Medical News Sociologia

L’adolescenza è un momento di profonde trasformazioni dal punto di vista organico, psico-affettivo e relazionale e tali cambiamenti assumono diversi significati a seconda del contesto culturale e si esprimono determinando conseguenze psicosociali. Adolescenti e sessualità: più informazione, ma a chi spetta? Gli adolescenti iniziano a sperimentare la sessualità in età sempre più precoce e senza consapevolezza dei rischi.


Dott.ssa Annamaria Venere – Sociologa Sanitaria – Criminologa Forense – Socio AICIS (Associazione Criminologi per l’Investigazione e la Sicurezza). Amministratore Unico: AV eventi e formazione – Direttore editoriale: Medicalive Magazine – Catania – annamariavenere.it.


L’adolescenza e la sessualità: trasformazioni del corpo e della mente

Durante il proprio ciclo di vita ogni individuo svolge svariate funzioni tipiche di ciascun periodo di sviluppo. Se queste funzioni sono svolte e completate con risultati positivi, l’individuo proverà sentimenti di soddisfazione e aumenterà la propria autostima; contrariamente, emergeranno sentimenti di tristezza e disautostima che potranno minare il suo normale sviluppo psicofisico.

L’adolescenza è il periodo in cui, più che in altri, vi è un complesso intreccio fra compiti biologici e compiti sociali, fra cui lo sviluppo sessuale. Quest’ultimo possiamo differenziarlo in sviluppo puberale e sviluppo sessuale vero e proprio: con la prima locuzione si intende lo sviluppo dei tratti somatici tipici dell’uomo e della donna, con la seconda, invece, intendiamo lo sviluppo psicologico che dovrebbe andare in parallelo alla maturazione corporea (Vianello, 2004).

adolescenti e sessualità - quali conseguenze psicosociali nell’era digitale - img1Dal punto di vista biologico, all’incirca all’età di nove anni, le ragazze iniziano ad aumentare la produzione di estrogeni e progesteroni, causando un aumento della dimensione degli organi sessuali sia interni (ovaie) che esterni (seni). Negli anni successivi compaiono progressivamente i primi peli pubici, finché all’incirca a tredici anni avviene il menarca e, quindi, la prima ovulazione.

Intorno ai sedici anni, infine, si completa la crescita dei peli pubici, degli organi sessuali e del seno. Per quanto concerne i ragazzi, invece, la produzione di testosterone inizia solitamente intorno ai 10 anni, cui consegue un aumento dei testicoli e dello scroto, fino alla crescita del pene intorno ai 12 anni. Nel periodo successivo, 16-18 anni, vi è un aumento della comparsa di peli e una crescita proporzionata dei muscoli (Palmonari, 1997; Berger, 1994).

Le maturazioni puberali e ormonali tipiche dell’adolescenza influenzano in primo luogo il parallelo sviluppo psicologico sessuale, mediato da fattori e conseguenze culturali, sociali e di personalità.

Adolescenti e sessualità: sviluppo sessuale e riflessi psicosociali

Lo sviluppo sessuale ha dei riflessi a livello psicologico e sociale specialmente quando il cambiamento corporeo e lo sviluppo fisico comportano un cosiddetto vissuto di estraneità nei confronti del soma. Nel caso in cui, infatti, lo sviluppo sessuale sia particolarmente scoordinato o disarticolato, precoce o ritardato, può capitare che il ragazzo non sia disposto ad accettare il cambiamento cui il proprio corpo sta andando incontro. In alcuni adolescenti ciò comporterà una divaricazione tra lo sviluppo psicologico e lo sviluppo sessuale biologico sottostante, con una conseguente ricaduta a livello sociale e della stima di sé, nonché del sentirsi accettato dal gruppo dei pari.

Sappiamo che durante l’adolescenza il confronto con altri ragazzi è particolarmente intenso, giacché è il periodo in cui il giovane si approccia all’altro sesso, in cerca di intimità e dei primi rapporti sessuali. Qualora il ragazzo abbia uno sviluppo sessuale ritardato o, all’opposto, precoce, ciò rivelerebbe a sé, e agli altri, lievi difetti fisici, reali o presunti, come ad esempio avere una corporatura troppo bassa o troppo obesa, oppure uno sviluppo dei tratti sessuali troppo accentuata o troppo poco marcata rispetto alla normalità. A scapito dell’autonomia individuale, pertanto, in questi casi l’adolescente sarà portato all’isolamento, pur di rifuggire dal confronto con l’altro sesso e dal gruppo dei pari con cui non si sente “all’altezza” (Vianello, 2004).

La precocità o il ritardo dello sviluppo sessuale (supposta o reale che sia) corrisponderebbero a un mancato sviluppo psicologico del Sé che, non trovando riscontro nella crescita somatica del proprio corpo, condurrà il soggetto alla ricerca di fonti alternative di piacere. Il sesso sarà cioè usato in termini narcisistici, utile soltanto per confermare il proprio Sé psicologico e non in ragione di una vera necessità biologica. La ricerca di fonti alternative di piacere potrà così condurre alla promiscuità che spesso, in estremi casi, potrà anche determinare situazioni di grave devianza psicosociale o di dipendenze patologiche da sostanze, di tipo affettivo o relazionale (Palmonari, 1997, 2001).

Negli ultimi decenni a contribuire a un maggior rallentamento/acceleramento dello sviluppo sessuale in adolescenza è stata l’esponenziale crescita del mondo digitale.

Era digitale, adolescenti e sessualità: quale via di fuga?

Lo sviluppo del digitale e dei canali social ha permesso una grande diffusione di immagini e siti pornografici. L’esposizione a un certo tipo d’immagini accelera/decelera il normale processo di sviluppo sessuale dei ragazzi che, però, il più delle volte non corrisponde con lo sviluppo puberale sottostante. Di conseguenza, il ragazzo impara che l’esperienza sessuale può essere vissuta senza alcun coinvolgimento emotivo e di affetto, esattamente come avviene nei siti online, eleggendo così il prototipo della stessa relazione online a fondamento delle sue relazioni interpersonali, con tutte le conseguenze sociali che questo comporta. Non è tuttavia solo per un appagamento sessuale che l’adolescente ricorre a internet. In una società votata all’immagine, pur di non restare indietro rispetto ai propri amici, l’adolescente vive tutto come fosse una gara, vivendo il corpo come un oggetto del piacere e nient’altro, ricercando sempre nuove forme di compiacimento (sessuale) che non trova né in sé né nelle relazioni sociali vere e proprie (Vrioni, 2019).

Tra queste ricerche alternative di piacere dobbiamo rilevare il fenomeno digitale del sexting, ovvero l’invio e la ricezione di testi, video o immagini sessualmente espliciti, pur di ottenere un “like” e un interesse sessuale da parte di un pubblico sconosciuto. Il fattore scatenante il sexting è multiplo: bassa autostima, disturbi depressivi, ansia, frustrazione, problematiche familiari o con i pari. Le problematiche, tuttavia, vanno ben oltre la semplice pubblicazione di immagini pornografiche di sé, poiché le conseguenze del sexting, qualora i video circolassero senza controllo attraverso i media,  potrebbero indurre l’individuo a un ulteriore isolamento sociale più radicale, che comporterebbe in lui un danno irreparabile  dal punto di vista sia psicologico che sociale.

Il sexting è però soltanto una delle modalità attraverso cui il mondo digitale influenza lo sviluppo sessuale degli adolescenti. Altro fenomeno rilevante, sotto il profilo anche penale, è il grooming, ovvero l’adescamento online del ragazzo/a che ha accesso al mondo dei social. Il grooming fa leva proprio sulle fragilità psicologiche dell’adolescente per invitarlo ad atteggiamenti pornografici e all’invio di materiale erotico che spesso coinvolge anche i minori.

Quale via di fuga quindi da un mondo digitale sempre più connesso con lo sviluppo sessuale degli adolescenti? Non c’è una strada tracciata più sicura di un’altra, ma l’educazione, la scuola e la famiglia possono di certo fare la loro parte.

adolescenti e sessualità - quali conseguenze psicosociali nell’era digitale - img3

Bibliografia

Berger, K.S. (1996). Lo sviluppo della persona, Zanichelli, Bologna.

Palmonari, A. (1997). Psicologia dell’adolescenza, Il Mulino, Bologna.

Palmonari, A. (2001). Gli adolescenti, Il Mulino, Bologna.

Vianello, R. (2004). Psicologia dello sviluppo: infanzia, adolescenza, età adulta, età senile, Edizioni Junior, Bergamo.

Vrioni, V. (2019). Adolescenza virtual. L’impatto delle nuove tecnologie sullo sviluppo cognitive e sociale, Youcanprint.

Medical News Sociologia

Per effettuare un’analisi approfondita inerente il tema della sessualità nei disabili, occorre integrare il modello medico biopsicologico con quello socio-culturale.


Autore

Dott.ssa Annamaria Venere – Sociologa Sanitaria – Criminologa Forense – Socio AICIS (Associazione Criminologi per l’Investigazione e la Sicurezza). Amministratore Unico: AV eventi e formazione – Direttore editoriale: Medicalive Magazine – Catania – annamariavenere.it.

[dropcap color=”#008185″ font=”0″]P[/dropcap]er effettuare un’analisi approfondita inerente il tema della sessualità nei disabili, occorre integrare il modello medico biopsicologico con quello socio-culturale. Il modello medico della disabilità, in vigore fino agli anni ’70 del secolo scorso, vedeva la disabilità come un insieme di menomazioni psicofisiche individuali: la sessualità, di conseguenza, era considerata un problema marginale.

Adottare il modello sociale, invece, significa considerare la disabilità come un prodotto (anche) sociale, piuttosto che l’esito di un’esclusiva menomazione fisica o psichica. Un processo che oggi potremmo definire di normalizzazione e deistituzionalizzazione della persona disabile (Malaguti, 2011).

Il rifiuto nell’immaginario sociale dei bisogni sessuali presenti nella disabilità, si fonda su reticenze, silenzi e ipocrisie che possono avere compromissioni nell’invio delle informazioni e dei servizi utili per la tutela della salute e dei diritti umani. La sessualità delle persone con disabilità, infatti, non in linea ai modelli dominanti, viene bandita a una dimensione che troviamo fuori dalla relazionalità, spesso associata a pratiche dell’igiene personale o delle funzioni corporee.

Sotto un profilo generale, l’OMS (2001) ha equiparato il diritto alla salute sessuale ai diritti umani in generale. Con ciò la sessualità è entrata a far parte a pieno titolo delle componenti che creano il benessere di una persona, analizzata anche in funzione psicoeducativa e sociale.

In altre parole, parlare di sessualità comporta affermare che tutte le persone, libere da coercizione, discriminazione e violenza, incluse quelle disabili, hanno diritto a:

  • ottenere il più alto livello possibile di salute sessuale, compreso l’accesso ai servizi di cura della salute sessuale e riproduttiva;
  • cercare, ricevere e diffondere informazioni in relazione alla sessualità;
  • educazione sessuale;
  • il rispetto dell’integrità fisica;
  • la scelta del partner;
  • decidere se essere sessualmente attivi o no;
  • relazioni sessuali consensuali;
  • matrimonio consensuale;
  • decidere se e quando avere bambini;
  • perseguire una vita sessuale soddisfacente, sicura e piacevole.

Poiché, tuttavia, la sessualità rappresenta una componente essenziale dello sviluppo di qualsiasi essere umano, in termini emozionali, etici, fisici, psicologici, sociali e spirituali dell’identità, a tale componente è riconosciuto anche un ruolo preponderante nella costruzione dell’autostima, della percezione di sé e del proprio ruolo sociale. Secondo alcuni autori, infatti, permangono una serie di pregiudizi sociali inerenti la sessualità del disabile, come ad esempio: non hanno le capacità di imparare la sessualità; sono esseri asessuati o ipersessuali; non hanno gli stessi bisogni dei normodotati; sono spesso abusatori; educarli alla sessualità potrebbe essere pericoloso (Sirigatti et al., 2008).

L’idea del “disabile asessuato” appartiene, il più delle volte, anche a genitori e operatori sanitari e di assistenza. I genitori, a causa dell’iperprotezione, sono propensi a evitare che il figlio entri in contatto con i propri compagni anche al di fuori di contesti sociali definiti (come la scuola), per timore di discriminazione o di pericoli alla sua salute, contribuendo ad una maggiore inibizione della crescita sociale e sessuale (Venere, 2020).

Per contrastare tali pregiudizi, svariate ricerche hanno messo in luce non solo che la maggior parte dei disabili sia sessualmente attiva, ma anche che tra le espressioni affettive da loro utilizzate vi siano pure espressioni di tenerezza, come abbracci, baci e vicinanza fisica che rappresenterebbero quindi l’espressione di una sessualità genitale completa (Lassmann et al., 2007). Non solo, emergono anche attrazioni sia verso il sesso opposto che lo stesso sesso, a dimostrazione del fatto che godono di un’affettività del tutto equiparabile a quella dei normodotati (Federici, 2002).

Emozioni e sessualità nei disabili psichici

Se a livello cognitivo possono essere molto lontani rispetto all’età da loro veramente posseduta, le persone affette da disabilità psichica a livello corporeo e sessuale non smettono di rispettare i tempi della pubertà, dell’adolescenza e della vita erotico-sessuale adulta. E poiché la sessualità è anche rapporto con il corpo, questa inevitabilmente finisce per essere sperimentata e desiderata, nonostante il loro livello cognitivo sia inadatto. Il rischio che a volte si genera è che, a causa di un ritardo cognitivo diffuso, si sperimentino esperienze sessuali regressive in età adulta, diventando così facile preda dei pregiudizi socio-culturali (Venere, 2020).

Quale sviluppo psicosessuale nel disabile?

Se analizziamo la tematica sotto un profilo evolutivo, lo sviluppo psicosessuale dei disabili mette in luce una sorta di asincronia tra lo sviluppo fisico e quello psicologico. Nei disabili, ovvero, lo sviluppo psicosessuale non segue il sottostante sviluppo fisico, a testimonianza ancora una volta della non validità del modello medico di cui sopra.

Si avvertono differenze nei modi, nei tempi e nella qualità dello sviluppo mentale (a prescindere dai caratteri biologici sessuali comunque presenti), nonché differenze nello sviluppo dei caratteri sessuali secondari (rispetto alla gravità del ritardo mentale e all’età) che permettono loro di sviluppare normali abilità affettive (Baldacci, 2006).

L’analisi delle caratteristiche sessuali dei disabili, pertanto, sotto un profilo evolutivo, deve essere effettuata in modo del tutto indipendente dalle peculiarità biologiche e fisiche sottostanti che li riguardano. Alcune ricerche, in ogni caso, hanno rilevato che persone con disabilità intellettive siano meno inclini a sviluppare conoscenze ed esperienze sessuali, rispetto a quelle che sviluppano solo deficit fisici.

Per lo stesso motivo, le prime hanno in genere una minore autostima e soddisfazione affettiva rispetto alle disabilità di tipo esclusivamente fisico (Kedde e Van Berlo, 2006).

Per attenuare sia i deficit fisici che quelli psicologici, e quindi incentivare lo sviluppo di una sessualità adeguata nei diversamente abili, occorre attenzionare, durante lo sviluppo del disabile, alla dimensione sociale cui appartiene.

Lo sviluppo psicosessuale, infatti, migliora e si dimostra adeguato nel momento in cui è presente, alla base, un sistema sociale che lo supporta, a livello sia comunitario che familiare (Casalini, 2013).

La dimensione sociale della sessualità nei disabili: quale prospettiva educativa?

L’ambiente familiare influenza lo sviluppo psicologico di qualsiasi essere umano, ma in modo particolare delle persone disabili, poiché in loro, più che in altri, favorisce l’autorealizzazione, le relazioni interpersonali e l’apertura verso l’esterno. La famiglia rappresenta per un disabile il nucleo sociale per eccellenza, con tutte le contraddizioni cui quest’ultima si trova a far fronte.

La difficoltà principale che la famiglia si trova spesso a dover fronteggiare si riferisce all’ambivalenza verso il proprio figlio disabile, perché da un lato si ha il desiderio dei genitori di volere una vita normale, dall’altro il desiderio e la necessità di iperproteggerlo (Sirigatti et al., 2008).

In questo alveo di atteggiamenti ambivalenti e contradditori spesso rientra anche la sessualità. La sessualità del disabile, infatti, può essere vissuta dai genitori come un lutto che può portare a forme di negazione, nonché ad atteggiamenti ansiosi e ambivalenti, perché percepita al contempo come un vero e proprio rischio per il figlio disabile: rischio di abusi, rischio di rimanere vittima di insoddisfazioni, rischi fisici.

Tali forme di negazione, che a volte portano a vere e proprie condotte sociali estreme (adottare la contraccezione massiva, l’aborto terapeutico o rivolgersi a prostitute), può influenzare considerevolmente il benessere psicosessuale del figlio (Baldacci, 1996).

Il raggiungimento di una certa identità sessuale negli individui con disabilità si caratterizza per essere un processo non facile di affermazione di sé e della propria disability identity, a causa dell’immagine riflessa e introiettata che confluisce in loro dalla famiglia e dalla società stessa di cui fanno parte (Casalini, 2013). In altre parole, il processo affermativo dell’identità di una persona disabile, non si esaurisce con l’accettazione del proprio deficit psicofisico, ma al contrario con un’affermazione della propria identità sociale di persona disabile che, quindi, deve fare i conti con tutti i criteri del riconoscimento sia sociale, che istituzionale e familiare (Shakespeare et al., 1996).

Al pari delle altre persone, anche per i disabili l’obiettivo familiare dovrebbe essere l’educazione alla sessualità, ovvero fornire informazioni e conoscenze commisurate alla capacità di comprendere e dare risposte pertinenti e veritiere, cercando al contempo di integrarle nel processo di sviluppo complessivo della persona (Loperfido, 2006). Per consentire ciò, l’interesse si sposta da strategie psicoterapeutiche da indirizzare esclusivamente al disabile, a strategie di intervento verso la famiglia di appartenenza e ad aree sociali più vaste (scuola e comunità), al fine di rimuovere quelle barriere ambientali, sociali e psicologiche che impediscono il percorso creativo ed espressivo, affettivo e sessuale dei diversamente abili (Shakespeare et al.,1996; Casalini, 2013).

Conclusioni

Tutti gli individui hanno il diritto all’informazione e al piacere (WHO, 1975), tuttavia l’approccio alla sessualità è, il più delle volte, negato ai soggetti con disabilità, ai quali la società stabilisce i ruoli di indifferenti o inadeguati al sesso. Rilevante è in tal senso anche la funzione dei media, indubbiamente importante nell’orientare i modelli culturali e le pratiche di riferimento. La sessualità disabile, di fatto, non condiziona i consumi, non alimenta il culto della bellezza ricercata e perseguita spasmodicamente e perciò i bisogni sessuali del disabile sono confinati alla scomparsa del corpo.

L’intesa emotiva tra due persone consente l’opportunità di riconoscersi come tali e questo ha un grande significato per la persona disabile, che viene identificata come soggetto unico e originale, anziché come deficitario; gli viene, quindi, offerta l’occasione di rappresentarsi come “essere umano” e non come “disabile”. Egli fa esperienza di sé, perché entra in relazione col mondo e sperimenta il proprio modo di essere con quello di un altro. (Venere, 2020)

Bibliografia

Baldacci, M.C. (1996). bioetica dell’esercizio della sessualità nel portatore di handicap fisico geneticamente, JSTOR, 99, 1.

Casalini, B. (2013). Disabilità, immaginazione e cittadinanza sessuale, Ethics & Polities, XV, 2, pp. 301-320.

Federici, S. (2002). Sessualità alterabili, Edizioni Kappa, Roma.

Kedde, M.A., Van Berlo, W.M. (2006). Sexual satisfaction and sexual self images of people with physical disabilities, Sexual and Disability, 24 (1), pp. 53-68.

Lassman, J., Gonzalez, G., Melchionni, J.B., Pasquariello, P.S., Snyder, H. M. (2007). Sexual function in adult patient with spina bifida and its impact on quality of life, The Journal of Urology, 176, pp. 1611-1614.

Loperfido, E. (2006). La sessualità nell’handicappato psichico, Journal of Psychology, 89, 3.

Malaguti, E. (2011). Donne e uomini con disabilità, Ricerche di Pedagogia e Didattica, 6, 1.

Shakespeare, T., Gillespie-Sells, K., Davies, D. (1996). The social politics of disability: untold desire, Cassell, London.

Sirigatti, S., Taddei, S., Torzuoli, G. (2008). Affettività Sessualità Disabilità. Rapporto Tecnico-Scientifico, Università degli Studi di Firenze, Firenze.

Venere, A. (2020). Sesso dis-abilitato. Educazione ai sentimenti, alle emozioni e alla sessualità, quaderniECM, AV eventi e formazione https://www.av-eventieformazione.it/sesso-dis-abilitato-educazione-ai-sentimenti-alle-emozioni-e-alla-sessualita/

Medical News Sociologia

La relazione psicosociale tra tifo e violenza è purtroppo una delle più frequenti e conosciute in ambito sportivo. Secondo Simons & Taylor (1992) la violenza all’interno del tifo sportivo, in particolare nel mondo del calcio, può essere definita come l’insieme di quei comportamenti messi in atto a scopo distruttivo o ingiurioso durante un evento sportivo da spettatori di parte, che possono essere causati da fattori personali, sociali, economici o di competizione.

Partendo da questa definizione, possiamo dire che, in ambito psicologico, sono state ipotizzate una serie di motivazioni inerenti le cause di questa stretta e frequente relazione tra tifo e violenza. Capire perché un comportamento del genere si mantiene nel tempo, infatti, permette non solo di comprenderlo sotto un profilo scientifico e conoscitivo, ma anche e soprattutto di prevenirlo da un punto di vista psicosociale.


Autore

Dott.ssa Annamaria Venere – Sociologa Sanitaria – Criminologa Forense – Socio AICIS (Associazione Criminologi per l’Investigazione e la Sicurezza). Amministratore Unico: AV eventi e formazione – Direttore editoriale: Medicalive Magazine – Catania – annamariavenere.it.

[dropcap color=”#008185″ font=”0″]C[/dropcap]ome anticipato, il fenomeno della violenza all’interno degli stadi fa rimando a una serie di fattori causali che possono essere trovati all’interno della società, nella cultura di riferimento o nell’appartenenza a un gruppo. In termini psicosociali, il comportamento violento del tifo sportivo è visto come un rituale, o come l’esito di meccanismi inconsci della persona che cerca di manifestare il proprio desiderio di affermazione identitaria, attraverso l’esasperazione della competitività e la differenziazione dagli altri (le tifoserie opposte). Cosa che magari, all’interno della società, non è riuscito a fare per una serie motivazioni e frustrazioni psicologiche che possono essere di tipo familiare, lavorativo o sociale in generale (Maniglio, 2006).

tifo e violenza - img1I comportamenti di violenza nel tifo, quindi, sono orientati a uno scopo preciso: quello di autoaffermazione identitaria dell’individuo (Castrelfranchi e Miceli, 2002).

Stiamo parlando di un processo che spinge l’individuo a identificarsi in modo estremo con la propria squadra, probabilmente poiché manca egli stesso di una sua identità psicosociale precostituita. L’identificazione estrema con propri beniamini gli permette così, grazie al supporto indiretto del gruppo di tifosi di cui fa parte, di non sentire questo vuoto interiore, anche a costo di manifestare comportamenti estremi e violenti (Bianco, 2007). Nell’ambito del tifo violento, tale ricerca di autoaffermazione identitaria, assume ancora più senso e sicurezza, poiché la componente intenzionale dell’individuo è “protetta” dallo stesso gruppo di cui fa parte (una precisa tifoseria o gli ultrà), che gli garantisce anonimato e assenza di responsabilità diretta dei propri comportamenti.

La dimensione gruppale nel tifo violento: gli ultrà

All’interno del gruppo si generano dei meccanismi inconsci psicosociali che portano un soggetto ad assumere e giustificare comportamenti che individualmente non compierebbe, poiché non accettati sotto un profilo morale. I fenomeni gruppali, in un certo senso, giustificano la violenza.

Nel nostro caso, il gruppo di tifosi violenti è assimilato spesso agli ultrà.

A differenza dei semplici tifosi, il “modello ultrà” si caratterizza per una continua ricerca di differenziazione e di competizione estrema con le tifoserie concorrenti. Gli ultrà più che alla partita in sé, infatti, sono interessati ai riti e alle pratiche del tifo, con ostilità e freddezza. Il tifo non serve, peraltro, solo per aiutare la propria squadra a vincere, ma anche per intimidire e aggredire la tifoseria avversaria. In ambito sportivo, gli ultrà rappresentano in genere il gruppo di riferimento che consente al singolo soggetto di esprimere con sicurezza la propria autoaffermazione identitaria di cui sopra o, in alcuni casi, la propria rabbia sociale (Balestri & Viganò, 2004).

All’interno di contesti festosi e momenti di aggregazione collettiva come gli stadi, d’altronde, gli individui si liberano dalla propria maschera sociale per identificarsi con gli scopi del gruppo di cui fanno parte. Gli ultrà, essendo caratterizzati da competizione, aggressività e autoaffermazione identitaria, in questa costante ricerca di autoaffermazione personale, finiscono per essere il campo sociale prediletto per manifestazioni inelaborate di rabbia e violenza degli individui (Russo, 2016) southafrica-ed.com.

tifo e violenza - img2

La prevenzione sociale del tifo violento

Le ragioni sopra esposte, alla base della violenza degli stadi, ammettono il fenomeno gruppale come valore esplicativo nel processo identitario di un individuo socialmente fragile. Di conseguenza, l’oscuramento dell’individualità a favore dell’identità di gruppo, fa riemergere il ruolo della motivazione individuale nel riappropriarsi delle responsabilità frammentate di origine sociale ed etica (Bianco, 2007).

Per la prevenzione sociale del tifo violento, pertanto, più che agire sul fenomeno gruppale in sé, attraverso metodi punitivi o coercitivi che non farebbero altro che inasprire le stesse rabbie sociali portate alla luce dal tifo violento, occorre agire sul singolo individuo. In particolare, identificare le ragioni psicologiche e sociali e alla base della rabbia e intervenire con strategie di riaffermazione dell’identità individuale.

Alcuni parlano, a tal proposito, di “strategie psicosociali dell’esistere” (Bianco, 2007). Ricondurre, in altre parole, la violenza nei binari dell’eticità e della responsabilità, agendo sul singolo individuo e sulle motivazioni inconsce che lo spingono a mettere in atto comportamenti violenti (Bianco, 2007).

Bibliografia

Balestri, C., Viganò, G. (2004). Gli ultrà: origini, storia e sviluppi recenti di un mondo ribelle, Quaderni di Sociologia, 34.

Bianco, F. (2007). Violenza senza limiti: l’onnipotenza di gruppo e la violenza negli stadi, Psychofenia, X, 16.

Castelfranchi, C., Miceli, M. (2002). Architettura della mente: scopi, conoscenze e loro dinamica, Bollati Boringhieri, Torino.

Maniglio, R. (2006). Tifosi e ultras: un modello cognitivo del tifo e della violenza, Cognitivismo Clinico, 3, 1.

Russo, A. (2016). Identità e rappresentazione sociale delle tifoserie/ultras: un’analisi sociologica, Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, X, 1.

Simons, Y, Taylor, J. (1992). A psychosocial model of fan violence in sports, International Journal of Sport Psychology, 23.

Sociologia

La questione dell’insicurezza sociale e urbana è connessa con quella del percepirsi vittima.

Sia la paura del crimine che il pericolo di essere vittime nascono dall’insicurezza sociale che genera stress, sviluppando problematiche psicosociali e determinando un’insoddisfacente qualità di vita.

Il sentirsi vittime, la paura del crimine e l’insicurezza sociale, sviluppando fragilità interiori e problematiche di tipo psicosociale, finiscono per incidere negativamente sui costi del SSN.

Autore

Dott.ssa Annamaria Venere – Sociologa Sanitaria, Criminologa Forense, Socio AICIS (Associazione Criminologi per l’Investigazione e la Sicurezza), Amministratore Unico: AV eventi e formazione. Direttore editoriale: Medicalive Magazine – Catania. Sito personale: annamariavenere.it


 

Introduzione

[dropcap color=”#008185″ font=”0″]L[/dropcap]a paura del crimine porta le persone al percepirsi vittime, ma non tanto del crimine in sé, quanto del timore di diventarlo in futuro.

Sia la paura del crimine che il pericolo di essere vittime sono scaturite dall’insicurezza sociale che, a sua volta, provoca nelle persone stress, andando a sviluppare in esse problematiche psicosociali e un’insoddisfacente qualità di vita.

Tali problematiche psicosociali spesso si traducono in fragilità interiori e psicologiche che, alla fine, incideranno significativamente, in termini economici, anche sul Sistema Sanitario Nazionale.

Il profilo storico dell’insicurezza sociale: il pericolo di essere vittime

La tematica dell’insicurezza sociale e urbana è connessa con quella del percepirsi vittima.

In epoca antica la vittima era colei cui si associava l’idea del sacrificio religioso, ovvero una sorta di patto individuale con gli Dei per espiare determinate colpe.

Successivamente, l’evoluzione delle strutture sociali più complesse ha portato a intendere il sentirsi vittima nei termini di un senso di insicurezza “collettivo”. A quest’ultimo concetto, si è nel tempo affiancata l’idea che la vittima non era tale se non era presente un crimine (Sicurella, 2012).

Nonostante la recente normativa, come il D.Lgs. n. 212/2015, recante norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, è venuta meno oggigiorno l’idea dell’individuo come appartenente alla collettività, in favore invece di un compromesso penale che la vittima deve raggiungere con chi ha commesso il crimine (Bardi et al., 2016).

La persona, infatti, non si sente più parte di una collettività che organizza la sicurezza e la protezione della stessa, ma è a tutti gli effetti un singolo cui deve essere garantita, dalla Stato, la difesa dei diritti sociali.

È proprio dalla concezione dell’individuo inteso come essere singolo, e non come appartenente a una collettività, che se ne deriva l’insicurezza sociale odierna.

Il pericolo di essere vittime porta cioè ad ampliare il senso di insicurezza interno, a causa della percepita assenza di uno Stato “buono” che non riesce a garantire né la difesa dei diritti sociali né, nel caso di crimini, la certezza della pena. In altre parole, lo Stato è percepito come incapace di garantire la sicurezza sociale e, quindi, di prevenire il pericolo di sentirsi vittime non tutelate.

Da ciò si origina la paura del crimine e la fragilità interiore di natura psicosociale, in grado di incidere negativamente sulla qualità di vita delle persone (Triventi, 2008).

La relazione tra la paura del crimine e il senso di insicurezza sociale

La mancanza della tutela dei diritti, di fronte al pericolo di sentirsi vittime, porta alla conseguente e inevitabile paura del crimine.

La paura del crimine provoca aumento della diffidenza e sfiducia tra cittadini e istituzioni, ma anche una considerevole riduzione della partecipazione alla vita sociale.

Il timore del crimine, pertanto, finisce per incidere in maniera significativa sulle abitudini quotidiane delle persone, con conseguenze importanti soprattutto sotto il profilo psicosociale (Triventi, 2008).

Con il termine di paura del crimine si intende la percezione del rischio di criminalità o, meglio, la preoccupazione nei confronti dei reati. Esso si collega, ma non in maniera diretta, con il senso di insicurezza sociale provato da ogni persona.

In molte ricerche, tuttavia, la paura del crimine non corrisponde in tutto al senso di insicurezza, in quanto spesso la paura della criminalità eccede la diffusione dei crimini stessi.

Se ne evince che la paura del crimine è un concetto complesso, giacché fa riferimento da un lato al timore di subire un reato, dall’altro al senso di insicurezza provato dalla persona nel momento in cui si trova in luoghi considerati pericolosi (Skogan, 1993).

All’interno della paura del crimine troviamo tre dimensioni. La prima è quella affettiva ed emotiva, ovvero la reazione emotiva della persona di fronte alla paura, che può essere di ansia, depressione, fuga o rabbia.

La seconda è quella cognitiva, che valuta il rischio e l’insicurezza di un determinato luogo. Infine, vi è quella comportamentale, cioè il comportamento che viene messo in atto in seguito alla paura.

Coinvolgendo queste tre dimensioni, la paura del crimine provoca inevitabilmente patologie psicosociali, quali disturbi ansiosi o depressivi, con ovvie conseguenze anche sulla qualità di vita (Triventi, 2008).

La riduzione della qualità di vita a causa della paura del crimine è dunque causata dall’attuale disordine sociale, poiché lo Stato viene per lo più inteso non come un “ombrello” sotto il quale ripararsi e sentirsi sicuri, ma come un’istituzione incapace di tutelare i diritti.

Insicurezza sociale e sistema sanitario nazionale: quale costo?

Il sentirsi vittime, la paura del crimine e l’insicurezza sociale, sviluppando fragilità interiori e problematiche di tipo psicosociale, finiscono per incidere negativamente sui costi del Sistema Sanitario Nazionale.

Questo perché anche la semplice percezione dell’insicurezza, o della paura, provocando, come abbiamo visto, stress nelle persone, obbliga queste ultime a ricercare dei metodi risolutivi per far fronte alle proprie ansie o alle proprie patologie psicofisiche (Triventi, 2008).  

Per migliorare non soltanto la sicurezza sociale, ma anche la sostenibilità del sistema sanitario, è pertanto necessario diminuire la paura del crimine provata dalle persone, nonché il loro senso di insicurezza interiore, con interventi mirati di natura psicosociale che riescano a creare nelle persone una migliore percezione della società e, al contempo, dello Stato.

È solo diminuendo l’insicurezza sociale, e quindi la paura del crimine, che si potrà ridurre lo stress psicofisico e psicosociale, con un considerevole impatto positivo sulla qualità di vita delle persone.   

Bibliografia

Bardi, M., Caracciolo, L., Corbari, E. (2016). Diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Il recepimento italiano della Dir 2012/29/UE, International Journal of Criminological and Investigative Sciences, XI, 20-42. 

Sicurella, S. (2012). Lo studio della vittimologia per capire il ruolo della vittima, Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, VI, 3, 62-75.

Skogan, W.G. (1993). The various meanings of fear, in W.Bilky, Fear of crime and criminal victimization, Enke, Stuttgart.

Triventi, M. (2008) Vittimizzazione e senso di insicurezza nei confronti del crimine: un’analisi empirica sul caso italiano, Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, II, 2, 137-159.

Sociologia

Il genitore è chi che esercita il parenting, cioè tutto ciò che attiene alle capacità di aiutare il bambino e sostenerne lo sviluppo. Le qualità genitoriali, dunque, sono tutto ciò che riguarda l’allevamento e l’educazione di un bambino, avviate dal genitore o dalla figura genitoriale.

Negli ultimi anni la letteratura genitoriale, grazie alla ricerca, allo studio e gli strumenti di analisi si è molto arricchita e i ricercatori stanno ancora dibattendo su importanti questioni in relazione alla genitorialità.

Autore

Dott.ssa Annamaria Venere – Sociologa Sanitaria, Criminologa Forense, Amm. Unico “AV Eventi e Formazione“, Direttore editoriale MEDICALIVE MAGAZINE – Catania.


Diventare genitori: il significato della genitorialità

Nella moderna concezione sociale di famiglia, il genitore non è più soltanto chi, da un punto di vista biologico, genera un bambino, bensì colui che esercita su quest’ultimo la genitorialità.

La figura del genitore, infatti, è ravvisabile nella persona che esercita il parenting, ovvero un processo relazionale co-determinato dal bambino e dall’adulto, che determina lo sviluppo fisico e psico-socio-culturale ed educativo del figlio, in una precisa dimensione spazio-temporale e socio-culturale.

Più in particolare, la genitorialità è la capacità del genitore di assumere un preciso schema comportamentale che lo porti a nutrire, accudire, proteggere, educare, rendere autonomi i propri figli nei canoni psicosociali ed evolutivi appena descritti (Cusinato & Panzeri, 2005).

Sono tre i compiti che un genitore deve svolgere se vuole esperire una genitorialità funzionale allo sviluppo psicologico e sociale del bambino (Buonanno et al., 2010):

  1. elargire affetto ed offrire considerazione e rispetto per le caratteristiche soggettive (desideri, avversioni, emozioni…) dei propri figli, sapendone dare attenzione e riscontro;
  2. svolgere un’efficace funzione di controllo equilibrata, attraverso indicazioni e regole atte a favorire un valido sviluppo di principi sociali ed etici necessari per l’adattamento del figlio alla vita della comunità sociale di appartenenza;
  3. infine, fornire protezione e guida al bambino fino al raggiungimento della maturità fisica e psicologica.

Questi compiti assumono per un genitore significati comportamentali diversi secondo la fase del ciclo di vita in cui si trova il figlio.

La stessa peculiarità relazionale che intercorre tra genitore e figlio andrà a costituire lo stile di parenting, il quale avrà un’enorme influenza sulle caratteristiche evolutive psicosociali del bambino.

La genitorialità in veste pratica: gli stili di parenting

Lo stile di parenting adottato da ciascun genitore dipende da tanti fattori che assieme concorrono a definire il preciso schema comportamentale con cui egli si relaziona con il proprio figlio.

Alcuni autori affermano che lo stile genitoriale non è altro che l’esplicazione del modello operativo interno, ovvero delle modalità di attaccamento sperimentate dal genitore durante la propria infanzia.

In particolare, si evidenzia un’alta correlazione tra le esperienze vissute dai genitori e il legame che essi instaurano con i propri figli (Bowlby, 1979; 1988). Oltre all’influenza dei legami di attaccamento dei genitori, gli stili di parenting sono condizionati anche dai rimodellamenti interni alla coppia genitoriale presente, nonché dal livello di soddisfazione coniugale.

Ancora, un ulteriore elemento da prendere in considerazione è l’attesa sociale e culturale nei confronti degli stessi genitori (Buonanno et al., 2010).

In conformità a tali fattori, possiamo individuare quattro stili di parenting: indulgente, autoritario, autorevole, disimpegnato. Il genitore indulgente è permissivo e non direttivo: nei confronti del bambino si dimostra estremamente disponibile, anche qualora le circostanze non lo richiedano, lasciando al proprio figlio fin troppa libertà.

Il genitore autoritario, invece, si caratterizza per un atteggiamento direttivo: in assenza di responsività, mostra un alto controllo nei confronti del bambino, verso cui nutre grandi aspettative a volte irrealistiche.

I genitori autorevoli, diversamente, sono sia responsivi che richiedenti, poiché monitorano i comportamenti del bambino con norme chiare e preferiscono ricorrere a metodi educativi solidali, piuttosto che punitivi. Infine, abbiamo i genitori disimpegnati, che mostrano trascuratezza, scarso supporto e controllo del proprio figlio (Maccoby e Martin, 1983).

Effetti psicosociali del parenting: interventi a supporto della genitorialità

Considerato che lo stile genitoriale autorevole è quello più indicato per un corretto sviluppo psicosociale, distinguiamo tre stili genitoriali particolarmente problematici sotto questo punto di vista: una genitorialità caratterizzata da eccessivo controllo e intrusività nei confronti dei figli; una genitorialità caratterizzata da induzione di colpa nei figli; comportamenti genitoriali caratterizzati da eccessiva trascuratezza. Ognuno di questi stili ha delle conseguenze psicosociali rilevanti (Buonanno et al., 2010).

Nel primo caso i figli possono sviluppare condizioni di eteronomia, nonché compromissioni nella sfera decisionale a causa di una relazione con l’autorità vissuta come problematica, che porta ad atteggiamenti e comportamenti passivo-aggressivi, ostili, oppositivi, sospettosi e diffidenti.

Nel secondo caso, la colpevolizzazione ingiusta, porta i bambini ad assumere nel tempo atteggiamenti oppositivi, di provocazione e sfida, alla ricerca di regole e principi normativi che sono loro mancati; per farlo possono arrivare a sfidare la comunità sociale con intenti provocatori.

Infine, nel terzo caso, la trascuratezza può portare a sensazione di abbandono, assenza di guida e direzione, che rendono difficile sviluppare un profilo psicosociale all’interno della società di appartenenza (Barber et al. 1994).

Per prevenire gli effetti psicologici negativi degli stili di parenting disfunzionali, interventi noti con il termine di parent style o positive training o training genitoriali (Pergolizzi, 2006) possono apportare benefici.

Attraverso questi interventi psicosociali e psicoterapeutici si interviene nei confronti dei genitori in difficoltà, modificando le variabili comportamentali, educative e sociali che riguardano il legame genitori-figli, affinché i primi siano in grado di sviluppare quelle risorse genitoriali che mancano, riuscendo così a salvaguardare la prole dall’insorgenza di problematiche psicosociali future.   

Bibliografia

Barber, B.K., Olsen, J.E., Shagle, S.C. (1994). Associations between parental psychological and behavioral control and youth internalized and externalized behaviors, Child Development, 65, pp. 1120-1136.

Benedetto, L., Ingrassia, M. (2010). Parenting, Psicologia dei legami genitoriali, Carrocci, Roma.

Bowlby, J. (1979). Costruzione e rottura dei legami affettivi, Cortina, Milano, 1982.

Bowlby, J. (1988). Una base sicura, Cortina, Milano, 1988.

Buonanno, C., Capo, R., Romano, G., Di Giunta, L., Isola, L. (2010). Psichiatria e psicoterapia, 29, 3, pp. 176-188.

Cusinato, M., Panzeri, M. (2005). Le sfide della genitorialità, Guerini Scientifica, Milano.

Maccoby, E.E., Martin, J.A. (1983). Socialization in the context of the family: parent-child interaction, Wiley, New York.

Pergolizzi, F. (2006). Parenting style come sorgente di interazioni normali e patologiche, in F.Rovetto, P. Moderato (2006), Progetti di intervento psicologico, McGraw Hill, Milano.

Sociologia

Internet, negli ultimi dieci anni, ha trasformato del tutto le nostre abitudini e, con esse, l’aspetto relazionale (l’interesse si sposta, in grande percentuale, verso le relazioni online) e sociale del contatto umano. Circa la metà di coloro che naviga in internet utilizza regolarmente i social network per accedere agli incontri online e cercare l’amore in chat.

Sociologia

Il consumo e l’abuso di alcol fra i giovani e gli adolescenti è un fenomeno preoccupante e in forte crescita, in Italia come all’estero. La cultura del bere attualmente diffusa tra i giovani segue sempre più spesso standard indirizzati verso modelli di “binge-drinking” ossia il “bere per ubriacarsi. La riduzione dei rischi e delle conseguenze legate al consumo e all’abuso di alcolici da parte dei giovani ha, infatti, rilevanti implicazioni in termini di salute pubblica e costi sociali (rischi per la salute e la sicurezza, incidentalità stradale e violenza, riduzione della qualità della vita nei territori ad alta concentrazione di locali notturni, ecc.).

Sociologia

Possiamo definire la menzogna come l’alterazione o falsificazione verbale della verità perseguita, ma con piena consapevolezza e determinazione. Una delle caratteristiche che differenzia la menzogna da altre manifestazioni, come ad esempio la finzione è, dunque, la consapevolezza dell’atto (Mahon, 2008). Di conseguenza, perché si possa parlare di menzogna, devono sussistere tre criteri: il mentitore deve sapere che ciò che sta dicendo non è vero; la menzogna dev’essere un atto intenzionale, e quindi escludere la presenza di dimenticanze, confusione, valutazioni errate; infine, il destinatario della comunicazione menzognera non dev’essere già informato che ciò che viene detto è falso (Vrji, 2008; Ekman, 2009).

Sociologia

I dati provenienti da una recente indagine di Pornhub evidenziano un’importante crescita dell’interesse per l’erotismo.

Ciò è dovuto a svariate trasformazioni sociali cui il pensiero erotico è andato incontro, soprattutto a fronte dell’evoluzione tecnologica e digitale. Questi scenari virtuali consentono di espandere a dismisura l’immaginario erotico, a discapito della componente relazionale.