Con la sentenza della terza sezione civile n. 14258 dell’8.7.2020 la Corte di Cassazione esamina la questione della natura della richiesta risarcitoria proposta dai familiari della vittima.
Autore
Avv saber mais. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.
[otw_shortcode_dropcap label=”Q” background_color_class=”otw-no-background” size=”large” border_color_class=”otw-no-border-color” label_color=”#008185″][/otw_shortcode_dropcap]uale natura ha la richiesta risarcitoria dei congiunti per la perdita del rapporto parentale?
FATTI DI CAUSA
F.E., V. e F., premesso che il proprio genitore, F.C., era precipitato volontariamente al suolo da una finestra dell’ospedale, mentre era ricoverato nel reparto di medicina interna incardinavano due diversi giudizi.
Il primo instaurato da F.E., l’altro radicato dai di lei fratelli, V. e F., per chiedere il risarcimento dei danni conseguenti al decesso del proprio genitore, addebitandolo ad omissione di vigilanza e/o accorgimenti e/o terapie da parte del personale sanitario infermieristico del suddetto Ospedale.
Riferiscono, infatti, di aver dedotto che F.C. soffriva di problemi psichiatrici, essendo, sin da allora, seguito dalla struttura psichiatrica dell’Ospedale, per un quadro di schizofrenia paranoide ed avendo, per tale ragione, subito una cinquantina di ricoveri ospedalieri, anche in regime di T.S.O., , dal 2003 al 2006, due ricoveri in una comunità protetta.
Noto il quadro clinico alla struttura ospedaliera, la stessa – allorché l’uomo ebbe a presentarsi presso il Pronto Soccorso ospedaliero, lamentando disturbi alla respirazione – avrebbe dovuto adottare, secondo quanto sostenuto dai figli della vittima, delle misure idonee a scongiurare l’evento suicidario, invece verificatosi.
La domanda veniva respinta sia in primo grado che in grado di appello.
I figli della vittima ricorrono per cassazione, censurando la sentenza impugnata laddove ha ritenuto di dover inquadrare l’azione da essi esperita nella previsione di cui all’art. 2043 c.c. (responsabilità extracontrattuale) anziché in quella di cui agli artt. 1218 e 1228 c.c. (responsabilità contrattuale), ignorando, così, l’inquadramento dato dall’ormai consolidata giurisprudenza, di merito come di legittimità, alla responsabilità di una struttura sanitaria, allorché siano gli eredi o i familiari del paziente a promuovere un giudizio di natura risarcitoria.
In simili casi, infatti, la pretesa troverebbe fondamento – a loro dire – in un contatto sociale qualificato, con effetti protettivi anche nei confronti di soggetti terzi, quali i ricorrenti assumono di essere stante la loro posizione di figli del paziente deceduto.
Ove fosse stata riconosciuta la natura contrattuale dell’azione esperita, sarebbe stato onere della struttura sanitaria vincere la presunzione di responsabilità a proprio carico, ciò che nella specie, invece, non risulterebbe avvenuto.
Assumono i ricorrenti che – anche a ritenere l’azione esperita di natura extracontrattuale – la sentenza della Corte di appello sarebbe comunque illegittima, non avendo il Tribunale (prima) e la Corte di appello (dopo) permesso alla parte danneggiata di provare, ricorrendo alle prove orali e alla CTU, sia “an” che “quantum” della propria pretesa risarcitoria.
In ogni caso – rilevano – dagli atti di causa era ricavabile la prova della sussistenza della responsabilità extracontrattuale della struttura sanitaria convenuta, poiché dalla documentazione prodotta risultavano evidenti tanto le omissioni quanto egli errori in cui essa era incorsa nel trattamento del paziente e, quindi, il nesso causale tra la condotta dalla stessa posta in essere e l’evento suicidario verificatosi.
Col terzo motivo si ipotizza l’omesso esame di fatti storici la cui esistenza risulterebbe dagli atti del processo e che avrebbero determinato, se esaminati, un diverso esito della controversia.
Si tratta, precisamente, della certificazione attestante i numerosi ricoveri del F., in regime di T.S.O., presso il reparto di psichiatria di quella stessa struttura ospedaliera, nonché la sua permanenza in struttura protetta per malattie mentali, nonché della cartella clinica riguardante il ricovero in pronto soccorso e la sua sottoposizione a visita psichiatrica e, infine, del diario infermieristico relativo al ricovero.
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
Il ricorso è rigettato.
La Suprema Corte premette che i ricorrenti hanno agito – nelle fasi di merito del presente giudizio – per far valere il diritto al risarcimento del danno “iure proprio” (ovvero, da perdita del rapporto parentale), in ragione del decesso, per evento suicidario, del loro genitore, F.C., paziente con una lunga e travagliata storia clinica di malato psichiatrico.
I fratelli F., nello specifico, hanno esperito azione contrattuale nei confronti della struttura ospedaliera presso la quale il loro congiunto era stato ricoverato – sebbene per difficoltà respiratorie – al momento del decesso (e presso il quale, in passato e in ripetute occasioni, fu trattata anche la patologia mentale dalla quale egli risultava affetto), sul presupposto di essere “terzi protetti dal contratto“, intervenuto tra il nosocomio ed il paziente.
Il motivo in esame, quindi, contesta l’affermazione compiuta da ambedue i giudici di merito di escludere che essi potessero agire “ex contractu“.
La Corte precisa che quanto alla “responsabilità per omessa vigilanza di una struttura sanitaria nei confronti di persona ospite di un reparto psichiatrico non interdetta né sottoposta ad intervento sanitario obbligatorio, il rapporto è ricondotto nell’ambito contrattuale ed in particolare di quel contratto atipico di assistenza sanitaria che si sostanzia di una serie complessa di prestazioni che la struttura eroga in favore del paziente, sia di natura medica che “lato sensu” di ospitalità alberghiera”.
In termini ancora più specifici, si è affermato – sempre con riferimento a danni patiti da malato psichiatrico a causa di comportamenti autolesionistici – che qualsiasi “struttura sanitaria, nel momento stesso in cui accetta il ricovero d’un paziente, stipula un contratto dal quale discendono naturalmente, ai sensi dell’art. 1374 c.c., due obblighi: il primo è quello di apprestare al paziente le cure richieste dalla sua condizione; il secondo è quello di assicurare la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela, per le quali detta protezione costituisce la parte essenziale della cura“.
La Giurisprudenza – pur prendendo atto che, con l’avvento della L. 13 maggio 1978, n. 180, l’ordinamento giuridico ha recepito “il rifiuto di ogni concezione che non riconosca nella volontarietà del trattamento la fonte ordinaria di legittimità del trattamento stesso“, frutto di una maggiore sensibilità al rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti civili – ha sottolineato, tuttavia, che ciò “non interferisce sull’obbligo di sorveglianza che incombe su coloro che in concreto sono incaricati di tale compito a seguito di una precisa diagnosi“, e ciò “in quanto diversamente ad una maggiore tutela della personalità finirebbe per corrispondere, senza che la norma nulla dica al riguardo, una tutela minore della persona“.
Su tali basi, dunque, una volta ricondotta la salvaguardia dell’incolumità del paziente psichiatrico tra gli obblighi di protezione, si è affermato come ai “fini della ripartizione dell’onere probatorio, il paziente debba abitualmente provare solo l’avvenuto inserimento nella struttura e che il danno si sia verificato durante il tempo in cui egli si trovi inserito nella struttura (sottoposto alle cure o alla vigilanza del personale della struttura), mentre spetta alla controparte dimostrare di avere adempiuto la propria prestazione con la diligenza idonea ad impedire il fatto“.
Nella stessa prospettiva, si è anche evidenziato che, ricorrendo in casi siffatti una ipotesi di “culpa in vigilando” (come del resto in qualsiasi ipotesi di colpa omissiva consistita nel non avere impedito un evento che si era obbligati ad impedire) l’avverarsi stesso dell’evento costituisce, in tesi, prova dell’esistenza del nesso di causa tra la condotta omissiva ed il danno, potendo la struttura sanitaria esonerarsi da responsabilità “dimostrando di avere tenuto una condotta diligente“, consistita “in una adeguata sorveglianza del degente“.
Nondimeno, se deve ritenersi che una struttura ospedaliera risponda, contrattualmente, dei danni dei quali chieda il ristoro lo stesso paziente (che lamenti la mancata adeguata vigilanza sulla sua persona, ed in particolare l’omesso impedimento di atti autolesivi) non altrettanto può dirsi in relazione all’iniziativa risarcitoria assunta dai suoi stretti congiunti, per far valere, nelle stesse ipotesi, il danno da menomazione del rapporto parentale, o da perdita dello stesso, particolarmente nel caso in cui l’iniziativa autolesionistica del malato, soprattutto quello psichiatrico, si risolva in un atto suicidario portato a compimento.
La Suprema Corte precisa che, in fattispecie analoga, in relazione alla domanda risarcitoria proposta, in via contrattuale, dalla figlia di una donna affetta da morbo di Alzheimer, e ricoverata presso una residenza per anziani, in merito alla morte della propria genitrice, deceduta a seguito di precipitazione da una finestra della stanza di degenza, è stato rilevato che “il rapporto contrattuale” risultava “intercorso tra la stessa casa di riposo e la ricoverata, non certo tra la prima e la figlia della seconda“, di talché, “l’ambito risarcitorio” nel quale la domanda doveva “essere inquadrata” fu ritenuto “necessariamente di natura extracontrattuale“.
Con riferimento ad una fattispecie di responsabilità medica relativa ad un evento mortale (ancorché in ambito diverso da quello di prestazioni sanitarie a favore di malato psichiatrico, né con riferimento all’omessa vigilanza dello stesso), si è precisato, inoltre, che “il diritto che i congiunti vantano, autonomamente sebbene in via riflessa ad essere risarciti dalla medesima struttura dei danni da loro direttamente subiti“, in relazione al decesso del paziente, “si colloca nell’ambito della responsabilità extracontrattuale e pertanto è soggetto al termine di prescrizione quinquennale previsto per tale ipotesi di responsabilità dall’art. 2947 c.c.“.
Secondo la Suprema Corte “il tratto distintivo della responsabilità contrattuale risiede nella premessa della relazionalità, da cui la responsabilità conseguente alla violazione di un rapporto obbligatorio“, sicché il “danno derivante dall’inadempimento dell’obbligazione non richiede la qualifica dell’ingiustizia (che si rinviene nella responsabilità extracontrattuale) perché la rilevanza dell’interesse leso dall’inadempimento non è affidata alla natura di interesse meritevole di tutela alla stregua dell’ordinamento giuridico, come avviene per il danno ingiusto di cui all’art. 2043 c.c.” “ma alla corrispondenza dell’interesse alla prestazione dedotta in obbligazione” essendo, dunque, “la fonte contrattuale dell’obbligazione che conferisce rilevanza giuridica all’interesse regolato“.
È per questa ragione, allora, che nell’ambito delle prestazioni mediche la figura del contratto con efficacia protettiva verso terzi trova il suo luogo di emersione con riferimento, ad esempio, alle relazioni contrattuali intercorse tra la puerpera e la struttura sanitaria (e/o il professionista) che ne segua la gestazione e/o il parto.
Già da tempo, peraltro, la Corte di Cassazione ha affermato che “col ricovero della gestante l’ente ospedaliero si obbliga non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al fine di consentirle il parto, ma altresì ad effettuare, con la dovuta diligenza e prudenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto (ed al neonato), sì da garantirne la nascita, evitandogli – nei limiti consentiti dalla scienza (da valutarsi sotto il profilo della perizia) – qualsiasi possibile danno“, dei quali, altrimenti, risponderà, una volta che il nascituro venga ad esistenza, sul piano contrattuale, sebbene il medesimo sia rimasto estraneo al contratto.
Analogamente, si è ritenuto che il neonato malformato (o meglio, per costui, i suoi rappresentati legali) possa agire, sempre contrattualmente, in relazione ai danni che gli siano derivati, per violazione dell’obbligo di informazione, nel caso in cui alla genitrice, durante la gestazione, siano stati somministrati senza adeguata informazione farmaci che abbiano provocato malformazioni al concepito.
Il presupposto comune, per lo più, a tali pronunce è la constatazione che il contratto intercorso tra la gestante ed il sanitario (o la struttura), si atteggia come “contratto con effetti protettivi a favore di terzo” nei confronti del neonato, quantunque le prestazioni nei suoi confronti “debbano essere assolte in tutto o in parte, anteriormente alla nascita“.
Al di fuori di questo ambito, peculiare, la figura del contratto con efficacia protettiva verso il terzo, nel campo della responsabilità da malpractice sanitaria, non ha ragion d’essere, dovendo, dunque, le pretese risarcitorie azionate “iure proprio” dai congiunti del paziente, unica parte della relazione contrattuale, essere fatte valere ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Prosegue l’iter motivazionale della Corte nel sottolineare che il rigetto della domanda risarcitoria proposta dai fratelli (figli del paziente) discende dall’avere, i Giudici di merito, escluso “da un canto, la prevedibilità dell’evento (suicidario, n.d.r.), dall’altro la colpa della struttura per aver ricoverato F. nel reparto medico invece che in quello di psichiatria“, e ciò, oltre che “per non aver consentito ai parenti di assisterlo durante la notte“, anche “per non aver adottato nei suoi confronti sistemi di contenzione“.
Il ricovero, peraltro, era avvenuto per “problematiche di natura respiratoria“, presentandosi, inoltre, il paziente “vigile“, seppur “non collaborante“, evidenziando, infine, come le annotazioni sulla cartella clinica, sebbene dessero conto anche di “una cronica e grave malattia psichica“, denotassero che egli, in quel momento, “non presentava alcun particolare segno acuto di quest’ultima“.