Psichiatria

Dott. Giuseppe Seminara
Medico Psichiatra, Psicoterapeuta; Responsabile Sanitario C.T.A. Helios di Gravina di Catania; Docente a contratto nel C.d.L. in Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica, Unict; Membro già SIPSS e SIRP

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Sessualità e patologia mentale rappresentano, nel loro intersecarsi, un’area in cui scienza e pregiudizio, valori etici e sociali, aspettative individuali e collettive, entrano in una situazione di conflitto apparentemente inconciliabile e, comunque, di difficile risoluzione (Rosso, 1996). Tutto ciò sollecita, fra l’altro, un sottobosco di luoghi comuni e di pregiudizi, rendendo difficile il coinvolgimento aperto ed efficace anche di quelle figure professionali che, in virtù delle loro specifiche competenze, dovrebbero mostrare meno resistenze.
Trattare di quanto si riferisca all’amore, ai sentimenti, alla sessualità, rende sempre necessaria una complessa sintesi fra elementi che attingono alla sfera della spiritualità e della metafisica, a quella della concretezza materica e delle istanze più propriamente biologiche, fino a quelli che più di altri rendono complicato il tema, vale a dire quelle istanze che rappresentano una sorta di territorio mediano fra i primi e che invisibilmente e fortemente legano le altre e due aree: le emozioni, la passione, la forza vivificante che agisce all’interno delle relazioni sentimentali e delle relazioni sessuali. Potrebbe risultare estremamente interessante, all’interno di una condizione di equilibrio delicato e complesso qual è quella della disabilità psichica, aprire uno spazio di riflessione su questa tematica.
La psicopatologia sembra, talvolta, sovvertire le più rassicuranti immagini che culturalmente hanno nutrito la nostra rappresentazione, iconografica e mentale, della sessualità, una rappresentazione quasi incontaminata ed eterea. La quasi diafana bellezza dell’arte in genere e dell’arte classica in particolare. Diventa, però, necessario accettare il fatto che altri elementi possono concorrere a dare una quadro diverso del tema, aspetti più primordiali e forti dei sentimenti amorosi e della passione; sono questi che possono venir fuori, allorché i filtri sociali, i parametri morali, vengono indeboliti da una particolare condizione patologica. E il loro venir fuori non sempre rappresenta un’aberrazione verso la natura, ma solo un’aberrazione verso quei modelli che la cultura, l’antropologia, i percorsi educativi hanno nel tempo costruito. Ecco perché il confronto con le problematiche della sessualità in ambito psicopatologico può indurre resistenze, può mettere in crisi la nostra personale misura della moralità e dell’immoralità.
È più facile, allora, ritirarsi nei più tranquilli terreni del dissenso e del “comune senso del pudore”… senza considerare il non comune senso dello “abnorme psichico”, materia stessa della Psicopatologia (Jaspers, 1964).
Superare questi limiti, per essere all’ascolto del nostro utente e per essergli di aiuto, è il difficile compito che ci attende.
La sessualità in psichiatria si propone, perciò, come ambito di studio di grande interesse e ad alta complessità. Ancora più interessante questa tematica nell’ambito della residenzialità psichiatrica, specie dal momento che l’inserimento di nuovi utenti, giovani con rinnovate prospettive di reinserimento sociale, con bisogni nuovi e diversificati, impone un cambiamento dell’approccio degli operatori e una crescente flessibilità nelle strategie di trattamento. Soprattutto questo rinnovamento dell’utenza ha determinato, già da qualche tempo, la focalizzazione del nostro interesse verso le tematiche della “sessualità”, anche nel suo aspetto dinamico-relazionale, terreno delicato e poco esplorato.
Il contesto comunitario residenziale influenza i “confini” tra normalità e psicopatologia della sessualità e l’operatore può inconsapevolmente essere uno degli elementi strategici di questa influenza o della sua attenuazione. Perciò sono necessarie strategie per mezzo delle quali il sapere induca il saper fare, ma in particolare alla luce del saper essere. All’apprendimento di tipo cognitivo, utile a saper fare, deve unirsi un apprendimento di tipo anche emotivo, che coinvolga la sfera affettiva e che ci permetta di saper essere, mettendo in discussione i nostri personali punti di vista, adeguandoli alla natura del compito ed ai valori che esso propone.
L’operatore di una CTA non può non prendere atto di come la sfera della sessualità possa offrire in ambito psicopatologico degli aspetti fenomenologici e clinici di assoluta peculiarità. Pertanto, non possono essere i pregiudizi e i luoghi comuni, né possono bastare i punti di vista personali, mai offerti al confronto con gli altri, a indicarci le più adeguate modalità di intervento.
Ecco allora che sullo sfondo di tali “confusioni”, dubbi o certezze operative, si è pensato di partire proprio dagli operatori per una ricerca che permettesse di focalizzare i nodi chiave di questa tematica, prevedendo un futuro approfondimento di quanto emergerà ed eventualmente allargando successivamente il campo d’indagine.

Alcuni dati della ricerca
Per questo progetto, si è appositamente allestito un questionario, autosomministrato e anonimo, abbastanza snello e semplice nella sua struttura, lasciando all’operatore la più ampia libertà di partecipare o meno alla ricerca.
Il questionario, composto da 23 item, dopo una prima parte relativa al campione, indagava le nozioni generali possedute in merito alla correlazione fra malattia mentale e sviluppo o influenza della sessualità.
Scopo principale della ricerca è stato quello di individuare un profilo del bisogno formativo e, su questa premessa, costruire progetti futuri. A tal fine gli item conclusivi sono stati lasciati a risposte “aperte”, giusto per consentire una partecipazione attiva e motivata degli operatori, nonché un’apertura verso i bisogni da loro eventualmente espressi.
Inizialmente rivolta ad un campione “potenziale” di 455 operatori (224 maschi e 231 donne) appartenenti a 16 Comunità Terapeutiche siciliane, la partecipazione alla ricerca è stata lasciata alla libera scelta degli operatori; ragion per cui il campione “reale” ha fatto registrare una sensibile contrazione quantitativa. Hanno partecipato all’indagine 295 operatori, sebbene le modalità esecutive garantissero pienamente l’anonimato dei partecipanti.
Gli Ausiliari, consistente categoria professionale, hanno partecipato in percentuale significativamente ridotta rispetto alle altre due categorie; probabilmente questo testimonia un sentimento di esclusione rispetto alle esigenze di formazione e di aggiornamento professionale in un ambito, quello più tecnico e scientifico, che apparentemente (e inadeguatamente) sembra poter esonerare gli ausiliari dal coinvolgimento. In realtà, la formazione del personale in Comunità deve essere un processo che coinvolge tutte le figure professionali, giusto per la natura stessa della struttura “comunitaria” e dal momento che il clima relazionale fra categorie di operatori e fra operatori e utenti impegna tutti ed espone tutti alle stesse difficoltà e alle stesse responsabilità.
Circa l’importanza che la sfera sessuale ha verso il sano sviluppo della persona, il 42,71% degli intervistati hanno attribuito un’importanza pari a quella di altre sfere della vita dell’individuo; il 37,79% la ritengono “molto importante, ma non la più importante”; il 12,20% le assegna invece un’importanza assoluta. Il “poco importante” (3,73%) e “non fondamentale” (2,37%), dati che potevano sembrare solo “di rappresentanza” hanno trovato un seppur minimo, e forse sorprendente, consenso.
Probabilmente questo dato risente di una tradizionale visione parcellare della sfera sessuale. La sessualità investe l’esistenza umana in maniera molto più ampia di quanto non sia riferibile al sesso e all’attività sessuale; influenza le relazioni umane, sia fra persone di sesso diverso che fra persone dello stesso sesso, influenza la dimensione espressiva e relazionale dell’individuo e delle sue competenze sociali (Seminara, 1994). Si evince da ciò l’importanza della formazione e dell’educazione ricevuta sul tema. L’operatore, infatti, si pone di fronte alle problematiche sessuali a partire e non a prescindere da questi elementi formativi ed educativi, nonché dalla propria scala di valori. Occorre, allora, un atteggiamento maturo e consapevole che, senza disperdere i nostri valori personali, ci eviti l’assunzione di impropri atteggiamenti di giudizio “morale”, rispetto a problematiche che meritano sicuramente una valutazione più ampia e specifica, sia per la loro natura intrinseca che per quella riconducibile alla psicopatologia.
Il giudizio sulla correlazione fra malattia mentale e disturbo dello sviluppo sessuale ha forse risentito del fatto che l’operatore di Comunità si confronta quasi esclusivamente con patologie psichiatriche croniche, spesso di una certa gravità; la ricostruzione di una storia del paziente e del suo sviluppo personale diventa quindi terreno su cui conoscenza e supposizioni si possono sovrapporre. Questo determina probabilmente un’eccessiva “estensione” di giudizio, dettata dal dato empirico, che fa ritenere che nel 36,61% la malattia mentale determina “quasi sempre” un disturbo dello sviluppo sessuale; “a volte” per il 46,78% e “sempre” per l’8,47%. Bassissimi i valori del “mai” (3,39%) e del “rare volte” (3,05%).
Anche gli effetti iatrogeni sulla sfera sessuale come, ad esempio, la riduzione del desiderio sessuale da terapia neurolettica (Arvanitis, 1997; Dickson, 1999; Gitlin, 1994; Rowlands, 1995; Rosso, 2000; Sanzovo, 2006) vengono spesso inglobati nel corredo della malattia e non più disgiunti eziologicamente da essa. Eppure, risulta evidente come questo dovrebbe ragionevolmente aprire un altro capitolo di discussione.
Alla domanda se il paziente psichiatrico, secondo l’esperienza professionale dell’operatore, sente la necessità di una vita sessuale regolare, il 18,31% non esita a dare una risposta pienamente affermativa; a questa percentuale si vanno ad aggiungere opinioni “a sfumare”, come il “sì per gran parte dei pazienti” (31,19%), “sì per alcuni pazienti” (41,02%), “sì per pochi pazienti” (4,41%), che rendono estremamente marginale il 2,71% dei “no”. Dati, questi, quasi in contraddizione con quelli relativi alla domanda precedente, che riconoscevano nella malattia mentale uno sviluppo “sempre o quasi sempre” disturbato della sessualità.
Queste apparenti contraddizioni recano in sé i riverberi del contesto lavorativo, un contesto fatto di relazioni protratte nel tempo e di uno scambio umano e di un dialogo che in una comunità non si limita ai setting rigidamente strutturati. Vissuti soggettivi e oggettività, sentimenti e valori personali entrano in gioco, in un dibattito continuo e impegnativo. Il giudizio tecnico e quello “umano”, piuttosto che raggiungere la loro giusta e necessaria sintesi, tendono a smarrire i propri confini e, in casi estremi, possono far smarrire l’individuazione dello spazio all’interno del quale la relazione può e deve diventare “relazione terapeutica”.
A tratti sembra che l’operatore di un contesto psichiatrico per utenti cronici sia “condannato” a muoversi su un terreno instabile, che rende instabile, se non supportato da una solida base formativa, la possibilità di un giudizio sereno e oggettivo.
Questa della sessualità è senza dubbio una delle aree più interessanti da questo punto di vista.
Torna in questo clima di incertezza una serie di risposte che fanno ritenere al 30,85% degli operatori che “spesso” il paziente psichiatrico, comunque, metta in atto delle condotte sessuali disturbate e/o disturbanti; il 46,44% ritiene che questo accada a volte; mentre il 6,10% depone per un categorico “sempre”. Bassi i valori del “raramente” (5,42%) e del “mai” (1,69%).
Ci è sembrato necessario, a questo punto, articolare meglio l’item relativo alla sessualità nei diversi quadri nosografici psichiatrici. Il 51,19% del campione ha sostenuto che a patologie psichiatriche diverse (psicosi, disturbi dell’umore, psicosi epilettiche, disturbi di personalità, ritardo mentale) corrisponde un differente atteggiamento sessuale; per 29,83% questo avviene solo per alcune patologie.
È abbastanza costante la percentuale di soggetti che elude tutte le risposte, all’incirca il 10%, schierandosi per il “non so” o non rispondendo affatto.
Interessante ci sembra il dato riferibile alle diverse manifestazioni della sessualità che l’operatore ritiene di poter individuare nelle differenti patologie. A tal proposito, si è chiesto di indicare per ciascuna patologia presentata una risposta relativa all’eccesso, all’inibizione o alla normalità della sessualità.
Sicuramente meritevole di approfondimento è il dato relativo alle “non risposte”, sia per quanti non hanno risposto totalmente alla domanda (58 operatori, pari al 19,66%), sia per quanti non hanno risposto per i singoli quadri patologici, specialmente per quelle patologie che, verosimilmente, risultano per loro “inconsuete”, ma che oggi sono sempre più rappresentate all’interno dei contesti terapeutico – riabilitativi residenziali (ad es., i disturbi di personalità, le psicosi epilettiche, ecc.). Questo testimonia un’incertezza di base e, soprattutto, è indice di un’area ad alto livello di bisogno formativo specifico.

Alla luce di tanta complessità la sessualità, non tanto come fenomeno della normale esistenza degli individui, ma vista come area problematica, incide “altamente” per il 38,64% degli operatori (l’incidenza è “altissima” secondo il 7,46%) all’interno della Comunità, influenzandone le dinamiche; incidenza “media” viene riconosciuta dal 36,27%; mentre è “bassa” per il 7,12% e “bassissima” per l’1,69%. È interessante notare come ad una sollecitazione a fornire “esempi” di ripercussioni positive e/o negative ben 219 operatori (74,24%) non danno alcuna risposta, contro un 25,76% (76 operatori) che danno le indicazioni di seguito riportate.

È significativo il poter cogliere come il giudizio “positivo” o “negativo” sembra riconducibile a due diversi punti di vista, quello del paziente (elementi positivi) e quello della struttura ospitante (elementi negativi). Certo, conciliare le diverse istanze richiede molte energie, capacità di mettersi in discussione, muoversi su un terreno ad altissima instabilità e non privo di rischi (immagine, responsabilità, etica, ecc.), impegno verso la formazione personale e professionale.
Del resto l’item successivo rende testimonianza di come l’esperienza professionale (24,71%) e personale (18,04%) siano indicate come le principali risorse (e non sempre sufficienti o adeguate) su cui l’operatore ha potuto finora contare, anche se la formazione (17,40%) e l’informazione (11,38%) si collocano subito a seguire, dando speranza verso un diverso atteggiamento futuro. Per il 6,5%, infatti, l’operatore attualmente “non è adeguatamente preparato” a  fronteggiare queste aree problematiche complesse.
Sugli strumenti che possono produrre questo auspicabile miglioramento, il primo posto viene assegnato all’educazione sessuale dei pazienti (23,61%), un tentativo sicuramente lodevole di portare al centro di tutto l’utente, ma con il rischio sommerso di “spostare” sull’utente la responsabilità dell’operatore rispetto alla crescita professionale e alla formazione. All’aggiornamento professionale (19,54%) ed alla formazione personale (19,21%) viene riconosciuto un valore medio. Norme istituzionali specifiche vengono invocate dal 9,12% degli operatori, una sorta di linee-guida rispetto alle responsabilità anche giuridiche, data la delicatezza dell’argomento.
A conclusione del questionario si è voluto proporre una domanda “aperta”, libera alla personale opinione dell’operatore, sulle eventuali proposte di discussione e di gestione delle problematiche trattate.
Ancora una volta, verosimilmente, la mancanza di una griglia di risposte preordinate ha determinato un “silenzio”, forse riconducibile al timore di avanzare osservazioni inappropriate, testimoniando così il personale sentimento di inadeguatezza rispetto all’argomento. 250 operatori (84,75%), non hanno risposto, a fronte di soli 45 (15,25%), che hanno indicato le seguenti aree da approfondire (relazione utente-operatore, formazione, educazione sessuale dei pazienti a cura di sessuologi, linee-guida, confronto fra operatori… fino a “smitizzare il sesso”, “qualsiasi… purché se ne parli!” e “inutile la formazione degli operatori”). Opinioni diverse che hanno tracciato una linea che scivola dal coinvolgimento attivo verso una sorta di rassegnazione, ma che paradossalmente trova una speranza in un’ultima, singolare, risposta; uno degli operatori, infatti, quasi obbedendo al primo assioma della comunicazione (non si può non comunicare), scrive: “non voglio dare suggerimenti!”.

Conclusione
Questa iniziativa ha voluto rappresentare un momento di apertura su argomenti che, inspiegabilmente, vengono spesso scotomizzati ed elusi, pur nella consapevolezza che la dimensione esistenziale di ogni individuo non può trascurare alcuna parte della sua capacità di essere in relazione con l’altro, nella dimensione sociale, affettiva, intima.
Lontana dal voler esser una risposta esaustiva a tanta complessità e alle tante domande possibili, la ricerca vuole tracciare un percorso sul quale costruire ipotesi di lavoro future inerenti la formazione dell’operatore, l’incremento della capacità di accoglimento e di gestione di queste problematiche nell’ambito delle strutture residenziali.
È auspicabile che i dati rilevati, qui necessariamente sintetizzati, possano servire a focalizzare le aree e gli argomenti suscettibili di utile approfondimento in sede di ulteriori iniziative scientifico-culturali, contribuendo ad incoraggiare nelle strutture residenziali l’attivo coinvolgimento degli operatori, premessa necessaria per una reale possibilità di cambiamento e crescita personale e professionale.
Il lavoro svolto, soprattutto in un momento storico che assegna alla riabilitazione psichiatrica nuove responsabilità verso la “persona” e non solo verso il “paziente”, si pone l’obiettivo di incentivare discussioni e riflessioni, che possano dare a tutte le parti coinvolte delle risposte accettabili e consone alle varie aspettative di ognuno. In tal senso, occorrerà che gli operatori, superando i limiti di una conservazione eccessiva della propria omeostasi, incrementino la capacità di mettersi in discussione, entrando in un circuito virtuoso di crescita professionale e personale.

Un ringraziamento alle Comunità Terapeutiche (C.T.A.) che hanno contribuito alla raccolta dei dati:
Adelina (Villarosa, EN), Cappuccini (Vizzini, CT), Cenacolo Cristo Re (Biancavilla, CT), Fauni (Castelbuono, PA), Helios (Gravina di Catania, CT), J.F. Kennedy (Adrano, CT), La Grazia (Caltagirone, CT), Major (Mascalucia, CT), Oasi Regina Pacis (Motta Sant’Anastasia, CT), San Paolo (Militello Val di Catania, CT), Sant’Antonio (Piazza Armerina, EN), Villa Chiara (Mascalucia, CT), Villa Elce (Brucoli, SR), Villa Erminia (Pedara, CT), Villa Sant’Antonio (Aci Sant’Antonio, CT), Villa Verde (Catania)

Bibliografia

Arvanitis, L.A., Goldstein, G.M. (1997). Atipical profile of quetiapine is supported by its lack of sustained elevation of plasma prolactin concentration. Presented at the APA Annual Meeting, May 17-22, 1997; San Diego, California.
Dickson, R. A., Blazer, W.M. (1999). Neuroleptic induced hyperprolactinemia. Schizophr. Res., 35: S75-S86.
Sanzovo, S., Prior, M., Bianchin, G.I., Rosso, C., Furlan, P.M. (2006). Disturbi Sessuali in pazienti schizofrenici durante il trattamento con Aloperidolo e Quietapina. Minerva Psichiatrica, 47: 249 – 253, 2006.
Gitlin, M.J. (1994). Psychotropic medications and their effects on sexual function: Diagnosis, biology and treatment approaches. J. Clin. Psychiatry, 55: 406-413.
Jaspers, K. (1964). Psicopatologia generale, Ed. Il pensiero scientifico, Roma.
Rosso, C., Furlan, P.M. (1996). Le Dimensioni della Sessualità in Psichiatria. Journal of Sexological Sciences, Vol. 9, n° 3, 7-18, 1996.
Rowlands, P. (1995). Schizophrenia and sexuality. Sexual Marital Therapy. 56, 137-141.
Seminara, G., et al., (1994). Sessualità e gravidanza nell’adolescente. Indagine psicosociale nell’ambito della U.S.L. 32 di Adrano. Ed. Aesse, S.M. di Licodia (CT).

Diritto Sanitario

Avv. Angelo Russo
Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania

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Con una recente sentenza (IV sezione, 21 gennaio 2016 n. 2541) la Corte di Cassazione ha fissato rilevanti principi di diritto in materia di rapporti tra medici e infermieri con importanti riflessi sia in ordine al profilo della subordinazione gerarchica che al profilo dell’esercizio professionale.
La vicenda processuale riguardava un paziente, ricoverato presso l’unità coronarica, al quale veniva applicato un apparecchio telemetrico i cui allarmi erano stati, tuttavia, sospesi.
In assenza di allarme sonoro, insorgeva una fibrillazione ventricolare, regolarmente segnalata dal monitor centrale, privo di vigilanza in quanto i due infermieri e il medico in servizio erano impegnati in altre, pur indispensabili, attività e, pertanto, impossibilitati a visionare il monitor.
Il mancato l’intervento terapeutico a sostegno della crisi aveva determinato la morte del paziente.
Al Direttore della divisione di cardiologia e unità di terapia intensiva dell’ospedale veniva contestata l’accusa di omicidio colposo:
a) Per non avere verificato “al momento del trasloco dell’U.T.I.C. presso la nuova struttura nel febbraio 2006, che il mantenimento della precedente turnazione di tre infermieri professionali complessivi, non adeguato alla nuova logistica del reparto (dove uno dei tre infermieri si sarebbe trovato in locali  diversi dell’U.T.I.C. e materialmente impossibilitato al controllo dell’apparecchiatura di monitoraggio) comportava la formale scomparsa della funzione di controllo dal piano di lavoro, nonché il sostanziale impedimento della stessa nelle occasioni in cui gli infermieri professionali presenti in U.T.I.C. fossero stati completamente assorbiti dalle incombenze ordinarie e straordinarie del reparto”.
b) Per “aver omesso di vigilare, in occasione della contemporanea installazione del nuovo impianto di monitoraggio Philips, sulla esaustività della formazione del personale addetto al reparto in merito alle modalità di utilizzo delle apparecchiature telemetriche in dotazione all’unità di terapia subintensiva, nonché sul corretto e sufficiente livello di apprendimento raggiunto da ciascuno con particolare riferimento ai comandi di sospensione/riattivazione degli allarmi sonori e alla loro visualizzazione in video”.
In primo grado il Tribunale assolveva il Direttore per il punto sub a) per “non avere commesso il fatto” e per il punto sub b) perché il “fatto non sussiste”.
I Giudici, in particolare, sottolineavano che le due infermiere in servizio occupate ad assistere altri pazienti non erano “in grado di permanere nella guardiola davanti al monitor della postazione centrale, ove sono consumabili le tracce delle telemetrie” e che solo l’allarme sonoro (disattivato) avrebbe consentito il loro intervento.
Il Tribunale, inoltre, rilevava, quanto alla “omessa valutazione dell’inadeguatezza del nuovo piano infermieristico, in occasione del trasferimento dalla vecchia Utic al nuovo reparto Utic”, che il primario aveva segnalato alla dirigenza amministrativa la carenza di personale infermieristico.
In relazione, invece, alla “omessa vigilanza sulla formazione del personale infermieristico” il Tribunale affermava che “la responsabilità della formazione e della informazione del personale infermieristico è un compito che esula dalle prerogative dirigenziali del Direttore o Primario di reparto per essere affidato alla autonomia organizzativa del personale infermieristico”, precisando che “si può concludere che, così come non rientrava tra i compiti del primario organizzare i corsi per la formazione del personale infermieristico sul nuovo sistema di monitoraggio del reparto, così neppure poteva pretendersi dal predetto una puntuale verifica preliminare della piena conoscenza del sistema da parte dei singoli operatori”, dovendosi limitare la responsabilità del primario “ai compiti di vigilanza e controllo generali, dovendo fare affidamento all’autonomia professionale e organizzativa del personale infermieristico per quanto attiene all’aggiornamento professionale”.
La Corte di appello riformava la sentenza e condannava il medico per l’imputazione sub lettera b), assolvendolo sulla prima, contestandogli il mancato intervento atteso che, pur conoscendo le difficoltà che il nuovo (e ancora non collaudato) sistema telemetrico aveva comportato, non si era assicurato della “esaustiva capacità degli infermieri di utilizzare correttamente le apparecchiature”, con conseguente condanna a sei mesi di reclusione.
Investita del ricorso da parte del medico, la Suprema Corte non condivideva le motivazioni di condanna del primario da parte della Corte di appello che “ha ricostruito gli obblighi di garanzia riferibili alla figura del direttore di reparto ospedaliere (cd. primario) nei confronti del personale infermieristico secondo una prospettiva che si è sviluppata sulla falsa riga di quanto stabilito per gli obblighi di formazione gravanti sul datore di  lavoro” le cui finalità, secondo i Giudici di legittimità, sono diverse.
Sempre secondo la Cassazione, i Giudici di appello non avrebbero “tenuto conto delle specifiche normative in materia, che invece erano state analiticamente esaminate dal giudice di primo grado al fine di addivenire alla conclusione che non rientrava tra i compiti del primario organizzare i corsi per la formazione del personale infermieristico sul nuovo sistema di monitoraggio del reparto e neppure verificare la piena conoscenza del sistema da parte dei singoli operatori”, sottolineando che già in altre pronunce si era individuata, in capo all’infermiere, una specifica posizione di garanzia nei confronti del paziente, autonoma rispetto a quella del medico e che, lo stato della normativa, non riduceva l’infermiere a mero “ausiliario del medico” elevandolo a “professionista sanitario”.
La sentenza, come detto, evidenzia principi interessanti nel rapporto tra la professione medica e quella infermieristica.
Il primo è relativo ai rapporti gerarchici tra le due professioni, profilo in relazione al quale la Corte di Cassazione – in merito alla “omessa valutazione della inadeguatezza” del piano di lavoro infermieristico nel nuovo reparto e nella nuova logistica dell’unità coronarica – non riconosce le responsabilità in capo al titolare della struttura complessa ricollegandole, invece, alla direzione generale (quanto meno con riferimento all’inadeguatezza della dotazione organica di personale).
Sul punto della “omessa vigilanza sulla formazione del personale infermieristico” il principio di diritto fissato dalla Suprema Corte è di solare evidenza: la responsabilità della formazione del personale infermieristico è riconosciuta dall’ordinamento in capo al personale infermieristico stesso e esula, pertanto, dalle “prerogative dirigenziali del direttore o primario del reparto”.
Analoghe considerazioni valgono per il controllo della “mancata verifica preliminare della piena conoscenza del nuovo sistema da parte dei singoli operatori”.
Il primario (rectius, direttore) – argomenta la Suprema Corte – deve fare “pieno affidamento all’autonomia professionale e organizzativa del personale infermieristico”.
Sotto il profilo delle competenze professionali, non può non sottolinearsi quanto evidenziato dalla Corte in merito al lavoro all’interno di unità coronariche, laddove si specifica che esse sono caratterizzate da “un’area di degenza dove si esercita una sorveglianza diretta e continua del paziente da parte del personale infermieristico” e che tale personale in qualche modo “agisce da medico, essendo in grado di agire terapeuticamente in autonomia nell’immediatezza anche senza la presenza del medico”.
In conclusione non può non riconoscersi alla sentenza di avere contribuito a consolidare il principio che la richiesta di maggiori spazi professionali comporta, inevitabilmente, maggiori responsabilità e, conseguentemente, più incisivi obblighi di formazione al fine di adeguare le proprie attività alle mutate esigenze organizzative e professionali.

Reumatologia

Dott. Mario Bentivegna
Reumatologo specialista in terapia del dolore e Coordinatore Rete Reumatologica Provinciale ASP 7 Ragusa

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La patologia degenerativa della colonna vertebrale rappresenta una delle cause più frequenti di astensione al lavoro con un impatto notevole sulla spesa sanitaria nazionale.
Si calcola che l’80% degli adulti abbia almeno un episodio di lombalgia nella propria vita, complicato o no di sciatalgia. La fascia d’età più colpita è fra i 30 e i 50 anni.
Considerando esclusivamente i conflitti disco-radicolari da erniazione discale va
sottolineato come il 90% delle ernie si localizzi a L4-L5 ed L5-S1.
Negli ultimi anni sono stati complessivamente chiariti i meccanismi fisiopatologici del dolore lombare e le alterazioni anatomo-patologiche del complesso disco-articolare. Anche la storia naturale delle ernie discali è stata recentemente chiarita da studi prospettici longitudinali.
Il disco intervertebrale è costituito da fibre collagene immerse in una matrice di proteoglicani, glicoproteine e acqua, la cui diversa distribuzione e concentrazione dà origine a due componenti: il nucleo polposo al centro del disco e l’anulus fibroso perifericamente. Il nucleo polposo è una piccola massa gelatinosa, ovoide, che contiene il 90% di acqua, fibre collagene tipo II, immerse in un abbondante matrice di proteoglicani, racchiuso tra i rivestimenti di cartilagine ialina che ricoprono i piatti somatici e l’anulus fibroso. L’anulus fibroso è formato da collagene tipo I e II.
Il nucleo polposo è differenziabile dall’anulus solo nel giovane, mentre con l’invecchiamento vi è una progressiva perdita dei confini tra i due per invasione nel nucleo polposo da parte di fibre collagene tipo I. L’idratazione diminuisce soprattutto a livello del nucleo polposo e l’anulus comincia a fissurarsi. Anche la cartilagine ialina, va incontro a degenerazione, con comparsa di fissurazioni e di reazioni infiammatorie all’interno della spugnosa subcondrale.
L’invecchiamento precoce del disco può essere favorito da microtraumatismi ripetuti da fattori genetici e nutrizionali. Complessivamente quindi l’invecchiamento dell’unità disco-somatica comprende una disorganizzazione delle fibre dell’anulus, un riassorbimento del nucleo polposo, con conseguente riduzione dello spazio intersomatico e reazione ossea dei piatti vertebrali di tipo osteoaddensanteed osteofitosico.
L’ernia discale è per definizione la fuoriuscita di frammenti di nucleo polposo attraverso una breccia dell’anulus fibroso verso il canale vertebrale o il forame di coniugazione. Negli ultimi anni è insorta una certa confusione nella terminologia dell’ernia discale. Recentemente è stata proposta un’uniformità di linguaggio.
Ogni modificazionefocale del margine del disco deve essere considerata come ernia discale e differenziata dalla semplice protusione discale in cui non vi è una completa deiscenza dell’anulus, che ha una sporgenza armonica e non focale. La protusione corrisponde, infatti, ad una sporgenza globale dell’anulus dei piatti somatici.
La protusionecirconferenziale è sinonimo di degenerazione discale. Può essere delimitata, ma il raggio di curvatura è sempre più ampio di quello dell’ernia.
Le ernie discali possono essere classificate secondo tre criteri:
Rapporti con il legamento longitudinale posteriore
– ernia sottolegamentosa: corrisponde ad una migrazione del nucleo polposo attraverso una fissurazione radiale delle fibre dell’anulus, con sollevamento, ma senza rottura del legamento longitudinale posteriore. L’ernia può migrare superiormente od inferiormente al di sotto posteriore del legamento longitudinale posteriore rimanendo a contatto del muro posteriore del corpo vertebrale.
-ernia transegamentosa o estrusa; corrisponde al passaggio di materiale discale attraverso una lacerazione del legamento longitudinale posteriore. Il nucleo polposo erniato si mantiene in continuità con la porzione centrale del disco, oppure può staccarsi e successivamente migrare. Anche in questo caso l’ernia può risalire o migrare inferiormente.
-frammento libero: il nucleo polposo perfora la dura. Sono molto rare.
Topografia trasversale
– ernie mediane: sono più rare in quanto il legamento longitudinale posteriore ha un’azione di rinforzo sull’anulus. Sono responsabili di lombalgia, più raramente di lombosciatalgia mono o bilaterale.
-ernie paramediane o postero-laterali: sono le più frequenti a causa della maggior fragilità della parte laterale del legamento longitudinale posteriore. Sono responsabili di compressione radicolare monolaterale della radice emergente dal sacco durale.
-ernie laterali o foraminali: rappresentano il 5-11% dei casi, sono più frequenti ad L3-L4 ed L4-L5 e sono responsabili di compressione della radice nervosa che decorre al di sopra del disco all’interno del forame di coniugazione.
-ernie extraforaminali: possono produrre sintomatologia solo nel caso siano di grosse dimensioni.
-ernie anteriori che sollevano il legamento longitudinale anteriore.
Topografia verticale
-ernia migrata cranialmente
-ernia migrata caudalmente
-frammento libero
La sintomatologia legata alla presenza di un’ernia discale è variabile a seconda delle strutture coinvolte. La parte periferica dell’anulus anteriormente è fusa con il legamento longitudinale posteriore ed è innervata dal nervo ricorrente di Luschka; la compressione del legamento longitudinale posteriore da parte di un’ernia può essere causa di lombalgia. La correlazione tra sede e aspetto morfologico dell’ernia con la sintomatologia spesso non è precisa. La compressione della radice nervosa all’emergenza del sacco durale o nel forame di coniugazione è ritenuta responsabile della sintomatologia dolorosa che insorge come primo sintomo, seguita da parestesie o ipoestesie e, come ultima tappa, da deficit motori nel territorio innervato dalla radice motoria. Recentemente è stato tuttavia dimostrato che più l’effetto meccanico esercitato dall’ernia sulla radice nervosa, sono responsabili della sintomatologia dolorosa mediatori chimici rilasciati dal tessuto di granulazione che si forma intorno all’ernia.
L’ossigeno-ozono:
E’ ormai codificato l’effetto antalgico e antinfiammatorio dell’ozono con conseguente diminuzione con conseguente diminuzione dell’edema radicolare. Ma cosa succede o non succede a livello del disco, dell’ernia durante i trattamenti, e a distanza di tempo per ora lascia spazio solo a delle ipotesi. Per il momento non si è in grado di fornire una risposta a questo quesito. Tuttavia, ritengo che l’ozonoterapia agisca in modo determinante sui piatti vertebrali, terza componente dell’unità funzionale “disco intervertebrale”.  Piatti vertebrali che, nell’adulto svolgono un’importante ruolo di tipo metabolico, consentendo la diffusione di sostanze nutrienti dalla spongiosa vascolarizzata dalla vertebre al disco, che nell’adulto è avascolarizzato. Tali scambi metabolici avvengono mediante diffusione di sostanze dalla spongiosa vertebrale al disco attraverso la parte centrale dei piatti cartilaginei.
Purtroppo la permeabilità di queste strutture cartilaginee diminuisce con il passare degli anni, e a partire dai 18-20 anni di età, comincia una graduale deposizione di Sali di calcio con progressivo riassorbimento dei piatti articolari e la loro sostituzione con tessuto osseo. Nel processo degenerativo discale, oltre all’invecchiamento dei piatti cartilaginei, intervengono fenomeni di senescenza e degenerazione degli spazi vascolari della spondilosa vertebrale: l’ispessimento di pareti di arteriole, capillari e venule, presenti nella spongiosa, rallenta il passaggio di sostanze dai vasi all’osso e quindi alla cartilagine ed al disco. Le conseguenze di questa serie di modificazioni, si ripercuote a carico del nucleo polposo che perde la sua plasticità e resistenza e diventando incapace di trasferire all’anulus le forze meccaniche trasmessegli dalle vertebre attraverso i piatti cartilaginei. L’ossigeno-ozonoterapia, migliorando la microvascolarizzazione locale a livello dei piatti vertebrali, garantendo, quindi un apporto metabolico adeguato e bloccando i fenomeni di degenerazione degli spazi vascolari della spongiosa vertebrale, sarebbe in grado di arrestare il meccanismo fisiopatologico della degenerazione discale. In conclusione, considerando globalmente i pazienti trattati con l’ossigeno-ozonoterapia, nel 70% dei casi si è ottenuto un risultato ottimale e questo risultato deve essere considerato come una spinta ulteriore verso la ricerca e la comprensione del meccanismo d’azione di questa terapia nei conflitti disco-radicolari.

BIBLIOGRAFIA
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Psicologia

Dott.ssa Graziella Palmina Zitelli
Psicologo, Psicoterapeuta, Mediatore Sportivo

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Una società, la nostra, dove purtroppo poca importanza viene data  nell’insegnare fin dal primo approccio con le Istituzioni Scolastiche, le competenze socio-emotive.
Dalle ricerche psicologiche emergono dati che dimostrano come tali competenze abbiano un significativo impatto anche sul rendimento scolastico (Zins, 2004).
Da ciò deriva l’estrema importanza di aiutare i bambini ad acquisire le competenze sopra citate di cui hanno bisogno per diventare buoni studenti, buoni cittadini e non meno avere una società più sana.
Oltre ad avere assicurato un  buon livello scolastico i bambini dovrebbero avere la possibilità di usufruire di un accompagnamento nello sviluppo e nella maturazione della loro personalità di cui le competenze socio-emotive sono parte.
All’apprendimento di contenuti didattici si dovrebbero associare la conoscenza della cooperazione, della lealtà, il rispetto per gli altri, la capacità di risolvere i conflitti (o di stare all’interno del conflitto senza attuare comportamenti aggressivi e/o manifestazioni di rabbia), la capacità di riconoscere/valutare gli stati emotivi loro e quelli degli adulti, al fine di gestire meglio il proprio comportamento e le relazioni interpersonali. Inoltre, la promozione dell’insegnamento delle competenze socio-emotive all’interno del mondo educativo scuola, garantisce un apprendimento efficace e uno sviluppo globale della persona.
Gardner è un autore che ha permesso per primo di allargare il concetto di intelligenza umana, proponendo la teoria delle intelligenze multiple.
Egli ha esaminato gli aspetti interpersonali e intrapersonali, che sono profondamente legati alla dimensione sociale e affettiva della vita di ogni essere umano.
Tuttavia, sono stati Salovey e Mayer (1990) a dare spazio all’Intelligenza Emotiva e solo qualche anno più tardi pubblicata da Daniel Goleman (1995).
Goleman propone l’IE basata sull’esistenza di cinque aspetti:
– gestione dei nostri sentimenti
– capacità di comprende le proprie emozioni
– capacità di riconoscere le emozioni negli altri
– auto-motivazione
– capacità di strutturare relazioni positive.

Questa innovazione del concetto di intelligenza , sicuramente in contrasto con le precedenti definizioni ove razionalità e sentimenti devono rimanere separati, è confermata anche da recentissimi studi neuropsicologici.
Damasco et altri (2003) infatti hanno dimostrato che il pensiero e le emozioni operano in connessione tra loro, formandoci come persone nella nostra totalità.
Se si vuole una società migliore, attenta in tutte le sfaccettature verso i suoi membri, bisogna fare in modo che i piccoli popolani della società imparino a gestire con successo se stessi e gli altri, migliorando la capacità di conoscersi e prendere buone decisioni. Per tale ragione, la promozione di attività di formazione mirati a migliorare la capacità dei docenti nell’insegnare a loro volta ai piccoli discenti le competenze socio-emotive.
La SEL, ossia l’educazione sociale ed emotiva, si riferisce al processo mediante il quale bambini e adulti (insieme) sviluppano competenze fondamentali nel favorire un buon rendimento scolastico e un positivo inserimento nel proprio contesto sociale.
Le competenze SEL sono le seguenti:
– consapevolezza sociale
– consapevolezza di sé
– gestione di sé
– capacità relazionali
– capacità di prendere decisioni e responsabilità

dunque, riconoscere le proprie emozioni, individuare e coltivare le proprie potenzialità, comprendere i pensieri e i sentimenti altrui, apprezzare le differenze tra le persone, avere un buon monitoraggio e regolazione delle proprie emozioni, impegnarsi per il conseguimento di obiettivi prosociali, attivare una comunicazione efficace, negoziare sui conflitti, capacità di stabilire relazioni sane basate sulla cooperazione, prendere decisioni responsabili e infine valutare soluzioni etiche alle difficoltà in modo da promuovere il proprio e il benessere degli altri.
È fuor di dubbio che tali competenze sono una sorta di difese contro la pressione del gruppo, i comportamenti di bullismo o comunque negativi.
È assodato(come dimostrano molteplici ricerche in tale ambito, Marmocchi et al. 2004) che discenti con buone competenze sociali e consapevolezza emotiva hanno maggiori gratificazioni in ambito scolastico e socialmente più integrati. Infine aiuta a gestire meglio lo stress.
L’apprendimento è un processo che per essere funzionale ha bisogno di impegno e motivazione, è fortemente influenzato da come “ci si sente“ durante la formazione, e tutto ciò dipende molto dalla qualità delle relazioni con se stessi e con il mondo circostante.  Gli strumenti indispensabili per gestire la propria vita, per collaborare e rapportarsi positivamente con gli altri sono le competenze sociali ed emotive.
Per attuare il programma SEL nelle varie agenzie educative occorre dare spazio anche al livello ministeriale alla professione dello psicologo in quanto atto a formare in tale ambito.
Le implicazioni per gli interventi adottati da professionisti psicologi sono numerose…ad esempio l’analisi delle emozioni: aspetto informativo delle sensazioni, interno e esterno; incentivazione delle emozioni (positive) ad effetto protettivo. L’intervento cognitivo attraverso rappresentazioni cognitive delle sensazioni/tecniche immaginative, intervento comportamentale mediante modificazione delle strategie di coping .
Lo psicologo all’interno della formazione dei docenti utilizza tecniche atte ad ottenere un controllo dello stimolo con successiva modificazione degli eventi scatenanti l’emozione, ad esempio identificazione degli eventi che inducono emozioni positive e negative, incentivazione dei primi ed evitamento dei secondi; controllo della risposta comportamentale attraverso  modificazione del comportamento in risposta all’emozione, incentivando ad es. le alternative comportamentali più funzionali (relative alla stessa emozione), infine crea il terreno fertile per facilitare l’apprendimento delle modalità di attuazione del programma SEL e la consapevolezza della responsabilità  psico-educativa degli insegnanti.

BIBLIOGRAFIA

Damasio A. (2003) Alla ricerca di Epinoza. Emozioni, sentimenti e cervello. Adelphi Milano.
Goleman D. e altri (2004) Emozioni distruttive. Liberarsi dai tre veleni della mente: rabbia, desiderio e illusione. Mondatori Milano
Zins J.e altri (2004) Building academic success on social and emotional learning Teachears College Press New York

Andrologia

Dott.Carmelo Battiato
Specialista Endocrinologia Andrologia – Dirigente Medico ASP7 Rg
Delegato provinciale per Ct-Sr-Rg Associazione Nazionale Sindrome di Klinefelter.

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I Premessa:
Con la scomparsa da circa 10 anni della visita di leva, si andato via via a creare un gap nell’attuale classe  sociale su alcune patologie tipicamente maschili tanto da creare un sommerso sulle patologie dell’apparato ghiandole maschile. Mi ricordo  giovani commilitoni che alla visita  di leva venivano  mandati non idonei o rivedibili  per un semplice sospetto di una patologia varicosa del plesso pampiniforme. La domanda che mi sono fatto in questi lunghi anni di attività lavorativa come Specialista in Andrologia  era perché  le linee guida ministeriali imponevano durante la visita pre-arruolamento di escludere i giovani affetti da patologie a carico delle gonadi fra cui il varicocele.  Ricordo inoltre che dopo  la legge del 23 Agosto 2004 non sono stati posti dal ministero della sanità percorsi clinico diagnostici obbligatori per informare, evidenziare e orientare  in  la popolazione maschile in età adolescenziale e in età adulta fertile  sulle  le patologie ghiandolari maschili e dei suoi accessori possibili cause di infertilà.
Il varicocele ha una prevalenza di stimata del 2-5,5 % sulla popolazione pediatrica di età compresa fra i 7   ed i 10 anni e una stima reale del 10/20 % sui maschi infertili,  anche se non esiste una vera percentuale di maschi affetti. La mia casistica personale mi ha portato ad osservare circa 400 su 1600 di pazienti con varicocele e contemporanea  alterazioni della linea seminale.

II Premessa:
E’ risaputo ormai che una dei  paesi più longevi in Europa è l’Italia causa allo stesso tempo  dello spostamento in avanti della linea di  sopravivenza oltre i 70/80 anni di età. Purtroppo siamo anche conosciuti come il paese con quasi meno nascite di tutta l’Europa, insomma come diceva Gasman siamo un paese di vecchi. Dal 1960 ad oggi in Italia il numero dei nati si è dimezzato, portandoci dalle 933.000 circa ai 525.000 del 1999 fino ai 509 mila bambini  nel 2014 . Ora c’è da domandarci quali possono essere le cause di questo fattore:   molti lo imputano alle nuovi classi sociali che tengano a sposarsi e cercare prole intorno ai 40/45 anni per la difficoltà soggettiva della stabilizzazione lavorativa,domandiamoci può essere questo uno dei motivi  principali della diminuzione delle nascite o c’è qualcosa in più? In tutto questo il corretto inquadramento diagnostico del varicocele, il trattamento e prognostico legato al desiderio di gravidanza come è vissuto da  parte dello specialista in Andrologia.

Definizione:   Secondo l’ OMS ” Organizzazione Mondiale di Sanità” si  considera una coppia sterile quando  non c’è stato concepimento dopo un anno di rapporti non protetti, o dopo sei mesi per donne oltre i 35 anni; mentre è infertile  se c’è incapacità di portare a termine la gravidanza.
• Si definisce di sterilità primaria si riferisce a persone che non sono mai state in grado di concepire, la sterilità secondaria è l’impossibilità di concepire un secondo figlio dopo aver già concepito e/o portato a termine una normale gravidanza.
• Esistono cause primarie e secondarie di infertilità :
 Fra le cause secondarie rientrano a pieno titolo le patologie prostatiche che con  le sue vescicole seminali in caso di  infezioni o infiammazioni portano ad una  serie di alterazioni dei parametri seminali di cui i più evidenti sono sul volume sotto i 2 ml, sui parametri di  viscosità indice di infezione e/o  infiammazione,un aumento del numero di leucociti. Le vescicole seminali si muovono fisiologicamente in modo ritmico con i muscoli del pavimento pelvico si calcola 200 volte in al minuto in sinergia  qui oltre a creare un vero supporto neuro-muscolare alla normale fisiologia dell’erezione importante per procreare, crea tutta una serie di percorsi fisiologici che include  la fuoriuscita del getto dello  sperma con una forza ed un volume in ml  tale da portare ad una prima spinta per la risalita degli spermatozoi in utero.  Ovviamente un infezione, un ipospermia, o un eiaculazione astenica  “nella forza”  è causa-concausa di infertilità. Non ultimo mi ricordo un ginecologo che consigliava dopo il rapporto il mantenimento in vagina del pene, per far meglio scendere il liquido seminale presso il collo uterino.
Ricordiamo brevemente anche le  orchi-epididimiti: quando si pensa ai  testicoli anatomicamente  in toto l’uomo li raffronta alla sua virilità.
I testicoli, nominati per semplicità didimi  hanno  una serie di funzioni metaboliche legate alla fertilità. Il testicolo produce una parte del testosterone, degli spermatozoi. Produce lo sostanze nutrizionali grazie all’aiuto delle ghiandole accessorie le vescichette seminale ed è via di passaggio del liquido seminale. Un eventuale infezione o infiammazione concomitante porta ad  delle alterazioni anatomo-metaboliche che vanno ad  creare una anomalia della  normale funzione gonadica procurando gioco-forza  infertilità secondaria.

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•   Il varicocele è una patologia molto diffusa negli uomini sotto i 30 anni, consistente  nella comparsa di varici del plesso venoso pampiniforme che drena il sangue refluo dai testicoli provocando stasi  del flusso venoso testicolare.
In molti casi si correla alla presenza di varicosità evidenti a livello testicolare già alla visita che è  per fortuna della popolazione maschile una dei motivi più frequenti fra la richiesta di visita andrologica del maschio adulto in età fertile. La presenza di Varicocele fa si che il testicolo produca nel tempo una serie di alterazioni strutturali che vanno dalla diminuzione della volume del testicolo (il Sx  nei pazienti affetti da questa patologia  è più  piccolo rispetto al contro laterale  testicolo DX del 20%) passando per l’infertilità fino ad vere e proprie alterazioni ormonali con diminuzione dei livelli fisiologici di testosterone.
La cattiva funzionalità delle vene di scarico del varicocele porta in poco tempo all’ aumento della temperatura testicolare con  produzione di cataboliti tossici che sono causa-concausa del peggioramento del normale funzionamento della spermiogenesi. Il paziente con  varicocele può avere una o più caratteristiche seminali alterate come il numero degli spermatozoi sotto i 20 milioni, la motilità inferiore al 40% nella 1 ora  e sulla  morfologia degli spermatozoi. Quasi sempre il paziente con varicocele ha un riscontro allo spermiogramma fatto con 3/5 giorni di astinenza sessuale di un astenospermia franca.

Quando operare e perché?

Dividiamo i pazienti che si sottopongono a visita andrologica per sospetto varicocele in due sottotipi di popolazione maschile.
La prima popolazione viene per riscontro casuale di sospetto varicocele. La seconda popolazione rientra  in coppie o singoli individui di sesso maschile      che si sottopongono a visita medica andrologica per desiderio di gravidanza.
Il varicocele in molti casi provoca dolore, senso di fastidio sordo al testicolo, ” mi viene più volte riferito è come se tirasse qualcosa, all’interno della coscia, ho degli spasmi quando vado in palestra o  nella vita di tutti i giorni” Personalmente nella mia esperienza personale il varicocele è quasi sempre stato nella prima fascia di popolazione un riscontro accidentale, che in  entrambe le popolazione da me osservate porta lo stesso iter diagnostico: doppler del plesso pampiniforme, spermiogramma, spermiocoultura, esami ormonali specifici.

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Quando operare:  esistono varie classificazione del Varicocele che dividono la patologia varicosa in tre classificazioni esiste anche quella secondo il Prof. Sarteschi che si classificaz in 5 stadi secondo la presenza di ectasie peri-testicolari.

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La mia esperienza clinica mi porta a consigliare di operare anche con liquido seminale inalterato in presenza di Varicocele di III grado, ci sono casi in cui anche il I/II grado è operabile quando è presente sintomatologia dolorosa. Viceversa con alterazione dei parametri seminali  si può operate anche con varicocele di I grado.
L’alterazione della funzione testicolare porta come ben noto ad un atrofia del testicolo, ad una diminuzione dei valori di testosterone. La diminuzione dei livelli di testosterone è correlata all’inizio dell’andropausa maschile con disfunzione erettiva, obesità, depressione, cardiopatie, aumento dei valori pressori, osteoporosi il paziente con ipogonadismo rientra anche nella sindrome metabolica. Ovviamente non dobbiamo rilegare il varicocele come l’unica e sola causa di alterazione morfo-funzionali della normale funzione gonadica maschile, ma causa-concausa prominente di alterazione della qualità di vita nel paziente che ne è affetto con disturbi che vanno principalmente a collocarsi nella nostra sfera sessuale e nella vita di tutti i giorni.

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Perché operare? Nella mia esperienza clinica legata all’infertilità la varicolocectomia o con tecnica chirurgica tradizionale o con sclero-embolizazzione a portato a risultati  paragonabili nella ripresa della fertilità  maschile nel lungo periodo.
Un lavoro personale sui pre e post-operatori con liquido semianale alterato, in fase di pubblicazione da  eseguito negli anni 2009-2014 ha portato ad evidenziare  una ripresa della normale funzione gonadica già dopo 3 mesi dalla tecnica operatoria, escludendo solo le rare recidive e del miglioramento della funzione spermatogenica in 6/8 mesi. Ci sono anche dati rilevanti sul miglioramento della funzione testosteronemica nel breve periodo. Nel caso frequente di riscontro di un varicocele bilaterale consigliavo sempre ai miei pazienti di procedere con il varicocele sx e dopo il miglioramento della funzione testicolare con il varicocele dx di solito entro 12 mesi. Operare in tutti i casi è da me consigliato poiché porta ad una normalizzazione delle funzione gonadica e della ripresa della spermatogenesi.

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Varicocele and its effect on testosterone: implications for the adolescent.
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J Ultrasound. 2011 Dec;14(4):199-204. doi: 10.1016/j.jus.2011.08.001. Epub 2011 Sep 1.
Varicocele: Ultrasonographic assessment in daily clinical practice.
Pauroso S1, Di Leo N, Fulle I, Di Segni M, Alessi S, Maggini E.

Oncologia Senza categoria

Salvo Falcone, Direttore Responsabile Medic@live Magazine.

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La connessione ulteriormente dimostrata negli Usa
Tumori al seno e alla tiroide, relazioni sempre più pericolose
A Palagianello, il convegno promosso dal dott. Livio Ostillio, fa il punto sul “nuovo
in senologiae nelle patologie della tiroride”. Secondo il direttore scientifico dott.
Rinaldi, occorre evitare esami e analisi inutili durante il follow-up dei pazienti

A certificare ulteriormente l’interdipendenza tra tumori al seno e alla tiroide hanno provveduto i ricercatori della The University of Chicago Medicine &Biological Sciences. Dallo studio pubblicato a febbraio su “Cancer Epidemiology, Biomarkers and Prevention”, si evince che i pazienti affetti da tumore alla mammella hanno un rischio maggiore (1.55) di sviluppare un tumore alla tiroide come neoplasia secondaria, mentre il rischio di sviluppare un tumore al seno come neoplasia secondaria è maggiore (1.18)  per i pazienti con tumore della tiroide.  La metanalisi statunitense – che ha coinvolto quasi centotrentamila pazienti-conferma l’esistenza di una connessione già sospettata da qualche tempo, ma sulla quale non c’era un’evidenza nella letteratura scientifica.

Diventa quindi imprescindibile l’esigenza di informare, maggiormente, i sopravvissuti del possibile aumento del rischio, di modo che possano seguire le appropriate linee guida per il controllo e lo screening durante il follow-up.

Mentre s’intensificano gli studi dei ricercatori sulla componente genetica che potrebbe influire sull’eventuale connessione, ipazienti affetti da tumore alla mammella potrebbero essere sottoposti acheck-up che vanno a identificare il tumore alla tiroide e viceversa, ma senza esagerare nella mole di esami clinici e diagnostici.
Si è discusso anche del follow-up dei pazienti guariti di tumore alla mammella al convegno dal titolo “Il nuovo in Senologia e nella patologia della Tiroide” svolto al Castello “Stella Caracciolo” di Palagianello in Puglia su iniziativa del radiologo Livio Ostillio, con l’organizzazione di AV Eventi e Formazione e il supporto del Dott. Lino De Maio e la direzione scientifica di Antonio Rinaldi, Dirigente medico U.C. Medicina interna con Direzione S.S.D. Oncologia Medica ASL Ta Polo occidentale e con il patrocinio del Comune di Palagianello.

“Se la grande maggioranza delle pazienti affetta da tumore alla mammella è guarita dopo i trattamenti iniziali – ha detto Rinaldi in collegamento video – per una donna, sentirsi sempre ammalata, costituisce un danno. Il follow-up intensivo impatta fortemente sulle pazienti e sulla qualità della vita stesse e incide profondamente sulla spesa sanitaria.

Due studi recenti – ha proseguito – hanno dimostrato che il confronto tra l’esecuzione di un follow-up minimale e di un follow-up intensivo non impatta sulla sopravvivenza globale: sia a 5 che a 10 anni, i due gruppi di pazienti monitorati hanno raggiunto la stessa sopravvivenza.

Dunque bisogna attenersi alle linee guide internazionali che consigliano una visita ogni 3-6 mesi nei primi tre anni, ogni 6-12 mesi nei due anni successivi, poi annualmente. Suggeriti inoltre, l’autoesame mensile da parte della donna e la mammografia a cadenza annuale. Sono questi – ha ribadito l’oncologo – i punti cardine del follow-up cui attenersi unitamente al controllo ginecologico e all’ecografia pelvica annuale. Risultano importantissimi, poi, la valutazione genetica delle forme familiari, il monitoraggio dei trigliceridi e del colesterolo e la mineralometria ossea soprattutto per chi fa uso inibitori della aromatasi”. Poi l’avvertimento a non esagerare.

“In assenza d’indicazioni cliniche – ha precisato Rinaldi – sono del tutto sconsigliati RMN alla mammella, Tc encefalo torace addome, Tc-Pet, analisi del sangue, marcatori tumorali, radiografia del torace, ecografia addominale e scintigrafia ossea”.

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Il tumore alla mammella provoca complessivamente dodicimila decessi l’anno e si tratta del primo tumore della donna come incidenza e mortalità. Una neoplasia che in Italia presenta numeri preoccupanti: + 38% negli ultimi cinque anni.

Complessivamente, l’evento di Palagianello ha trattato – grazie ai relatori – lo studio e la terapia sia chirurgica che oncologica dei tumori del seno e della tiroide con particolare riguardo alle novità sia in campo diagnostico che in quello chirurgico e oncologico.

Di vera e propria svolta nel campo diagnostico ha parlato il dott. Ostillio a proposito della Tomosintesi, la nuova metodica che permette di studiare la mammella “a strati” in modo simile alla tomografia computerizzata. Il metodo svela lesioni neoplastiche che non sarebbero visibili in mammografia. Aumenta l’accuratezza diagnostica, mentre le radiazioni assorbite sono trascurabili rispetto ai vantaggi offerti da una diagnostica per immagini che risulta essenziale per una diagnosi ottimale delle patologie.

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Pietro Fedele, responsabile di Chirurgia Senologica presso la casa di cura “D’Amore” di Taranto,ha affrontato, invece, l’aspetto chirurgico oncoplastico ricostruttivo sottoponendo all’attenzione degli intervenuti alcuni casi clinici.
La citologia per agoaspirazione della tiroide e della mammella è stato il tema delle due relazioni di Carlo Sarandria, specialista in Anatomia Patologica,  già primario all’Ospedale SS. Annunziata. foto3

Filippo Lauriero, primario di Medicina Nucleare presso l’ASL di Taranto è intervenuto sul tema delLinfonodo Sentinella nella stadiazione del tumore del seno. Dopo l’analisi di alcuni casi clinici, Lauriero  ha approfondito la biopsia escissionale, concludendo la sua relazione occupandosi di radioterapia con radioiodio nel tumore differenziato della Tiroide.
La patologia nodulare della Tiroide e la sua natura sono invece state approfondite da Pietro Montedoro, endocrinologo di Grottaglie.
Il follow-up visto dal lato della radiologia è stato discusso, invece, dal radiologo Gianfranco Bacca, mentre il tema della terapia adiuvante del carcinoma mammario è stato approfondito da Anna Elisabetta Brunetti, Oncologa presso l’Ospedale Castellaneta e all’IRCCS Istituto Tumori di Bari.

“Parlando della senologia, negli ultimi anni – ha aggiunto Rinaldi – si è comunque registrata unariduzione della mortalità pari all’uno per cento l’anno. I progressi sono legati al miglioramento delle capacità diagnostiche e delle competenze chirurgiche e mediche.

Per la parte medica – ha aggiunto – abbiamo avuto, nel tempo, grandi rivoluzioni: prima l’ormonoterapia, poi la chemioterapia, successivamente negli anni ’90 le terapie biologiche, soprattutto Trastuzumab si è rivelato un farmaco che ha offerto importanti opportunità, infine la recentissima immunoterapia implementata nell’autunno del 2015. Un recente studio del 21 gennaio 2016 – ha ricordato Rinaldi -rivela che la parte immunologica inizia a essere presa in considerazione nella prognostica del tumore alla mammella”. Grande partecipazione dei Medici di Medicina Generale del territorio che hanno reso le sessioni interattive e fonte di importanti confronti.
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Il convegno – che ha suscitato grande interesse tra il pubblico – ha visto l’intervento – durante la fase dei saluti – di Vita Surico, dirigente scolastico dell’Istituto di Istruzione Superiore dei Servizi Enogastronomici e dell’Ospitalità Alberghiera e dei Servizi Commerciali Istituto Tecnico del Turismo “Mauro Perrone” di Castellaneta, i cui studenti hanno realizzato, per l’evento, un gradito servizio di catering. Presente anche la coordinatrice Ada Semeraro, gli studenti dell’istituto che assume sempre più i connotati di una “scuola green” hanno realizzato un menù con prodotti biologici. Materie prime, quindi, in linea con l’aspetto salutistico e in ossequio ai corretti valori nutrizionali che sono alla base delle numerose campagne di prevenzione del cancro.

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Link a supporto
www.ilnuovoinsenologia.it
www.perrone.ta.it