Gastroenterologia

Mariangela Rizzo Studente del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Milano-Bicocca
 
Alessio Gerussi MD, Specialista in Medicina Interna, Università degli Studi di Milano-Bicocca
 
Marco Carbone MD, PhD, Specialista in Gastroenterologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca
 
Pietro Invernizzi MD, PhD, Specialista in Gastroenterologia, Professore Associato, Centro Malattie Autoimmuni del fegato, Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Milano-Bicocca

 
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Introduzione
 
La colangite biliare primitiva (CBP) è una rara patologia autoimmune che colpisce selettivamente i piccoli dotti biliari intraepatici causando colestasi cronica, ovvero una riduzione dell’efflusso di bile con conseguente ritenzione nel fegato. Il fegato e il sistema dei dotti biliari costituiscono un unico grande insieme, perciò un problema colangiocitico può provocare, in seconda istanza, anche un danno agli epatociti. Nonostante abbia più spesso un inizio silente ed una lunga fase asintomatica, la patologia può progredire verso la fibrosi, la cirrosi epatica, l’insufficienza epatica e la morte. Nella maggior parte dei casi è diagnosticata in fase iniziale e i trattamenti sono spesso efficaci nel bloccare la sua progressione.
 
Chiamata per decenni con il nome di “cirrosi biliare primitiva”, una commissione di esperti dell’associazione europea di epatologia (EASL), riunitasi a Milano nel 2014, ha modificato il nome in “colangite biliare primitiva”, alla luce del fatto che non tutti i pazienti affetti da CBP sviluppano cirrosi.
 
Epidemiologia
 
La CBP è una malattia rara, avendo una prevalenza inferiore a 5 casi su 10.000 abitanti (criterio europeo per definire rara una malattia); in Italia si ritiene ci siano tra i 12.000 e i 13.000 casi (Younossi et al., 2018). Secondo Orphanetla prevalenza e l’incidenza globali della CBP sono rispettivamente 2.1/10.000 e 0.3/10.000/anno. Considerando tutti i dati epidemiologici disponibili in varie aree del globo (Nord America, Europa, Australia, Spagna e Israele), si può osservare una variazione in termini di prevalenza ed incidenza tra le diverse aree geografiche, giustificata probabilmente da una diversità di accesso alla diagnosi e alle cure piuttosto che da una reale differenza tra le varie zone. Il sesso maggiormente colpito è quello femminile, con un’età di incidenza superiore ai 40 anni circa; su 10 pazienti circa 9 sono femmine. Tuttavia, un recente studio basato su dati raccolti in Lombardia e Danimarcaha dimostrato che sono affetti da CBP più maschi di quanto fosse atteso.
 
Eziologia
 
La causa dell’insorgenza della CBP è ancora sconosciuta, anche se è chiaramente una malattia autoimmune. Le evidenze sostengono la relazione tra predisposizione genetica e fattori ambientali. A favore della prima vi sono un’aumentata concordanza presente nei gemelli omozigoti e l’identificazione, tramite grandi studi genetici (chiamati GWAS, cioè “Genome Wide Association Studies”), di numerosi geni associati alla modulazione della risposta immunitaria (sia innata che acquisita). Inoltre, più della metà dei pazienti affetti da CBP presenta un’altra condizione autoimmune come ad esempio la celiachia, la sclerodermia, la tiroidite autoimmune e la sindrome di Sjogren, il che riflette una predisposizione comune tra le varie patologie autoimmuni. I fattori ambientali, come l’esposizione ad agenti virali o ad agenti chimici, possono essere considerati dei trigger per l’avvio della risposta autoimmune, in questa malattia esclusivamente diretta contro i colangiociti dei piccoli dotti biliari. Una maggiore comprensione dei meccanismi molecolari alla base della CBP consentirà la definizione di nuovi target terapeutici, pertanto la ricerca del meccanismo patogenetico è una tra le più grandi sfide in campo epatobiliare.
 
Aspetti immunologici
 
La patogenesi della malattia è sicuramente autoimmune. È stato dimostrato che la malattia è caratterizzata da una aggressione immunitaria diretta contro alcuni enzimi presenti nei mitocondri (famiglia enzimatica della piruvatodeidrogenasi) che coinvolge tutte le componenti del sistema immunitario, dalla produzione di autoanticorpi sierici anti-mitocondriali (AMA) (immunità umorale) all’attivazione di numerosi tipi di cellule immunitarie come linfociti T CD4, CD8, Natural Killers, monociti/macrofagi, etc. (immunità cellulare).
 
Focus biochimico sugli acidi biliari
Gli acidi biliari primari (colico e chenodeossicolico) vengono prodotti dagli epatociti a partire dal colesterolograzie all’enzima citocromo P450 7A1- idrossilasi (CYP7A1); una volta coniugati con taurina e glicina, vengono secreti nei canalicoli biliari. I sali biliari di neosintesi nell’intestino divengono acidi biliari secondari (deossicolico, litocolico e ursudesossicolico) grazie alle reazioni di deidrossilazione e deconiugazione ad opera del microbiota. Il 95% degli acidi viene riassorbito nell’ileo terminale tramite un co-trasportatore sodio dipendente (ASBT) e, una volta arrivato all’interno della circolazione portale, avviene il re-uptake negli epatociti tramite il cotrasportatore sodio-taurocolato (NTCP), situato sul versante sinusoidale dell’epatocita, assieme al trasportatore di anioni organici (OATP).
 
Meccanismi di regolazione dell’omeostasi degli acidi biliari
 
Esistono vari meccanismi che permettono di proteggere gli epatociti dalla tossicità indotta dagli acidi biliari. Il principale meccanismo dell’omeostasi degli acidi biliari è costituito dal recettore nucleare farnesoide X (FXR); negli enterociti, gli acidi biliari legano FXR riducendo l’espressione del gene CYP7A1, con conseguente diminuzione della sintesi degli acidi biliari (meccanismo a feedback negativo); inoltre, FXR riduce l’attività di ASBT, NTCP, OATP e aumenta quella della pompa che secerne gli acidi biliari nella bile(BSEP). Un’altra importante azione di controllo è svolta dal fattore di crescita dei fibroblasti 19 (FGF-19) che, una volta secreto nella circolazione portale, va ad interagire con il proprio recettore posto sugli epatociti, attivando un pathway inibitorio della trascrizione del gene per il CYP7A1. Complessivamente queste azioni creano un ambiente protettivo nei confronti della tossicità della bile, chiamato “ombrello dei bicarbonati” (in inglese, “bicarbonateumbrella”). In particolare, questo “ombrello” svolge un ruolo difensivo per gli epatociti e per i colangiociti, in quanto questo meccanismo, tramite la secrezione di bicarbonato nelle vie biliari, permette l’alcalinizzazione che provoca un passaggio verso la forma ionizzata degli acidi biliari.
 
Quadri istopatologici della CBP
 
Il quadro istologico della malattia viene essenzialmente classificato in 4 stadi (Classificazione di Ludwig):
STADIO I: portale o delle lesioni floride (senza interfaccia);
STADIO II: infiammazione periportale (epatite interfaccia) o della proliferazione duttulare;
STADIO III: bridging porto-portale e centro-portale (fibrosi);
STADIO IV: end stage-cirrosi.
Nonostante siano descritti come quadri istologici ben definiti, in realtà, nella pratica clinica, i diversi quadri possono spesso coesistere.
 
Diagnosi
 
Al momento la maggior parte dei pazienti è diagnosticata durante la fase asintomatica della malattia. Le linee guida per la diagnosi comprendono:
• Un aumento persistente (almeno 6 mesi) nel siero di fosfatasi alcalina (FA) (evidenza di colestasi);
• Positività anticorpi anti-mitocondrio (AMA) (> 1:40) oppure anticorpi anti-nucleoanti-gp210 e/o anti-Sp100 (ANA);
• Quadro istologico compatibile con colangite non suppurativa dei dotti interlobulari.
 
È sufficiente soddisfare almeno due criteri. Il 95% dei pazienti risulta AMA positivo, perciò la biopsia epatica può non essere indispensabile, sebbene sia spesso utile per escludere forme concomitanti di sofferenza epatica, studiare correttamente la malattia, definire la probabilità di risposta ai farmaci e più correttamente la prognosi della malattia. Nel restante 5% dei casi di AMA negatività la diagnosi viene completata dalla prova bioptica. È importante ricordare che ci sono alcuni autoanticorpi anti-nucleari (ANA) specifici per la malattia, anti-sp100 e anti-gp210, utili per la diagnosi, ma anche con un significato prognostico negativo.
La CBP è caratterizzata negli stadi iniziali da un aumento dei livelli di FA e gamma GT (GGT), invece l’aumento della concentrazione di bilirubina e la diminuzione di albumina plasmatica sono tipici degli stadi avanzati e sono anche importanti marcatori prognostici.
 
Gli autoanticorpi, presenti nella sierologia di un paziente affetto da CBP, hanno un significato fondamentale nella diagnosi biochimica e hanno permesso di diminuire nettamente la richiesta di biopsie epatiche a fini diagnostici. Gli autoanticorpi AMA (anti-mitocondrio) sono specifici per la malattia e agiscono selettivamente contro le frazioni M2 (multicomplessi proteici presenti sulla membrana interna mitocondriale) dei colangiociti dei piccoli dotti intraepatici, in modo specifico contro l’antigene E2 dell’enzima piruvato deidrogenasi. Gli ANA (anti-nucleo), distinti in anti-nucleardots e anti-nuclearrims, agiscono selettivamente contro gli antigeni Sp100 e gp210 rispettivamente e hanno valore diagnostico e prognostico.
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Anche i livelli di immunoglobuline sieriche, nonostante non facciano parte dei criteri diagnostici, hanno un ruolo nell’indirizzarci verso la giusta diagnosi, specialmente di quadri atipici: in diversi pazienti è stato trovato un aumento di concentrazione policlonale di IgM; l’incremento di IgG sembra essere correlato alla presenza di epatite autoimmune AIH (sindromi overlap), sebbene non sia sufficiente per definire una diagnosi di overlap.
 
La principale patologia che entra in diagnosi differenziale con la CBP è la colangite sclerosante primitiva (CSP) che, a differenza della prima, non ha autoanticorpi specifici. Per la diagnosi di esclusione ha un ruolo predominante la colangio-RM con cui si può osservare direttamente la morfologia delle vie biliari, normale nella CBP, alterata nella CSP. Più insidiosa è la diagnosi differenziale tra CBP e CSP dei piccoli dotti che, non manifestando alterazioni evidenti radiologiche delle vie biliari, necessita della biopsia per dirimere il quesito diagnostico.
 
Gestione clinica del paziente
 
Nei pazienti con CBP è importante monitorare la risposta ai farmaci e la progressione della malattia.
Le indagini biochimiche, che includono indici di colestasi (GGT, FA, bilirubina), transaminasi, colesterolo sierico e gammaglobuline, vanno ripetute ogni 6-12 mesi per gli stadi iniziali ed ogni 3-4 mesi per gli stadi avanzati della patologia. Dal punto di vista dell’imaging è raccomandato eseguire l’ecografia epatica annualmente ed il Fibroscan ogni due anni per valutare la stiffness del fegato (indice indiretto e non invasivo di progressione fibrotica), con un cut-off > 9.6kPa indicativo di malattia epatica avanzata.
È frequente la concomitanza di altri quadri disimmuni come la sindrome di Sjogren, patologie tiroidee su base autoimmunitaria e anemie emolitiche autoimmuni, specialmente nei pazienti con una importante astenia.
La malattia generalmente ha una lenta progressione, anche se i casi possono essere estremamente variabili tra di loro.Circa la metà dei pazienti, diagnosticata durante la fase asintomatica, manifesta i sintomi tipici (prurito e astenia) dopo circa 10 anni dalla diagnosi. È stato dimostrato che la fase sintomatica si presenta principalmente in donne giovani refrattarie alla terapia primaria e con una progressione della patologia più veloce rispetto allo standard.
Il prurito può anche essere severo ed influire in modo negativo sulla qualità di vita del paziente;
 
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viene trattato in prima linea con colestiramina (resina a scambio anionico cloridrata in grado di legare gli acidi biliari nel lume intestinale), con rifampicina (seconda linea) ed eventualmente naltrexone (terza linea).
L’astenia è un sintomo abbastanza aspecifico e tipico di numerose altre condizioni che devono essere escluse per poter affermare che si tratti di astenia CBP-correlata. È presente nell’80% dei malati e non va di pari passo con la severità della malattia. Non esistono trattamenti per questo tipo di sintomo che a volte può anche essere accompagnato da disordini del sonno ed ipotensione ortostatica.
Un ulteriore sintomo correlato alla colestasi CBP-associata è l’osteoporosi, abbastanza frequente (25-50%) specialmente in donne in età perimenopausale e postmenopausale. È fondamentale eseguire una densitometria ossea alla diagnosi per valutare la salute ossea al basale; in caso di osteopenia è importante supplementare con calcio e vitamina D, in caso di osteoporosi è necessaria una valutazione specifica per decidere in merito a ulteriore terapia farmacologica (bifosfonati, denosumab, etc).
I sintomi quindi non devono essere sottovalutati poiché pesano negativamente sulla qualità di vita del paziente.
 
Terapia
 
L’acido ursudesossicolico (UDCA), approvato dalla Food and DrugAdministration (FDA) nel 1997, è raccomandato dalla American Association for the Study of Liver Disease (AASLD) e dall’European Association for the Study of Liver (EASL) come terapia di prima linea in tutti i pazienti affetti da CBP, a una dose di 13-15 mg/kg/die generalmente frazionata nell’arco delle 24h). In condizioni fisiologiche l’UDCA rappresenta solo una bassa percentuale della totalità degli acidi che compongono la bile (1-4%); gli effetti benefici della somministrazione di UDCA sono stati ampliamente dimostrati in diversi trial. Questi sono dovuti principalmente a un incremento della quota idrofilica degli acidi a discapito della quota idrofobica, a una stimolazione della pompa di efflusso della bile (BSEP), ad una stabilizzazione del meccanismo del bicarbonateumbrella ed anche ad un’azione anti-infiammatoria e anti-apoptotica.
L’efficacia dell’acido ursudesossicolico è dimostrata dalla diminuzione della concentrazione sierica di FA, bilirubina, GGT, colesterolo e IgM dopo 12 mesi. UDCA ha anche un ruolo nel ritardo della progressione istologica della malattia e nel miglioramento della sopravvivenza libera da trapianto epatico, come dimostrato in numerosi trial clinici. Tuttavia, una percentuale variabile (20-40%) di pazienti con CBP ha un’inadeguata risposta e un 5% è intollerante.
Appare chiaro quindi la necessità di sviluppare nuove terapie a supporto della prima linea. Nel maggio 2016è stato approvato l’acido obeticolico (OCA) come terapia di seconda linea. L’acido obeticolico è un derivato dell’acido chenodeossicolico da cui differisce per un gruppo etilico che conferisce un’affinità maggiore per il recettore FXR, rispetto al suo ligando naturale. Pertanto l’OCA funge da agonista del FXR, modulando una serie di reazioni omeostatiche degli acidi biliari.
Lo studio POISE (studio di fase III, doppio cieco, controllo con placebo), condotto su 216 pazienti aventi un’inadeguata risposta o un’intolleranza alla terapia di prima linea, prevedeva la somministrazione di UDCA + OCA nel 93% dei casi e di monoterapia nel restante 7%; l’endpoint primario era composito (ALP < 1.67 ULN, BILIRUBINA < ULN, una riduzione di ALP almeno del 15% del valore). La metà dei pazienti ha soddisfatto l’end point primario. L’effetto indesiderato principale è la comparsa di prurito, per questa ragione è indicato iniziare con una dose di 5 mg/die, per poi aumentare fino alla dose massima raccomandata se ben tollerata (10 mg/die). Gli effetti a lungo termine sui pazienti con child B-C, sul trapianto e sulla mortalità devono ancora essere esaminati attraverso ulteriori studi. A oggi OCA è l’unico farmaco di seconda linea efficace nei pazienti che non rispondono all’UDCA.   Stratificazione del rischio
 
La CBP è una malattia molto eterogenea in termini di progressione, infatti non tutti gli affetti evolvono ad ESLD (end-stage liver disease), altri invece sviluppano cirrosi in tempi brevi, anche in pochi anni. Per questo motivo è fondamentale riuscire a delineare coloro i quali sono più a rischio di peggioramento della malattia epatica, per poterli seguire e trattare in maniera sempre più personalizzata (medicina di precisione). A tal proposito l’UK PBC group, guidato dal Dr. Marco Carbone dell’università Milano-Bicocca, ha sviluppato nel 2016 uno score in grado di identificare i pazienti a più alto rischio di progressione, proprio per garantire loro uno stretto monitoraggio ed eventualmente l’inizio della terapia di seconda linea. Il calcolatore di rischio usa le informazioni provenienti dall’Uk-PBC Research Cohort per stimare, in percentuale, il rischio di progressione della malattia nei pazienti in terapia con UDCA, di scompenso epatico e di eventuale trapianto di fegato negli anni dalla diagnosi.
È disponibile online un Risk Score Calculator che considera l’Upperlimit of normal (ULN) di Bilirubina, ALT o AST e ALP e il LLN di albumina e conta piastrinica dopo 12 mesi di trattamento con UDCA.
 
Pretreatmentprediction: UDCA response score
 
La risposta biochimica alla terapia di prima linea (treatment response) è un fattore altamente predittivo dell’outcome del paziente. È stato pubblicato, nel luglio del 2018, su Lancet Gastroenterology&Hepatology, uno studio che propone un modello per prevedere la risposta all’UDCA a 1 anno di terapia. Il goal dello studio è cercare di prevedere una risposta completa alla prima linea di terapia e, in caso contrario, di raccomandare l’inizio della terapia di seconda linea precocemente, sperando in un miglioramento nella prognosi. Lo studio ha dimostrato che è molto importante considerare i parametri biochimici del paziente albaseline; innanzitutto il ritardo con cui inizia la somministrazione di UDCA è associato ad un maggior rischio di sviluppare un’inadeguata risposta. La concentrazione di ALP al basale è il più importante fattore predittivo, questo perché ALP riflette la severità del danno biliare; anche la maggiore concentrazione di bilirubina influenza negativamente il treatment response, in quanto riflette un quadro di duttopenia avanzato. Ultimo, ma non meno importante, è l’età, infatti è stato dimostrato che i pazienti con un’inadeguata risposta all’UDCA erano più giovani; questa correlazione potrebbe essere spiegata dal ruolo degli ormoni come ad esempio gli estrogeni nelle giovani e nelle donne di media età. Si pensa che anche la cosiddetta “senescenza immunitaria” possa avere un ruolo nel tipo di risposta (esaurimento funzionale delle cellule T). Mettendo insieme tutte queste variabili, è stato creato un accurato modello per identificare precocemente i pazienti con un’alta probabilità di inadeguata risposta alla first-line therapy.
 
Nuove possibili terapie
 
Diversi studi in corso si propongono di valutare l’efficacia di nuove sostanze nel trattamento della CBP. Molta evidenza si è accumulata negli anni sugli agonisti del recettore PPAR, in particolare i fibrati.
 
Fibrati
 
Fibrati
 
I fibrati sono una classe di acidi carbossilici anfipatici e ipolipemizzanti, usati nel trattamento dell’ipertrigliceridemia. Il loro meccanismo di azione si basa sul legame con i recettori attivati da proliferatoriperossisomiali, quindi fungono da PPAR agonisti. Esistono tre isoforme del recettore: alfa, gamma e delta. Ad esempio, Fenofibrato ha una specificità per i PPAR-alfa (espressi maggiormente nel fegato e in altri organi che partecipano al metabolismo degli acidi grassi), Seladelpar per i PPAR-delta (espressi in modo ubiquitario), mentre Bezafibrato ha una comparabile affinità per tutte le tre classi di recettori. Questi recettori hanno una moltitudine di effetti positivi nel contesto di una patologia colestatica, ad esempio up-regolano l’espressione della proteina MDR3 che promuove l’escrezione della lecitina nella bile (questo diminuisce l’effetto citotossico dei sali biliari). In aggiunta i fibrati diminuiscono la trascrizione del NF-kB (importante fattore pro-infiammatorio).
 
Un importante trial, che ha stimato l’attività di bezafibrato, è il Bezurso (placebo-controlled, double blind and randomized trial). I 100 partecipanti sono stati suddivisi, in modo randomizzato, in due gruppi da 50 individui che, per un totale di 2 anni, sono stati trattati rispettivamente con UDCA + Bezafibrato 400mg/die e con UDCA + placebo. L’endpoint primario era la percentuale di pazienti che presentava, al termine dei 24 mesi, una risposta biochimica completa (definita dalla normalizzazione della concentrazione sierica di ALP, AST/ALT, Bilirubina totale, albumina e INR). La normalizzazione di ALP è stata riscontrata nel 67% dei partecipanti e la normalizzazione di tutti gli indici epatici nel 30%. In aggiunta anche il valore della stiffness e il prurito sono migliorati.
 
Nel grande gruppo degli agonisti del recettore FXR ritroviamo sostanze (agonisti non-acidi biliari) come GS9674, che sta dimostrando promettenti risultati nel modello murino, come EDP-305, promettente una migliore tollerabilità rispetto all’OCA (in uno studio di fase I, individui in salute e pazienti con presunta NAFLD).
 
NGM282, analogo sintetico del FGF-19, è stato al centro di un trial randomizzato multicentrico (in fase II). Questo trial prevedeva l’assunzione di UDCA + NGM282 da parte di 45 pazienti con CBP e un’inadeguata risposta all’UDCA contro placebo per 28 giorni. I risultati sono stati promettenti in quanto si è manifestata una riduzione dose dipendente dei livelli di ALP (15.2% con una dose di 0.3 mg, 19.2% con una dose di 3.0 mg e solo 1% nel placebo). Sono stati osservati effetti indesiderati come diarrea, nausea e mal di testa.
 
Il norUDCA, corrispondente all’acido ursudesossicolico mancante di un gruppo metilene, viene assorbito passivamente dai colangiociti (“shunt colepatico”), contribuendo alla formazione di un ambiente meno tossico per gli epatociti e i colangiociti. Dati sperimentali su modelli murini hanno mostrato le proprietà antifibrotiche e anti-infiammatorie dell’acido.
 
Trattamenti immunologici
 
I linfociti B e T infiltrano il fegato di un paziente affetto da colangite biliare primitiva e producono numerose citochine e chemochine pro-infiammatorie, giocando un ruolo nella patogenesi della malattia. È stato testato il Rituximab, anticorpo monoclonale contro la proteina di membrana dei linfociti B (CD20), ma attualmente non vi sono sufficienti evidenze per valutarne l’efficacia. Sulla stessa scia troviamo l’Ustekinumab, anticorpo monoclonale contro le interleuchine 12 e 23 (IL-12 e IL-23). Nei pazienti con CBP è stato osservato un aumento della sintesi di IL-23, correlato allo stadio della patologia. Il farmaco, testato su pazienti che non rispondono all’UDCA, non ha raggiunto l’end point primario (diminuzione della fosfatasi alcalina).
 
Il problema dell’immunomodulazione è la tempistica d’inizio della terapia stessa, infatti ci si aspetta che la terapia con anticorpi sia più efficace nei pazienti agli stadi iniziali della malattia, anche se è difficile identificarli precocemente.
 
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Psichiatria

Virgilio Paola Daniela, Pedagogista, PhD student at University of Cordoba, Faculty of Legal and Social Science.
 
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Jiménez Fanjul N. – PhD from the University of Córdoba (UCO) in the Social and Legal Sciences program. Professor of Didacties of Mathematics Teaching. Department of Mathematics. Universidad de Córdoba (UCO), Córdoba, Spain.
 
Renda N. – Psichiatra, Ser.T. ASP TP
 
Schifano M. – Psicologo, responsabile U.O. Psicologia clinica e di Comunità ASP TP
 
Maz Machado A. -PhD in Mathematics from the University of Granada (UGR). Professor of Didacties of Mathematics. Department of Mathematics. Universidad de Córdoba (UCO), Córdoba, Spain.

 

Abstract
According to some studies, the borderline cognitive functioning exists significantly within (clinical) population, especially during childhood and adolescence. That’s why we need to examine further the problem.
This article analyzes the current scientific literature, focusing on relationships between borderline cognitive functioning and mental disability.
The purpose of the study is to offer a psychopedagogical analysis of the problem, from pre-school age up to adulthood.
The review aims to provide a clear picture of the probability of developing psychiatric problems, by comparing children and adolescents affected by borderline intellectual problems with young people whose IQ is greater than 80.
 
Alcuni studi dimostrano che il funzionamento cognitivo borderline è significativamente presente nelle popolazioni cliniche specialmente nell’infanzia e nell’adolescenza. Ciò giustifica la necessità di ulteriori analisi del problema. Quest’ articolo esamina la letteratura attuale e si concentra sui collegamenti tra il funzionamento cognitivo borderline e il ritardo mentale e propone una riflessione psicopedagogica del problema in età prescolare, scolare e adulta. Il contributo è una riflessione sulle probabilità che hanno i bambini e gli adolescenti con Funzionamento Intellettivo Borderlinedi sviluppare problemi di natura psichiatrica rispetto a giovanissimi con QI superiori a 80.
 
Introduzione
 
Il funzionamento intellettivo borderline, posto per definizione come una sorta di limbo, un confine tra intelligenza normale e ritardo mentale (e.g. Vianello et al., 2014), costituisce una popolazione a cui oggi è necessario prestare grande attenzione. Una quota non trascurabile dei soggetti che approdano alla cura specialistica, segnalati dalle scuole, evidenziano una significativa correlazione tra il funzionamento intellettivo al limite ed una evoluzione verso la patologia psichiatrica e la deriva sociale (Biaggini 2004).
La fragilità emotiva e intellettiva espone bambini e adolescenti con funzionamento intellettivo borderlinea rischi di implicazioni psicopatologiche, poiché sperimentano l’insuccesso scolastico che provoca in loro un grave stress emotivo. In alcuni casi, talvolta, sfocia in comportamenti e psicopatologie con componenti di aggressività, e stati d’ansia. A scuola, in classe, i problemi riscontrati dagli insegnanti sono legati a: lentezza, scarso rendimento in tutte le discipline, scarsa capacità mnestica, iperattività, difficoltà di lettura e scrittura, disattenzione, atteggiamento rigido e poco adattivoed alterazioni affettive che, come dicevamo, si manifestano, in alcuni casi, con impulsività e aggressività. Nei casi più complessi i soggetti con Funzionamento Intellettivo Borderline presentano una comorbidità altissima con i disturbi psichiatrici (Wallander, J.L., Dekker, M.C., &Koot, H. M. 2003);
 
Approfondimento
 
Il funzionamento cognitivo limite (o borderline) delinea un quadro che va dall’ipoevoluzione nell’organizzazione cognitiva, immaturità psicoaffettiva e difficoltà ad acquisire un pensiero flessibile – fondamentale per risolvere operazioni mentali complesse, a casi di compromissioni maggiori che possono riguardare anche l’area del linguaggio.
I bambini e gli adolescenti che presentano un Funzionamento Cognitivo Limite rientrano nella categoria dei Bisogni Educativi Speciali (BES).Nei casi in cui si ottenga un punteggio di QI che si attesta nella fascia borderline è necessario ottenere un profilo di funzionamento allargato anche alla valutazione del linguaggio, delle funzioni esecutive, delle abilità visuo-spaziali, della lettura, della scrittura, delle abilità di calcolo, della comprensione del testo e del problemsolving; ma occorre anche escludere la presenza di eventuali disturbi del neurosviluppo e/o condizioni mediche associate (es. sindrome di Prader Willi).
Tra i primi passaggi più significativi ed importanti bisogna sottolineare la necessità di escludere la presenza di un disturbo del linguaggio, tenendo a mente la natura biunivoca della relazione tra linguaggio e lettura: il linguaggio, infatti, è necessario per imparare a leggere (Carroll e Snowling, 2004) e il tempo dedicato alla lettura influenzerà lo sviluppo di un adeguato bagaglio lessicale che, a sua volta, influirà sull’efficienza della lettura (Chilosi, Lami, Pizzoli, Pignatti, D’Alessandro, Gruppioni, Cipriani e Brizzolara, 2003).
Sarà anche necessario escludere la presenza di un deficit dell’attenzione/iperattività o l’eventuale compromissione delle funzioni esecutive (es: abilità di pianificazione, programmazione ed esecuzione, controllo e memoria di lavoro).
Considerata, inoltre, la frequente comorbidità con il disturbo evolutivo della coordinazione motoria (DCD) (presente in misura variabile tra il 35 e il 47%, secondo lo studio di Kadesjo e Gillberg, 2001) sarà opportuno, anche, escludere con anamnesi e valutazione clinica, la presenza di elementi riconducibili a difficoltà di coordinazione motoria.
E infine, potrà essere utile e/o necessario escludere la presenza di un disturbo non verbale dell’apprendimento (NVLD), caratterizzato da difficoltà cognitive specifiche di natura visuo-spaziale (es: nell’incolonnamento dei numeri, nella lettura direzionale da sinistra a destra, nella lettura e riproduzione di segni aritmetici, nei riporti e nelle procedure, nell’operare con figure-regole geometriche, in geografia).
Infine va considerato che bambini ed adolescenti con disturbi del neurosviluppo sono in larga misura esposti: ad insuccessi scolastici, frustrazioni, difficoltà emotive e comportamentali (e.g. Nestler&Goldbeck, 2011), superiori livelli di ansia (e.g. Alesi et al., 2015). In considerazione di ciò il profilo psicologico va allargato agli aspetti emotivi-relazionali ed al fondamentale ruolo che questi aspetti hanno nella prognosi (Kempe, Gustafson e Samuelsson, 2011).
Il compito degli specialisti è di: valutare il soggetto nella sua complessità emotiva e neuropsicologica, escludere patologie neurologiche o sensoriali (visive/uditive), fornire un inquadramento diagnostico preciso (comprensivo di codifica secondo la classificazione ICD-10 e/o DSM-5), individuare un profilo di funzionamento dal quale si possano ricavare indicazioni per la personalizzazione delle strategie didattiche e delle modalità valutative (Termine e Stella, 2013).
L’insegnante potrà trarre dal profilo funzionale tutti gli elementi utili a calibrare la metodologia didattica, come previsto dalla Direttiva MIUR del 27.12.2012.
 
È importante, inoltre, sottolineare che le diverse tipologie di
 
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Funzionamento Intellettivo Limite o Borderlinesono strettamente legate alla loro origine (da Vianello et al., 2014), ovvero:
• Funzionamento Intellettivo Borderline “naturale”, non dovuto a cause biologiche o ambientali;
• Funzionamento Intellettivo Borderline per cause biologiche genetiche, suddiviso in:
o Sindromi genetiche come Prader-Willi, Turner, Klinefelter, Cornelia De Lange, Noonan, XXX, Distrofia muscolare di Duchenne;
o Autismo ad alto funzionamento o sindrome di Asperger;
• Funzionamento Intellettivo Borderline per cause biologiche non genetiche, suddivise in:
o Prenatale e perinatale;
o Postnatale;
• Funzionamento Intellettivo Borderline dovuto a svantaggio socioculturale (comprese le situazioni in cui le differenze si trasformano in carenze, come in certe immigrazioni);
• Funzionamento Intellettivo Borderline dovuto a inibizione intellettiva (es. caso recente di psicopatologia ossessivo-compulsiva);
• Funzionamento Intellettivo Borderline causato da effetti indiretti:
o Disturbi specifici di apprendimento;
o Deficit di attenzione con o senza iperattività;
o Disturbi della comunicazione.
 
Nel Funzionamento Intellettivo Borderline o Limite è frequente la comorbidità con altri disturbi o condizioni cliniche, per esempio di tipo psichiatrico. Nei casi di comorbidità del Funzionamento Intellettivo Borderline e del Deficit dell’Attenzione” (ADHD) la prevalenza di disturbi psichiatrici è circa il 40% (e.g. Rose et al., 2008; Vianello et al., 2014).
Secondo recenti studi, infatti, il Funzionamento Intellettivo Limite (FIL)riguarderebbe circa il 13% della popolazione. I dati europei più attendibili, raccolti su un campione di quasi 8.500 adulti, indicano una prevalenza di 1 persona su 8 (Hassiotis 2008).
La complessità del FIL è legata anche all’elevata vulnerabilità psicopatologica: diversi studi hanno rilevato una prevalenza di disturbi psichiatrici significativamente più alta rispetto alla popolazione generale, soprattutto disturbi d’ansia (Virgilio et al, 2018), di personalità e disturbi correlati all’abuso di sostanze. Sono stati ripetutamente rilevati tassi più alti anche di emarginazione, sfruttamento, abuso, rischio d’abbandono, tentativi di suicidio, ricorso a terapie psicofarmacologiche e a servizi territoriali di assistenza, inclusi quelli d’emergenza.
Uno studio olandese ha rilevato che la presenza di FIL nei pazienti psichiatrici è molto più elevata di quanto non sia normalmente ritenuto dalla maggior parte degli stessi psichiatri. Lo studio ha previsto lo screening per FIL e disabilità intellettiva di grado lieve in 208 pazienti ricoverati presso reparti psichiatrici: il 43,8% del campione è risultato positivo e ha mostrato associazioni non tanto a una specifica diagnosi psichiatrica quanto al maggior numero di ricoveri e interventi obbligatori. Questi fattori prognostici negativi possono dipendere sia dalla presenza di FIL ma anche dalla sua inadeguata o intempestiva identificazione (Nieuwenhuis 2017).
 
Conclusioni
 
Un profilo funzionale preciso, completo e attento, una larga condivisione scientifica ed interdisciplinare dei criteri per una diagnosi specialistica servono a garantire il diritto alla personalizzazione (medicina di precisione) clinica, didattica e valutativa. In ambito educativo ciò aiuta il compito dell’insegnante, chiamato alla piena espressione della sua professionalità.
La diagnosi differenziale tra Funzionamento Intellettivo Limite e Ritardo mentale (un QI di 70 o inferiore) è particolarmente difficile quando è complicata dalla coesistenza di alcuni disturbi mentali (per es., schizofrenia), pertanto la frequente comorbidità con altri disturbi o condizioni cliniche suggerisce maggiori ricerche e studi in questo ambito, soprattutto c’è da comprendere meglio quali e quanti sono i rischi, in età adulta, di sviluppare problemi di salute mentale, un maggiore rischio di disturbi psichiatrici (e.g. Gigi et al., 2014; Einfield et al., 2011; Hassiotis et al., 2008; Nouwens et al., 2016), di uso e abuso di alcool o droghe (e.g. Gigi et al., 2014), di comportamenti suicidari, di esposizione ad ambienti poco stimolanti e svantaggio socio-economico e culturale (e.g. Emerson et al., 2010; Vianello, DiNuovo, & Lanfranchi, 2014). La ricerca futura può aiutare a mettere in evidenza i possibili ostacoli incontrati nelle diverse fasi di sviluppo e guidare i cambiamenti nei servizi, nelle attività, nei percorsi educativi di supporto per rispondere meglio ai bisogni dei bambini e degli adolescenti con Funzionamento Intellettivo Borderline.
 
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Psicologia

Dott. Massimo Agnoletti Psicologo, Dottore di ricerca Esperto di Stress, Psicologia Positiva e Epigenetica Formatore/consulente aziendale, Presidente PLP-Psicologi Liberi Professionisti-Veneto, Direttore del Centro di Benessere Psicologico – Favaro Veneto (VE)
 
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Le recenti scoperte relative la scienza dei telomeri ci danno la possibilità di vedere il complesso concetto di Stress in una nuova prospettiva.
 
Abstract
 
English version
 
Telomere literature allows us to measure influence that various factors have on our behaviors in terms of genetic fitness because they globally quantify whether the behaviors carried out favorably or unfavorably impact longevity and cellular health. Concept of Stress, within the context of telomere science, acquire a more complex but more precise meaning than previous paradigm.
 
Versione Italiana
 
La letteratura inerente i telomeri permette di misurare l’influenza che vari fattori relativi i nostri comportamenti hanno a livello di fitness genetica perché quantificano globalmente se questi impattano in modo favorevole o sfavorevole la longevità e la salute cellulare. Il concetto di Stress, all’interno del contesto della scienza dei telomeri, acquista un significato più complesso ma più preciso rispetto il paradigma precedente.
 
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Il concetto scientifico di Stress, lontano dal significato attribuito generalmente quando parliamo informalmente, ha quasi un secolo di vita e una sua complessità che nell’essere umano include gli aspetti psicologici, socioculturali, neurali, endocrini, cellulari e genetici.
Da quando lo scienziato Cannon lo definì nei termini di una reazione dell’organismo al perturbamento del suo precedente stato di equilibrio, vari autori tra i quali Selye, Lazarus, Sapolsky, Chrousos, hanno arricchito di dettagli il concetto di Stress (che deriva dalla parola “stringere”, “premere”) sottolineandone alcuni aspetti più di altri (l’aspetto aspecifico di alcune caratteristiche neuroendocrine attivate come risposta rispetto l’agente stressante, il dettaglio di elaborazione a livello di sistema nervoso centrale prima di attivare la modalità acuta, la natura delle molecole implicate nelle varie modalità e molte altre).
Individuare la natura e la logica dello Stress è complicato per la complessità del concetto e la molteplicità’ dei fattori coinvolti (lo Stress può essere conscio o inconscio, valutato cognitivamente come positivo o negativo, implicare alcune aree cerebrali o meno, vantaggioso o svantaggioso per la nostra salute psicofisica, presentarsi come specifico, breve e intenso o del tutto aspecifico, cronico ed a bassa intensità, ecc.).
Come risultato globale di tutte le attuali ricerche si potrebbe dire che lo Stress è una modalità per fornire energia finalizzata a soddisfare i nostri sistemi teleonomici psico-neuro-endocrino-immunologici altamente integrati e vicendevolmente interagenti che compongono il nostro organismo (Bottaccioli F. & A.G., 2017).
Per sistema teleologico intendo un sistema d’informazioni che si modificano nel tempo, seguendo le regolarità caratteristiche dei sistemi evolutivi (Miller, 1970; Monod, 1970; Morin, 1985; Prigogine, 1976) capaci di aumentare la complessità evolvendo nel tempo (Barbieri, 2003; Miller, 1970; Monod 1970; Morin, 1985; Prigogine, 1976).
Ho introdotto nella definizione di Stress il concetto chiave di teleonomia perché per comprendere lo Stress non ci si deve limitare a considerare i fattori esterni quali promotori che innescano la reazione dell’organismo (generalmente considerati elementi perturbanti la cosiddetta “omeostasi”, si pensi ad un virus per esempio) ma anche fattori endogeni che fanno parte del progetto teleonomico dell’organismo stesso e che generalmente aumentano la complessità del sistema globale stesso (la differenziazione cellulare o lo sviluppo ontogenetico sono solo alcuni lampanti esempi).
Durante l’aumento di complessità strutturale e/o informazionale (crescita del sistema globale) l’organismo ha bisogno di fornire energia quindi attiva il meccanismo di Stress ma non si tratta di una “perturbazione” che proviene da fattori esterni l’organismo ne la finalità in questione è quella di ritornare allo stato precedente l’attivazione “stressante”.
Dalla definizione appena esposta, è chiaro che la parola Stress è associata ad un concetto complesso che di per sé non ha una valenza positiva o negativa perché va contestualizzato all’interno di un sistema informazionale spazio temporale di riferimento. Anche dal punto di vista esperienziale quest’affermazione ha una sua evidenza nel momento in cui ci ricordiamo che qualcosa percepito come dis-stressante (cioè uno stress negativo) in un determinato momento di vita, può essere vissuto come uno stress positivo in un tratto di vita successivo o viceversa o come sia “stressante” talvolta essere impegnati in una sfida personale che comunque desideriamo vincere.
La dimensione soggettiva, cioè legata alla personale elaborazione del piano psicologico cognitivo, emotivo e motivazionale, dello Stress è sempre stato motivo di grande disorientamento nell’identificazione del dettaglio delle caratteristiche universali specie specifiche dello Stress stesso. In effetti, è assolutamente sconcertante pensare che lo stesso agente stressante possa essere percepito come un fattore positivo o negativo dalla stessa persona (in due momenti differenti) o da due persone diverse.
Esistono quindi caratteristiche distintive peculiari dello Stress nella specie umana (a livello di attivazione psico-neuro-endocrina-immunologica e cellulare) solo se accadono combinazioni uniche nell’interazione dei suddetti sistemi teleonomici.
Nell’uomo la massiccia diversità della componente cognitiva, emotivo e motivazionale aumenta la grande complessità già presente in tutti i Vertebrati nel meccanismo comune di Stress.
Con il recente sviluppo della scienza dei telomeri, la biologia
 
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molecolare ha fornito potenzialmente uno strumento almeno in parte oggettivabile per quantificare quest’aspetto soggettivo dello Stress.
Vediamo ora il perché di quest’affermazione.
 
Dalla fine degli anni 80 del Novecento le innovative ricerche sui telomeri della dott.ssa Blackburn e del suo team di ricercatori (Blackburn, 1991; Blackburn, 2010) hanno evidenziato come queste strutture biologiche che si trovano sulla parte terminale di tutti i cromosomi (per evitarne la disgregazione strutturale del DNA stesso e la fusione intercromosomica) sono fondamentali per determinare la longevità e la senescenza cellulare.
La loro misurazione è presto diventata in biologia molecolare il riferimento più affidabile ed attendibile per determinare la longevità cellulare tanto che i telomeri sono ormai considerati al pari di “orologi” biologici che indicano lo stato di salute delle cellule e la longevità potenziale residua.
Più è efficace il lavoro di manutenzione fatto sugli stessi telomeri per opera della telomerasi (un enzima dedicato a questo scopo) più lunga è la vita residua della cellula e migliore sarà la sua fitness globale. Più corta è la lunghezza assoluta dei telomeri più la cellula tende ad avere problemi d’invecchiamento fino al punto limite in cui i telomeri,non riuscendo più a soddisfare il loro ruolo strutturale, avviano il processo di disgregazione cromosomica decretando il declino irreversibile di tutta la struttura e la funzione cellulare.
Dopo una certa soglia l’accorciamento telomerico predispone quindi nel medio/lungo termine a molte malattie cardiocircolatorie, immunitarie ed oncologiche (Prinz, 2011).
La dott.ssa Elizabeth Blackburn (insignita del premio Nobel per la medicina per i suoi pionieristici studi sui telomeri) insieme alla psicologa Elissa Epelhanno dimostrato non solo che persone soggette a stress cronico presentano telomeri in assoluto più corti rispetto chi non vive questa condizione (l’ordine di grandezza è dai 9 ai 13 anni di invecchiamento cellulare!) ma anche che gestire poco efficacemente lo Stress accelera il processo d’invecchiamento cellulare genetico, attraverso il sempre più ridotto potere di mantenimento della telomerasi (l’enzima che “ripara” la struttura dei telomeri).
Le due colleghe hanno dimostrato inoltre che le donne che erano riuscite a gestire più efficacemente lo Stress mostravano statisticamente telomeri più lunghi e una telomerasi più attiva rispetto coloro che gestivano lo Stress meno efficacemente.
Questi ed altri studi (si veda ad esempio l’effetto del pessimismo o la pratica della meditazione) pionieristici (Agnoletti, 2018a; Agnoletti, 2018c) hanno segnato la nascita di un nuovo settore della Psicologia scientifica, la Psicologia Epigenetica (Agnoletti, 2018d) e dimostrato come esista una connessione tra gli estremi di un continuum definito da due codici e due linguaggi contemporaneamente così importanti per l’essere umano quanto distanti dal punto di vista delle dinamiche causali: i nostri processi psicologici/esperienziali ed il nostro codice genetico (Agnoletti, 2018b).
Oltre a questi cambiamenti paradigmatici questi studi hanno anche indirettamente dimostrato che gli effetti soggettivi derivanti dalla personale configurazione psicologica (cognitivo, emotivo e motivazionale) sono comunque tradotti all’interno del codice organico dei telomeri in una modalità binaria espressa dal migliore o peggiore funzionamento degli enzimi della telomerasi rispettivamente in favore o sfavore la lunghezza assoluta dei telomeri che determinano la nostra longevità potenziale residua e la nostra futura qualità di vita globale.
Se da una parte sembra che l’impatto a livello di telomeri di fattori quali la qualità ambientale, la qualità del sonno, della nutrizione e dell’attività motoria inducano gli effetti simili e comparabili perché attivano universalmente (all’interno della stessa specie) i medesimi pattern causali, il ruolo della gestione dello Stress che coinvolge il sistema teleonomico psichico è più complesso, più eterogeneo ed autonomo al punto che il medesimo oggettivo agente stressante può avere ricadute sulle dinamiche telomeriche pressoché’ opposte.
Tradotto più semplicemente, se da una parte sappiamo che, ad esempio, una specifica dieta migliora le performance delle telomerasi rallentando significativamente il processo di invecchiamento cellulare, sappiamo altrettanto bene che il nostro aspetto psicologico impatta grandemente sulla gestione del nostro stress percepito influenzando l’attività di “manutenzione” dei telomeri determinando importanti differenze sulla nostra longevità e qualità di vita.
Il concetto di Stress, almeno nella sua variante che prevede una sua consapevolezza psicologica, quindi è contemporaneamente soggettivo (nel senso che dipendentemente dalla configurazione mentale può avere un’elaborazione che va da una valenza positiva a una negativa) e oggettivabile (nel senso che dipendentemente dal risultato della sua elaborazione psicologica viene espresso in modalità misurabile nei processi telomerici).
Si tratta di un cambiamento di paradigma della concezione dello Stress perché per la prima volta abbiamo la possibilità di misurare attraverso gli strumenti della biologia molecolare le ricadute soggettive, esperienziali e personalilegate alla sua gestione.
In questo contesto gli aspetti soggettivi/oggettivi, analogici e digitali (dei codici biologici), i livelli psicologici e i piani memoria genetici (ed epigenetici) si intrecciano in una comunicazione continua e bidirezionale.
In un futuro forse non troppo lontano sarà possibile misurare in dettaglio i vari fattori che maggiormente influenzano l’invecchiamento cellulare umano identificando se la persona riesce a gestire più o meno efficacemente lo Stress offrendole strumenti e percorsi psicologici più adatti alla sua caratteristica individualità.
 
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Diritto Sanitario

Avv. Angelo Russo, Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania
 
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Con una articolatissima pronunzia, la Corte di Cassazione (sez. III Civile, sentenza 19 aprile 2018 – 18 aprile 2019, n. 10812) torna a occuparsi del delicato rapporto tra condotta del medico e danno dipendente da fattori naturali.
 
IL FATTO
I sigg. V.G. e M.G. – in proprio e nella qualità di esercenti la potestà sulla figlia minore V.M. , agivano in giudizio per il risarcimento dei danni sofferti in conseguenza dei danni neonatali subiti da V.M., in occasione della nascita avvenuta l’(…), presso la divisione di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale (omissis).
Sia il Tribunale che la Corte di Appello dichiaravano la responsabilità della C., medico quel giorno in servizio presso la suindicata divisione di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale (omissis) , “per non avere sottoposto la M. a tutti gli esami strumentali necessari ed imposti dai dati obbiettivi per accertare la grave sofferenza di un feto e le condizioni di un altro, in parto gemellare, al fine di assicurare un rapido trasferimento della puerpera per il parto presso altra struttura attrezzata con Unità di Terapia Intensiva Prenatale (UTIN)”.
Sulla base della CTU disposta ed espletata in sede di giudizio di appello, la Corte di secondo grado ha ritenuto non addebitabile “la sintomatologia dolorosa lamentata dalla M. al momento del ricovero… ad una minaccia di parto pre-termine, ma, piuttosto al distacco intempestivo di placenta, non diagnosticato e trattato con tocolitici, mentre sarebbe stato urgente il taglio cesareo, per scongiurare danni al feto”; ha per converso “accertato il nesso di causalità materiale tra la condotta omissiva colposa dei sanitari del (…) – consistita nel non praticare il parto cesareo all’insorgere della sofferenza fetale connessa alla crisi di bradicardia, che i predetti non hanno neppure diagnosticato – ed il danno, essendosi la suddetta condotta posta come antecedente idoneo a generarlo, in base al criterio di probabilità relativa del più probabile che non”.
Il Giudice di appello ha, per altro verso, riformato la sentenza del Tribunale nella parte in cui ha ritenuto nel caso non rilevante anche il “distress respiratorio da deficit di surfattante – e, quindi la esistenza di un fattore naturale non imputabile idoneo a generare l’evento dannoso”, pervenendo ad assegnare a quest’ultimo un’incidenza “in misura preponderante sul danno”, nella misura di due terzi.
Ha, pertanto, rideterminato l’ammontare a titolo di risarcimento dei danni liquidato in favore della minore M., calcolandolo sulla base delle Tabelle di Milano, aggiornate al 2014, con aumento del 15% dell’individuato punto tabellare d’invalidità a titolo di personalizzazione e successiva riduzione di due terzi.
 
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Suprema Corte assume che è stato accertato che la M., “non riuscendo ad avere figli, dopo un primo nato nel 1980 a seguito di gravidanza naturale a termine e dopo una successiva interruzione volontaria della seconda gravidanza, si è rivolta al Dott. Ci. Ca., che l’ha sottoposta ad inseminazione artificiale omologa intraperitoneale, dalla quale è derivata la gravidanza gemellare per cui è causa.
La M. era, ed è, affetta da talassemia minor, che ne determina l’anemia.
In occasione dell’ultimo controllo presso il suo studio professionale la sera del 7 settembre 1993, il Dott. Ci. … dopo l’esame dei feti, uno corrispondente alla trentesima settimana e l’altro alla trentunesima, mentre la gravidanza era giunta alla trentaduesima settimana e stante la riscontrata differenza di peso tra gli stessi, uno dei quali di kg 1,50 e l’altro di kg. 1,00… le
 
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consigliò di sottoporsi ad un esame specialistico di flussimetria doppler”.
Risulta, altresì, accertato che “il giorno successivo la M. , intorno alle 12,00, ha cominciato ad accusare forti dolori addominali, con contrazioni uterine ad intervalli regolari, delle quali ha riferito telefonicamente, alle 12,30, al predetto Dott. Ci.
Questi le ha consigliato di recarsi presso il più vicino ospedale.
Di qui la scelta di andare all’ospedale (omissis), dove è giunta alle ore 14,00 circa e dove è stata visitata dal Dott. F. , che ha riscontrato che il cerchiaggio era ben posizionato, prescrivendo un tracciato cardiotocografico, e terapia farmacologica cortisonica e tocolitica.
Il Dott. F. ha cessato il turno alle 14.30 circa.
La terapia è stata proseguita dalla Dott. C. , giunta in servizio nel turno successivo a quello del Dott. F.
La predetta ha, inoltre, sottoposto la M. a tracciato cardiotocografico (con apparecchio non di ultima generazione e, quindi, non in grado di verificare contemporaneamente due feti), dalle ore 15,23 alle ore 15,58 e, inoltre, prescritto alla paziente assoluto riposo a letto.
Intorno alle ore 19,00, in presenza di forti e dolorose contrazioni uterine, il primario, Dott. R., nel frattempo sopraggiunto, ha eseguito un esame ecografico, in sala operatoria, praticandole, dopo circa novanta minuti, il taglio cesareo, da cui è nata, alla ore 20,30 circa, la piccola M., nonché un secondo feto morto.
Risulta, altresì, che subito dopo la nascita M. ha subito una crisi di ipossia prolungata, superata a seguito di intervento di rianimazione, con massaggio cardiaco, ossigenoterapia e cortisone.
La neonata è stata trasferita in autoambulanza… all’ospedale Aiuto Materno di (…), Divisione di neonatologia e terapia intensiva.
Ivi è giunta poco dopo le ore 2.00 del giorno (…).
Durante il viaggio ha subito altre due crisi di ipossia, di cui una con arresto cardiaco, risolto con massaggio cardiaco e stimolazione.
Dal contenuto della cartella clinica redatta dai medici della divisione di neonatologia e terapia intensiva dell’ospedale Aiuto Materno di (…) si evince che la causa della grave encefalopatia della minore è stata individuata nelle crisi ipossiche subite dopo la nascita, a loro volta causate da deficit da surfactante, o malattia da distress (o delle membrane ialine)”
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Ciò premesso la Suprema Corte chiarisce che la struttura sanitaria risponde a titolo contrattuale dei danni patiti dal paziente:
a) per fatto proprio, ex art. 1218 c.c., ove tali danni siano dipesi dall’inadeguatezza della struttura;
b) per fatto altrui, ex art. 1228 c.c., ove siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui essa si avvale.
La responsabilità contrattuale della casa di cura non rimane esclusa in ragione dell’insussistenza di un rapporto contrattuale che leghi il medico alla struttura sanitaria, in tale ipotesi operando il principio dell’appropriazione o dell’avvalimento dell’opera del terzo di cui all’art. 1228 c.c.
La Corte ribadisce che, in base alla regola di cui all’art. 1228 c.c. (come quella di cui all’art. 2049 c.c.), il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde, dunque, anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, ancorché non siano alle sue dipendenze.
La responsabilità per fatto dell’ausiliario (e del preposto) prescinde, infatti, dalla sussistenza di un contratto di lavoro subordinato, irrilevante essendo la natura del rapporto tra i medesimi intercorrente ai fini considerati, fondamentale rilievo viceversa assumendo la circostanza che dell’opera del terzo il debitore comunque si sia avvalso nell’attuazione della propria obbligazione, ponendo la medesima a disposizione del creditore, sicché la stessa risulti a tale stregua inserita nel procedimento esecutivo del rapporto obbligatorio.
La responsabilità che dall’esplicazione dell’attività di tale terzo direttamente consegue in capo al soggetto che se ne avvale riposa, infatti, sul principio “cuius commoda eius et incommoda” o, più precisamente, come detto, dell’appropriazione dell’attività altrui per l’adempimento della propria obbligazione, comportante l’assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino.
Né, prosegue la Corte, “al fine di considerare interrotto il rapporto in base al quale il debitore è chiamato a rispondere, vale distinguere tra comportamento colposo e comportamento doloso
 
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del soggetto agente (che della responsabilità del primo costituisce il presupposto), essendo al riguardo sufficiente (in base a principio che trova applicazione sia nella responsabilità contrattuale che in quella extracontrattuale) la mera occasionalità necessaria”, sicchè “la struttura sanitaria risponde direttamente di tutte le ingerenze dannose che al dipendente o al terzo preposto (medico), della cui opera comunque si è avvalso, sono state rese possibili dalla posizione conferitagli rispetto al creditore/danneggiato, e cioè dei danni che ha potuto arrecare in ragione di quel particolare contatto cui è risultato esposto nei suoi confronti il creditore (nel caso, la gestante/partoriente e il feto/neonato)”
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La struttura sanitaria è, quindi, direttamente responsabile allorquando l’evento dannoso risulti da ascriversi alla condotta colposa posta in essere dal medico, della cui attività essa si è comunque avvalsa per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale.
È, dunque, importante “delineare i criteri valevoli a delimitare la giuridica rilevanza delle conseguenze dannose eziologicamente derivanti dal danno evento costituenti integrazione del rischio specifico posto in essere dalla condotta (dolosa o) colposa del debitore/danneggiante, che a tale stregua solo a carico del medesimo, e non anche sul creditore/danneggiato, debbono conseguentemente gravare”.
In presenza di danni conseguenza (aggravamento/morte) costituenti effetto o delle eccezionali condizioni personali del danneggiato (es., emofilia, cardiopatia, rara allergia) o del fatto successivo del terzo, e in particolare del medico (cura errata, errato intervento medico), non può, secondo la Suprema Corte, pervenirsi a ridurre o escludere anche il relativo risarcimento in favore della vittima.
Il danneggiato rimane, infatti, agli stessi specificamente esposto in conseguenza dell’antecedente causale determinato dalla condotta colposa (o dolosa) del debitore/danneggiante, quest’ultimo dovendo pertanto risponderne (anche) sul piano risarcitorio.
Diverso è, viceversa, il caso in cui si sia in presenza di un pregresso fattore naturale non legato all’altrui condotta colposa da un nesso di interdipendenza causale.
Allorquando, come nella specie, “un pregresso fattore naturale non imputabile venga individuato quale antecedente che, pur privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario, sia dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, ad esso non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione della struttura dell’illecito, e in particolare dell’elemento del nesso di causalità tra tale condotta e l’evento dannoso, appartenendo ad una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui quest’ultima si inserisce”.
In altri termini “confermata la validità del principio causale puro (c.d. all or nothing), non essendo ammissibile la comparazione tra causa umana imputabile e causa naturale non imputabile ma solo tra comportamenti umani colposi, deve ribadirsi che la valutazione equitativa attiene propriamente non già all’accertamento del fatto costitutivo del danno risarcibile, e in particolare ad uno degli elementi della struttura dell’illecito e dell’inadempimento qual è – unitamente alla condotta e all’evento – il nesso di causalità, bensì alla – logicamente successiva
 
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(all’accertamento dell’an dell’illecito o dell’inadempimento) – fase della determinazione del quantum (art. 1226 c.c.) del danno – conseguenza risarcibile”.

Unicamente all’esito dell’accertamento della sussistenza del nesso di causalità – sulla base del criterio del “più probabile che non” – tra condotta (dolosa o) colposa e danno evento lesivo, “la considerazione del pregresso stato patologico del creditore/danneggiato può invero valere a condurre ad una limitazione dell’ammontare dovuto dal debitore/danneggiante, in occasione del diverso e successivo momento della delimitazione dell’ambito del danno risarcibile e della determinazione del quantum di risarcimento”.
Sul punto, prosegue la Corte, si è affermato che sono a carico del debitore/danneggiante, costituendo integrazione del rischio specifico posto in essere dalla sua antecedente condotta (dolosa o) colposa, le conseguenze costituenti effetto:
a) delle eccezionali condizioni personali del danneggiato;
b) del fatto successivo del terzo.
Ove sia possibile pervenire ad attribuire a tale antecedente una concorrente – seppure autonoma – incidenza causale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica del paziente/danneggiato, trattandosi di ipotesi di concorso di più cause efficienti nella determinazione del danno, va invero “escluso che possa farsene derivare l’automatica riduzione dell’ammontare risarcitorio dovuto alla vittima/danneggiato in proporzione del corrispondente grado percentuale di incidenza causale”.
Essendo stata, nel caso di specie, “accertata la sussistenza di una (eccezionale) ipotesi di pregresso fattore naturale non ascrivibile a condotta umana imputabile, priva di incidenza causale sulla (successiva e autonoma) condotta colposa dei sanitari che hanno assistito al parto, al detto fattore naturale non imputabile (privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario, ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata) non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l’evento dannoso, bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno”.
Il principio sancito dalla Corte di Cassazione è, in conclusione, il seguente.
“Al fattore naturale non imputabile privo di interdipendenza funzionale con l’accertata condotta colposa del sanitario, ma dotato di efficacia concausale nella determinazione dell’unica e complessiva situazione patologica riscontrata, non può attribuirsi rilievo sul piano della ricostruzione del nesso di causalità tra detta condotta e l’evento dannoso (appartenendo a una serie causale del tutto autonoma rispetto a quella in cui si inserisce la condotta del sanitario) bensì unicamente sul piano della determinazione equitativa del danno, potendosi così pervenire – sulla base di una valutazione da effettuarsi, in difetto di qualsiasi automatismo riduttivo, con ragionevole e prudente apprezzamento di tutte le circostanze del caso concrete – solamente a una delimitazione del quantum del risarcimento”.