevano segnalato un rischio superiore alla norma della presenza nel sito della sindrome di Down” e che “l’errore aveva impedito alla madre di esercitare il diritto di interrompere la gravidanza” e ciò, secondo la Corte di legittimità, dimostra che il legame fra la mancata considerazione dell’esito e il mancato esercizio del diritto (se ve n’erano i presupposti di legge) non poteva che essere, logicamente, informativo.
La richiesta della gestante, rivolta al medico, era, in sintesi, del seguente tenore:
Posso essere certa, ora che ho fatto il tri-test con l’esito che ne è risultato, che non vi sia la sindrome di Down, oppure occorrono accertamenti ulteriori ?
Il medico, sotto tale profilo, è inadempiente se non ha dato informazioni in ordine a tutte le esistenti possibilità diagnostiche.
L’attività sanitaria, per la Suprema Corte, include sempre un obbligo d’informazione, rispetto al quale – tranne specifiche eccezioni – non possono essere indipendenti né l’attività diagnostica, né l’attività terapeutico-chirurgica.
Di tutte le attività professionali, quella sanitaria, sottolinea la Corte “è l’attività che più direttamente incide sulla persona.
Se in alta percentuale l’attività professionale opera su un bene altrui, l’attività del sanitario, peraltro, si effettua direttamente su quell’intimo bene della persona che è costituito dal suo corpo.
Il grado di altruità del bene rispetto a chi vi opera – direttamente proporzionale al grado di intima titolarità di altro soggetto – non può non ricadere sul contenuto dell’attività che su tale bene viene espletata.”.
Nel caso dell’attività sanitaria, essendo il corpo il bene maggiormente “esclusivo” di un’altra persona rispetto al professionista, l’attività deve essere disposta e determinata tramite la sintonizzazione
di due volontà: quella del sanitario e quella del “paziente” sul cui corpo l’attività si espleta.
La volontà del sanitario, in quanto tale, deve essere diretta alla tutela della salute del “paziente” e la volontà di quest’ultimo deve essere l’espressione della sua libertà, che in questo settore viene ordinariamente definita “diritto di autodeterminazione”, il cui corretto esercizio costituisce d’altronde il presupposto della legittimità dell’attività professionale sanitaria, cioè “dell’esercizio della volontà, per così dire, tecnica del professionista sul corpo di chi, in questo senso, si autodetermina”.
Il consenso informato, peraltro, trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 Cost. e costituisce funzione di sintesi dei due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, “se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, comma 2.“).
Il principio della necessità della consapevole (cioè informata) volontà del cosiddetto “paziente” quale elemento integrante e legittimante l’attività sanitaria è ormai inequivocamente sancito anche a livello di legge ordinaria, mediante la L. 22 dicembre 2017, n. 219, art. 1 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) che ha concluso il lungo percorso di estromissione del tanto tradizionale quanto, appunto, incostituzionale – c.d. paternalismo sanitario, descrivendo anche la formazione progressiva dell’attività sanitaria legittima quale frutto, in sostanza, di un accordo (id est di una sintonia delle volontà) dei soggetti coinvolti.
L’art. 1, appunto, rubricato “Consenso informato“, non solo, infatti, al comma 1 dichiara di tutelare “il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona” e stabilisce che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge“, ma nel comma 2 descrive pure quella fattispecie a formazione progressiva che ormai è divenuta l’attività sanitaria:
“È promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale s’incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico“, nei successivi commi configurando il diritto all’informazione e il diritto alla rinuncia dei trattamenti proposti.
L’attività sanitaria è, invero, prosegue il ragionamento della Suprema Corte, “un’attività tecnica, per cui, allo scopo di congiungere le volontà di chi ne è coinvolto – il sanitario e la persona che chiede al sanitario di espletare la sua attività tecnica sul proprio corpo – è necessario indurre la necessaria consapevolezza nella persona che non ha cognizione tecnica, id est informarla adeguatamente dal punto di vista tecnico rispetto al caso concreto in cui si trova.”
Obiettivo, pertanto, che non potrà mai essere in toto raggiunto (considerati i tempi necessari, sotto il profilo dello studio e della esperienza clinica, per pervenire alla competenza tecnica del sanitario) ma che, per tutelare la libera volontà del “paziente“, nel meglio possibile, deve costituire comunque il primo fra quelli dell’attività del sanitario, in quanto, come già si accennava, presupposto della sua legittimità: equiparare la consapevolezza dei due soggetti che sull’attività tecnica del sanitario devono connettere la loro volontà.
L’attenzione al “consenso informato“, cioè appunto alla formazione e all’espressione della volontà del soggetto atecnico il cui corpo è oggetto dell’attività del sanitario (volontà che viene resa consapevole mediante le necessarie informazioni che devono provenire proprio dal sanitario operante) è ormai saldamente presente nella giurisprudenza di legittimità (ex multis, da ultimo: Cass. sez. 3, 23 ottobre 2018 n. 26728, Cass. sez. 3, ord. 19 luglio 2018 n. 19199, Cass. sez. 3, ord. 15 maggio 2018 n. 11749, Cass. sez. 3, 23 marzo 2018 n. 7248).
Non si può ormai non riconoscere, in conclusione, che nell’attività sanitaria, sia di diagnosi, sia di cura, è incluso l’obbligo informativo, il cui inadempimento lede comunque il diritto a esercitare la propria volontà di per sé – in questo settore denominato diritto di autodeterminazione – e inoltre, a seconda del plus mancante nella informazione, può anche condurre alla lesione del diritto alla salute.
Non è pertanto sostenibile, sottolinea la Suprema Corte, che “una cosa sia diagnosticare e un’altra sia informare, per cui sarebbero ipotizzabili due inadempimenti diversi da parte del sanitario dei suoi obblighi professionali, convogliati che siano nell’area contrattuale (o da contatto) o in quella aquiliana.”
L’informazione, ovvero suscitare la consapevole volontà della persona, sul cui corpo si svolge l’attività sanitaria, è l’obbligo prodromico ad ogni attività sanitaria: il tradizionale “consenso informato” contiene, come il più contiene il meno, l’informazione in sé, e l’attività del sanitario è legittima solo se
alla sua volontà di effettuarla si congiunge la volontà informata della persona sul cui corpo si dovrebbe effettuarla.
La scelta diagnostica o terapeutica del sanitario (come prospettata all’altro soggetto coinvolto) manifesta la sua autonomia professionale che però non è assoluta.
Il sanitario, nel momento in cui la sua scelta prospetta, deve informare compiutamente non solo il contenuto di essa, ma altresì le “mosse” alternative e il loro contenuto.
Diversamente, nel campo contrattuale, si rende responsabile di un evidente inadempimento, mentre nel campo extracontrattuale viola, come si è visto, diritti di costituzionale valore.
La scissione, se non addirittura contrapposizione, di un obbligo dall’altro – informazione contro attività stricto sensu tecnica – quando si è di fronte ad una endiadi come questa che ricorre nell’attività sanitaria, in cui l’obbligo dell’attività informativa è inscindibile dall’attività tecnica stricto sensu del sanitario (perché costituisce il presupposto della consapevole volontà ordinariamente legittimante della persona su cui l’attività viene espletata) non è quindi sostenibile. Il principio di diritto affermato, pertanto, dalla Corte di Cassazione, è il seguente:
“Il sanitario, al di fuori delle eccezioni previste dall’ordinamento (intervento urgente senza possibilità di informare alcuno, neppure incaricato dalla persona che ne ha necessità o comunque ad essa prossimo; casi specifici stabiliti dalla legge ai sensi dell’art. 32 Cost., comma 2), ha sempre l’obbligo di informare, in modo completo e adeguato, la persona su cui si appresta ad espletare la sua attività sanitaria o su cui già l’ha esercitata – sia in forma diagnostica che in forma terapeutica -, in quest’ultima ipotesi dovendo rappresentarle le possibili conseguenze e le possibili prosecuzioni di attività diagnostica e/o terapeutica; obbligo che, pertanto, non può essere mai scisso dall’obbligo di espletare correttamente l’attività sanitaria in senso tecnico, per cui il sanitario che ha espletato in modo corretto la sua attività sanitaria in senso tecnico ma non ha fornito l’adeguata informazione alla persona interessata è sempre inadempiente nella responsabilità contrattuale, mentre in quella extracontrattuale viola sempre il diritto costituzionale di autodeterminazione, limite della sua autonomia professionale.”
La Suprema Corte, infine, indica quali possono essere le conseguenze dell’accertamento della violazione dei diritti alla salute e all’informazione in termini di danni risarcibili.
- a) In primo luogo, è configurabile l’ipotesi in cui il sanitario, con la sua condotta colposa, cagioni un danno alla salute (intesa anche nel senso di peggioramento della situazione antecedente) alla persona che si è sottoposta alla sua attività chirurgica o terapeutica.
Nel caso, allora, che la persona avrebbe comunque voluto sottoporsi, nelle medesime condizioni, a tale attività sanitaria, è risarcibile – ovviamente – soltanto il danno alla salute, nella sua duplice composizione di danno biologico/relazionale e danno morale.
Se invece la persona non avrebbe scelto di sottoporsi all’attività sanitaria, altrettanto ovviamente il risarcimento investirà pure il danno derivante da lesione del diritto all’autodeterminazione (quale diritto inscindibilmente connesso con il diritto all’informazione, il cui esercizio è condizionato ad una informazione effettiva e veritiera).
- b) In secondo luogo, è configurabile l’ipotesi in cui il sanitario cagioni danno alla salute con una condotta non colposa.
In tale ipotesi deve riconoscersi che, nel caso in cui la persona sulla quale il medico ha espletato la sua attività sanitaria non avrebbe fornito il consenso se fosse stata adeguatamente informata, a detta persona spetterà tanto il risarcimento del danno derivante dalla lesione del diritto all’informazione/autodeterminazione (valutando equitativamente la conseguente sofferenza) quanto (quale ulteriore conseguenza del difetto della sua volontà) il danno derivante dalla lesione del diritto alla salute sotto forma di situazione differenziale (ovvero peggioramento) tra quella in cui il soggetto si trovava prima dell’attività sanitaria in questione e quella in cui viene a trovarsi dopo l’espletamento di essa.
- c) Nel caso, invece, che l’attività sanitaria non cagioni nessun danno alla salute e che ad essa la persona avrebbe comunque scelto di sottoporsi, non vi è spazio per alcun risarcimento, non essendo stati lesi nè il diritto all’autodeterminazione nè il diritto alla salute.
- d) Nell’ipotesi, invece, in cui si registri una assoluta omissione diagnostica o una diagnosi inadeguata ovvero insufficiente (perché arrestatasi al livello in cui sarebbero stati ben attuabili ulteriori e più approfonditi accertamenti) occorre distinguere il caso in cui non ne è derivato danno alla salute della persona che avrebbe dovuto ricevere una congrua diagnosi da quello in cui invece tale danno sia derivato.
Nel primo caso, la lesione investe il diritto all’autodeterminazione, perché non consente di esercitarlo in pienezza di informazione.
Sarà quindi risarcibile il danno, che la persona interessata dovrà ovviamente dimostrare come sussistente, allegando e provando – eventualmente per via presuntiva – di avere subito pregiudizi di natura non patrimoniale in termini di sofferenza soggettiva per la contrazione della libertà di disporre di se stessa e per la privazione della possibilità di prepararsi adeguatamente ad un evento imprevisto ed inaspettato a causa dell’inadempimento del sanitario, comunque destinato a incidere, almeno temporaneamente, sul modus vivendi psicologico della persona lesa, salvo naturalmente – come in tutti i casi sin qui esposti in cui sia risarcibile un danno – che controparte dimostri che nessun pregiudizio risarcibile nel caso concreto sussista quale conseguenza dell’attività sanitaria, pur se effettuata in modo gravemente colpevole.
Nel caso in cui, invece, la conseguenza dell’assenza o insufficienza diagnostica integri altresì gli estremi della lesione al diritto alla salute, si ricade nella fattispecie, già esaminata più sopra, del risarcimento del danno alla salute unitamente al risarcimento del danno all’autodeterminazione.
Un esempio di tal genere è proprio quello del c.d. tri-test effettuato alla donna in gravidanza, che non viene poi sviluppato e doverosamente approfondito con ulteriori mezzi diagnostici, senza peraltro neppure informare la persona interessata sull’esistenza di tali ulteriori mezzi, sui ben ampi margini di errore dello screening adottato e sul pro e contro dell’eventuale approfondimento.
In questa ipotesi, la condotta non può non definirsi colposa, in quanto negligentemente ed imprudentemente non si adempie all’obbligo informativo.
E il danno alla salute può configurarsi qualora il nascituro venga poi alla luce affetto da patologie che avrebbero potuto essere identificate con i suddetti mezzi diagnostici e questo alteri l’equilibrio psicofisico della persona non informata, per esempio cagionandole una sindrome depressiva (vale a dire, un danno biologico psichico).
Se ciò avviene, come già si è anticipato, dovrà essere risarcito anche il conseguente danno alla salute.