Ortopedia e Traumatologia

Sindrome dolorosa che può manifestarsi in seguito a un trauma, l’algodistrofia si presenta spesso associato a edema.

L’eziopatogenesi dell’algodistrofia rimane un punto interrogativo. Si suppone che ci sarebbe un contemporaneo malfunzionamento contemporaneo di più sistemi del corpo umano, tra cui il sistema nervoso, il sistema immunitario e il sistema circolatorio.

Psicologia

I recenti studi sul sistema neurale dopaminergico della ricompensa dimostrano la connessione esistente tra la sua attivazione ed il comportamento del sistema immunitario anche nel contesto oncologico.

Abstract

Il ruolo del sistema dopaminergico della ricompensa è stato recentemente approfondito, aggiungendo alla sua principale funzione di complessa architettura previsionale di apprendimento anche quella fondamentale di modulazione del sistema immunitario definendo la fitness e la nostra qualità di vita.

Abstract

The role of the dopaminergic reward system has recently been deepened by adding to its main function of a complex predictive architecture of learning goal-directed behaviors, even the fundamental one of a system that modulates the immune system determining fitness and our quality of life.

Autore

Dott. Massimo Agnoletti – Psicologo, Dottore di ricerca Esperto di Stress, Psicologia Positiva e Epigenetica, Formatore/consulente aziendale, Presidente PLP-Psicologi Liberi Professionisti-Veneto, Direttore del Centro di Benessere Psicologico, Favaro Veneto (VE).


[dropcap color=”#008185″ font=”0″]L[/dropcap]a complessa architettura neurale del sistema nervoso centrale, che costituisce il sistema dopaminergico, è centrale per i suoi profondi effetti sulla motivazione (e tutti i comportamenti finalizzati ad uno scopo intenzionalmente definito), e per la profonda influenza che essa possiede nei confronti del funzionamento del nostro sistema immunitario.

Vediamo ora brevemente cosa sapevamo finora sul sistema dopaminergico e cosa è stato scoperto solo recentemente negli ultimi quattro anni permettendo di capire anche la sua funzione fondamentale per il sistema immunitario.

Sappiamo, da quindi anni circa, che il sistema dopaminergico è basilare per l’elaborazione di processi mentali come l’attenzione, l’arousal, il movimento muscolare intenzionalmente guidato, il meccanismo di gratificazione utile per comprende lo sviluppo delle dipendenze patologiche, la sindrome di Parkinson, l’ADHD (disturbo da deficit attentivo)(Björklund & Dunnett, 2007; Björklund & Lindvall, 1984; Klanker et al., 2013; Floresco &Magyar,2006).

Il circuito dopaminergico rappresenta una struttura di apprendimento “esperienza dipendente” che modifica continuamente, attraverso dinamiche epigenetiche, la sua stessa rete neurale, determinando le motivazioni che orientano le scelte comportamentali che esprimiamo.

La dinamica dell’apprendimento espresso dal circuito dopaminergico genera un’associazione tra l’aspettativa ed il premio/gratificazione effettivamente raggiunto modificando epigeneticamente i neuroni che includono nella propria struttura i recettori della dopamina (Agnoletti, 2019a).

L’attivazione del circuito dopaminergico della gratificazione è più connesso con la sensazione di controllo percepito (Agnoletti, 2019a) che esperiamo (derivante dalla consapevolezza della corrispondenza tra aspettativa e stimolo percepito) che con la sensazione vera e propria di piacere edonistico conseguente il raggiungimento di un obiettivo (per esempio nel gustarci il cibo preferito o nel fare l’amore).

Anche dal punto di vista anatomico, i meccanismi neurali che realizzano i comportamenti di motivazione nel ricercare attivamente una ricompensa e quelli che si attivano funzionalmente mentre proviamo piacere in seguito al raggiungimento della ricompensa stessa, sono differenti anche se spesso esperienzialmente sono attivati quasi contemporaneamente (Berridge, 2004; Berridge, 2007; Berridge&Aldridge, 2008; Robinson et al. 2016).

A prova della natura complessa e in parte indipendente del funzionamento del sistema dopaminergico nei confronti dell’esperienza edonistica stessa, vi sono anche gli studi che hanno dimostrato come, in alcuni contesti, l’attivazione del sistema della ricompensa abbia come priorità la soddisfazione di un bisogno legato alla curiosità (un soddisfacimento puramente informativo)a scapito di uno strettamente edonistico (Bromberg-Martin & Hikosaka, 2009; Niv & Chan, 2011; Kobayashi & Hsu, 2019).

Oltre alla funzione strettamente motivazionale e finalizzata al raggiungimento di scopi significativi, il sistema dopaminergico è stato solo recentemente connesso al concetto di benessere ed alla salute psicofisica.

Cito qui in merito questa nuova prospettiva l’ipotesiche un sostenuto grado di attivazione del circuito della ricompensa in risposta ad esperienze positive fosse alla base del benessere e della regolazione adattiva dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (Heller et al., 2013), struttura assolutamente centrale per la nostra fitness.

Altro studio degno di nota che lega i livelli di attivazione del sistema dopaminergico alla salute psicofisica dell’organismo umano è quello dove è emersa una connessione tra le citochine infiammatorie circolanti a livello ematico ed i livelli di dopamina presenti nel cervello con i conseguenti effetti sul funzionamento del sistema dopaminergico e quindi sulla motivazione umana (Treadway, Cooper & Miller, 2019).

È solo però attraverso i due studi, che vedremo qui di seguito, pubblicati negli ultimi quattro anni che si è finalmente compreso e dimostrato quanto il sistema dopaminergico possa determinare l’efficacia del sistema immunitario fornendo anche preziose informazioni relative il meccanismo fisiologico coinvolto.

Nel 2016 i ricercatori del Technion-Israel Institute of Technology hanno pubblicato uno studio (Ben-Shaanan et al., 2016) dove hanno dimostrato come, in seguito all’attivazione del sistema della ricompensa (più precisamente area tegmentale ventrale -VTA), il sistema immunitario (sia innato che adattivo) dei topi era significativamente più efficiente nel combattere un’infezione batterica (Escherichia coli).

Lo stesso gruppo di ricerca, due anni dopo, ha scoperto che incrementando l’attivazione del sistema di ricompensa del cervello, il volume e la massa di due tumori maligni (Lewis lung carcinoma e melanoma) indotti precedentemente sui topolini era significativamente ridotta (del 46% relativamente la massa) dimostrando la maggiore efficacia prodotta sul sistema immunitario dalla struttura neurale dopaminergica (Ben-Shaanan et al., 2018).

In questo studio si è compreso il ruolo fondamentale del sistema dopaminergico nel comunicare con le cellule immunitarie del midollo osseo (Myeloid derived suppressor cells – MDSCs) inducendo quindi una risposta antitumorale molto aggressiva nei confronti delle cellule che compongono le due tipologie di tumori sperimentate.

In passato la relazione tra lo stato emotivo di una persona ed il cancro era stata dimostrata, ma principalmente in relazione a stati emotivi negativi (distress cronico e depressione) e, anche in questi casi, senza l’identificazione di una mappatura fisiologica relativa il meccanismo d’azione implicato.

Chiaramente le ricerche citate del gruppo israeliano aprono la strada a notevoli potenziali scenari clinici e di promozione del benessere psicofisico per le possibilità che offrono nell’influenzare positivamente la salute dell’organismo umano inteso come globalità bio-psico-sociale.

Diversamente da una certa piuttosto diffusa disinformazione (anche a livello accademico)presente anche recentemente che considera il sistema dopaminergico quasi unicamente come promotore di fattori negativi per la salute ed il benessere quali lo sviluppo di dipendenze patologiche (Agnoletti, 2019c), il ruolo di questa complessa architettura neurale sembra essere sempre più complesso e centrale anche in senso positivo per promuovere il benessere psicofisico umano.

La positiva e salubre manipolazione strategica dei circuiti dopaminergici indotta nelle persone rappresenta uno scenario dove il settore della psicologia può contribuire significativamente mettendo a disposizione la grande letteratura scientifica già presente (Agnoletti & Formica, in press; Agnoletti, 2019b) relativa le esperienze emotivamente positive, anche in termini di aspettative, che prevedono un’alta attivazione dopaminergica (il gioco, il Flow, etc.). 

Sebbene molti passi devono ancora essere fatti sia per identificare la completa catena causale attraverso la quale avvengono i risultati dimostrati dagli esperimenti citati sia per traslarli nel contesto umano, rimane il fatto che il significato in termini di potenziale miglioramento della salute ed il benessere umano derivante da queste scoperte è assolutamente molto promettente.

BIBLIOGRAFIA

Agnoletti, M. & Formica, S. (in press). Physiological and epigenetic implications of Positive Emotions. in Positive Psychology, Aleksandra Kostic (Editor) & Derek Chadee (Editor). Wiley-Blackwell, USA.

Agnoletti, M. (2019a). La funzione dei circuiti dopaminergici della ricompensa.Medicalive Magazine, 6, 17-20.

Agnoletti, M. (2019b). L’impatto delle emozioni positive sulla nostra salute attraverso il circuito anti-infiammatorio colinergico. State of Mind, 8.

Agnoletti, M. (2019c). I tre falsi miti del circuito dopaminergico e il suo vero ruolo. Medicalive Magazine, 11, 5-9.

Ben-Shaanan, T.L., Schiller, M., Azulay-Debby, H. et al. (2018). Modulation of anti-tumor immunity by the brain’s reward system. Nat. Commun. 9, 2723. https://doi.org/10.1038/s41467-018-05283-5

Ben-Shaanan, T., L, Azulay-Debby, H., Dubovik, T., Starosvetsky, E., Korin., Schiller, M., Green, N., L., Admon, Y., Hakim, F., Shen-Orr, S., & Rolls, A. (2016). Activation of the reward system boosts innate and adaptive immunity. Nature Medicine. 940, 4.

Berridge, K.C. (2004). Motivation concepts in behavioral neuroscience. Physiology and Behaviour. 2004;81(2):179–209.

Berridge, K.C. (2007). The debate over dopamine’s role in reward: The case for incentive salience. Psychopharmacology (Berl) 2007;191(3):391–431.

Berridge, K.C., Aldridge, J.W. (2008). Decision utility, the brain and pursuit of hedonic goals. Social Cognition. 2008;26(5):621–46.

Björklund, A., Dunnett, S.B. (2007). Dopamine neuron systems in the brain: an update. Trends Neurosci. 2007; 30: 194-202.

Björklund, A. and Lindvall, O. (1984) Dopamine-containing systems in the CNS. In Handbook of Chemical Neuroanatomy (Vol. 2): Classical Transmitters in the CNS, Part I (Björklund, A. and Hkfelt, T., eds), pp. 55–122, Elsevier Science.

Bromberg-Martin, E., &Hikosaka, O. (2009). Midbrain dopamine neurons signal preference for advance information about upcoming rewards. Neuron, 63(1), 119–126.

Floresco S.B., Magyar, O. (2006). Mesocortical dopamine modulation of executive functions: beyond working memory. Psychopharmacology. 2006; 188: 567-585.

Klanker M. et al. (2013). Dopaminergic control of cognitive flexibility in humans and animals. Front. Neurosci. 2013; 7: 1-24

Kobayashi, K., & Hsu, M. (2019). Common neural code for reward and information value. Proceedings of the National Academy of Sciences, 116(26), 13061-13066. doi: 10.1073/pnas.1820145116.

Heller, A.S., van Reekum, C.M., Schaefer, S.M., Lapate, R.C., Radler, B.T., Ryff, C.D., & Davidson, R.J. (2013). Sustained striatal activity predicts eudaimonic well-being and cortisol output. Psychological Science 24(11), 2191-2200.

Niv, Y., & Chan, S. (2011). On the value of information and other rewards. Nature Neuroscience, 14(9), 1095-1097.

Robinson, M.J., Fischer, A.M., Ahuja, A., Lesser, E.N., Maniates, H. (2016). Roles of “Wanting” and “Liking” in Motivating Behavior: Gambling, Food, and Drug Addictions. Curr Top BehavNeurosci. 2016;27:105-36. doi: 10.1007/7854_2015_387.

Treadway, M., Cooper, J., Miller, A. (2019). Can’t or Won’t? Immunometabolic Constraints on Dopaminergic Drive. Trends in Cognitive Sciences. volume 23, issue 5, p435-448, may 01, 2019.

Sociologia

La questione dell’insicurezza sociale e urbana è connessa con quella del percepirsi vittima.

Sia la paura del crimine che il pericolo di essere vittime nascono dall’insicurezza sociale che genera stress, sviluppando problematiche psicosociali e determinando un’insoddisfacente qualità di vita.

Il sentirsi vittime, la paura del crimine e l’insicurezza sociale, sviluppando fragilità interiori e problematiche di tipo psicosociale, finiscono per incidere negativamente sui costi del SSN.

Autore

Dott.ssa Annamaria Venere – Sociologa Sanitaria, Criminologa Forense, Socio AICIS (Associazione Criminologi per l’Investigazione e la Sicurezza), Amministratore Unico: AV eventi e formazione. Direttore editoriale: Medicalive Magazine – Catania. Sito personale: annamariavenere.it


 

Introduzione

[dropcap color=”#008185″ font=”0″]L[/dropcap]a paura del crimine porta le persone al percepirsi vittime, ma non tanto del crimine in sé, quanto del timore di diventarlo in futuro.

Sia la paura del crimine che il pericolo di essere vittime sono scaturite dall’insicurezza sociale che, a sua volta, provoca nelle persone stress, andando a sviluppare in esse problematiche psicosociali e un’insoddisfacente qualità di vita.

Tali problematiche psicosociali spesso si traducono in fragilità interiori e psicologiche che, alla fine, incideranno significativamente, in termini economici, anche sul Sistema Sanitario Nazionale.

Il profilo storico dell’insicurezza sociale: il pericolo di essere vittime

La tematica dell’insicurezza sociale e urbana è connessa con quella del percepirsi vittima.

In epoca antica la vittima era colei cui si associava l’idea del sacrificio religioso, ovvero una sorta di patto individuale con gli Dei per espiare determinate colpe.

Successivamente, l’evoluzione delle strutture sociali più complesse ha portato a intendere il sentirsi vittima nei termini di un senso di insicurezza “collettivo”. A quest’ultimo concetto, si è nel tempo affiancata l’idea che la vittima non era tale se non era presente un crimine (Sicurella, 2012).

Nonostante la recente normativa, come il D.Lgs. n. 212/2015, recante norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, è venuta meno oggigiorno l’idea dell’individuo come appartenente alla collettività, in favore invece di un compromesso penale che la vittima deve raggiungere con chi ha commesso il crimine (Bardi et al., 2016).

La persona, infatti, non si sente più parte di una collettività che organizza la sicurezza e la protezione della stessa, ma è a tutti gli effetti un singolo cui deve essere garantita, dalla Stato, la difesa dei diritti sociali.

È proprio dalla concezione dell’individuo inteso come essere singolo, e non come appartenente a una collettività, che se ne deriva l’insicurezza sociale odierna.

Il pericolo di essere vittime porta cioè ad ampliare il senso di insicurezza interno, a causa della percepita assenza di uno Stato “buono” che non riesce a garantire né la difesa dei diritti sociali né, nel caso di crimini, la certezza della pena. In altre parole, lo Stato è percepito come incapace di garantire la sicurezza sociale e, quindi, di prevenire il pericolo di sentirsi vittime non tutelate.

Da ciò si origina la paura del crimine e la fragilità interiore di natura psicosociale, in grado di incidere negativamente sulla qualità di vita delle persone (Triventi, 2008).

La relazione tra la paura del crimine e il senso di insicurezza sociale

La mancanza della tutela dei diritti, di fronte al pericolo di sentirsi vittime, porta alla conseguente e inevitabile paura del crimine.

La paura del crimine provoca aumento della diffidenza e sfiducia tra cittadini e istituzioni, ma anche una considerevole riduzione della partecipazione alla vita sociale.

Il timore del crimine, pertanto, finisce per incidere in maniera significativa sulle abitudini quotidiane delle persone, con conseguenze importanti soprattutto sotto il profilo psicosociale (Triventi, 2008).

Con il termine di paura del crimine si intende la percezione del rischio di criminalità o, meglio, la preoccupazione nei confronti dei reati. Esso si collega, ma non in maniera diretta, con il senso di insicurezza sociale provato da ogni persona.

In molte ricerche, tuttavia, la paura del crimine non corrisponde in tutto al senso di insicurezza, in quanto spesso la paura della criminalità eccede la diffusione dei crimini stessi.

Se ne evince che la paura del crimine è un concetto complesso, giacché fa riferimento da un lato al timore di subire un reato, dall’altro al senso di insicurezza provato dalla persona nel momento in cui si trova in luoghi considerati pericolosi (Skogan, 1993).

All’interno della paura del crimine troviamo tre dimensioni. La prima è quella affettiva ed emotiva, ovvero la reazione emotiva della persona di fronte alla paura, che può essere di ansia, depressione, fuga o rabbia.

La seconda è quella cognitiva, che valuta il rischio e l’insicurezza di un determinato luogo. Infine, vi è quella comportamentale, cioè il comportamento che viene messo in atto in seguito alla paura.

Coinvolgendo queste tre dimensioni, la paura del crimine provoca inevitabilmente patologie psicosociali, quali disturbi ansiosi o depressivi, con ovvie conseguenze anche sulla qualità di vita (Triventi, 2008).

La riduzione della qualità di vita a causa della paura del crimine è dunque causata dall’attuale disordine sociale, poiché lo Stato viene per lo più inteso non come un “ombrello” sotto il quale ripararsi e sentirsi sicuri, ma come un’istituzione incapace di tutelare i diritti.

Insicurezza sociale e sistema sanitario nazionale: quale costo?

Il sentirsi vittime, la paura del crimine e l’insicurezza sociale, sviluppando fragilità interiori e problematiche di tipo psicosociale, finiscono per incidere negativamente sui costi del Sistema Sanitario Nazionale.

Questo perché anche la semplice percezione dell’insicurezza, o della paura, provocando, come abbiamo visto, stress nelle persone, obbliga queste ultime a ricercare dei metodi risolutivi per far fronte alle proprie ansie o alle proprie patologie psicofisiche (Triventi, 2008).  

Per migliorare non soltanto la sicurezza sociale, ma anche la sostenibilità del sistema sanitario, è pertanto necessario diminuire la paura del crimine provata dalle persone, nonché il loro senso di insicurezza interiore, con interventi mirati di natura psicosociale che riescano a creare nelle persone una migliore percezione della società e, al contempo, dello Stato.

È solo diminuendo l’insicurezza sociale, e quindi la paura del crimine, che si potrà ridurre lo stress psicofisico e psicosociale, con un considerevole impatto positivo sulla qualità di vita delle persone.   

Bibliografia

Bardi, M., Caracciolo, L., Corbari, E. (2016). Diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Il recepimento italiano della Dir 2012/29/UE, International Journal of Criminological and Investigative Sciences, XI, 20-42. 

Sicurella, S. (2012). Lo studio della vittimologia per capire il ruolo della vittima, Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, VI, 3, 62-75.

Skogan, W.G. (1993). The various meanings of fear, in W.Bilky, Fear of crime and criminal victimization, Enke, Stuttgart.

Triventi, M. (2008) Vittimizzazione e senso di insicurezza nei confronti del crimine: un’analisi empirica sul caso italiano, Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, II, 2, 137-159.

Diritto Sanitario

Con la sentenza  23 dicembre 2020, n. 29469 la Corte di Cassazione torna a occuparsi della delicata questione della libertà e del diritto dei Testimoni di Geova di rifiutare le emotrasfusioni.

Autore

Avv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.


IL FATTO

[dropcap color=”#008185″ font=”0″]D[/dropcap].G.M.G. convenne in giudizio innanzi il Tribunale di Milano la (OMISSIS) e D.A. chiedendo il risarcimento del danno, e la restituzione di quanto corrisposto per l’opera professionale, in relazione alle trasfusioni di sangue eseguite nonostante la contrarietà manifestata dall’attrice, Testimone di Geova, a seguito di emorragia conseguente a parto con taglio cesareo eseguito il giorno (OMISSIS).

Il Tribunale adito rigettò la domanda.

La Corte d’appello di Milano rigettò l’appello, osservando che la CTU aveva affermato che “le trasfusioni somministrate il (OMISSIS) erano indispensabili, stante il contesto di malattia emorragica acuta con valore di emoglobina inferiore a 6 g/dl e perdita ematica stimata di oltre il 40% del volume normale, e che la dichiarazione resa al momento di ingresso in ospedale non poteva più considerarsi operante davanti ad una situazione fortemente mutata e con serio pericolo di vita.”.

Aggiunse che il Tribunale “a fronte del rilievo dell’attrice secondo cui, come da testimonianze assunte, essa aveva continuato a rifiutare la sottoposizione a trasfusione, aveva osservato che non era necessario stabilire se le testimonianze fossero pienamente attendibili o se la paziente con lo scuotimento del capo o l’allargamento delle braccia volesse esprimere dissenso rispetto alla trasfusione, perché era certo che la paziente non ritenne di rifiutare l’intervento chirurgico connesso alle trasfusioni.

Osservò, inoltre, la Corte di appello che “mancava la prova che al momento di esprimere il rifiuto preventivo alla trasfusione l’appellante intendesse già rifiutare di sottoporsi a trasfusione anche nell’ipotesi di pericolo di vita, posto che dalla CTU era emerso che la trasfusione si era resa solo successivamente indispensabile per la sopravvivenza della paziente.

Aggiunse, infine, che “l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa implicava l’accettazione di tutte le sue fasi, non essendo contestabile che acconsentendo all’intervento la paziente avesse implicitamente, ma chiaramente, manifestato il desiderio di essere curata e non di morire per evitare di essere trasfusa.”

I MOTIVI DI RICORSO

D.G.M.G., col primo motivo di ricorso, osserva, che “la motivazione della sentenza di appello è incomprensibile, e dunque apparente, perché pur riconoscendo che erano state acquisite testimonianze nel senso del dissenso attuale alle trasfusioni, rifiuta di statuire in base alle prove acquisite, dichiarando espressamente non necessario valutarne l’attendibilità, per avere deciso di basare la decisione solo sulla dichiarazione di rifiuto del giorno precedente le trasfusioni, considerandolo preventivo e non attuale.”

Con il secondo motivo osserva la ricorrente che “la corte territoriale ha erroneamente qualificato la fattispecie in termini di rifiuto preventivo, che invece riguarda i pazienti incapaci o incoscienti, mentre la D.G. dopo l’intervento di taglio cesareo era cosciente e mentalmente capace, sicché attualizzava e confermava il dissenso espresso.

Aggiunge che la D.G. “dopo avere ricevuto le informazioni sui rischi dell’intervento, aveva dichiarato di rifiutare il consenso alle trasfusioni “in qualsiasi circostanza” e che in assenza del consenso del paziente l’intervento medico è del tutto illecito, stante il diritto del paziente di rifiutare le cure.

Osserva ancora che il rifiuto delle emotrasfusioni derivava da motivi religiosi (come ribadito dalla sentenza della Corte Edu 10 giugno 2010, “Testimoni di Geova vs. Russia”) e che tale forma di rifiuto, in quanto basata sulla fede, non costituisce il mero esercizio del diritto di autodeterminazione sanitaria ma è una vera e propria forma di obiezione di coscienza, radicata in ragioni religiose, per cui non si tratta di rispettare solo il corpo della persona nella sua fisicità, ma di rispettare la persona umana nella sua interezza, ossia nei suoi valori morali, etici e religiosi.”

Aggiunge, altresì, che “ai fini della responsabilità del medico per violazione del consenso informato rileva la lesione all’obiezione religiosa della ricorrente alle trasfusioni di sangue, con inoltre un effetto discriminatorio nei confronti della stessa.”

Con il terzo motivo deduce la ricorrente che “il consenso prestato all’intervento di laparotomia esplorativa non può essere considerato come implicito consenso prestato alla trasfusione, non essendo configurabile un consenso presunto o per facta concludentia” e che “la laparotomia esplorativa (intervento assentito dalla paziente) e le trasfusioni di sangue (trattamento rifiutato) sono trattamenti distinti, che richiedono consensi separati, posto che la trasfusione di sangue comporta l’assunzione di specifici rischi, tant’è che il D.M. Salute 3 marzo 2005 prescrive il consenso scritto per le trasfusioni di sangue da parte di un paziente cosciente.”

Osserva, ancora, che “l’obbligo di consenso informato prevede che non possa essere somministrato il trattamento sanitario senza il corretto adempimento dell’obbligo informativo sulla base di informazioni che devono essere le più esaurienti possibili” e che “la D.G. aveva il pieno diritto di prestare il consenso alla laparotomia esplorativa, ma di rifiutare di acconsentire alle trasfusioni di sangue, e che con il consenso alla laparotomia la paziente aveva prestato il consenso all’unica opzione che desse qualche possibilità di arrestare l’emorragia post- partum costituente pur sempre un rischio nel parto e nel taglio cesareo, senza acconsentire a trasfusioni di sangue.”

Rileva, altresì, che “se i sanitari fossero stati consapevoli del consenso rilasciato non avrebbero avuto bisogno di chiedere un’autorizzazione alla direzione sanitaria o al magistrato di turno presso la Procura della Repubblica e che quanto detto dal Dott. I. (“me la vedo io con il suo Dio”) costituiva grave violazione della coscienza religiosa della paziente, in stato peraltro di debolezza emotiva e fisica per avere perso quasi metà del suo volume ematico.”

LA DECISIONE DELLA CORTE

La Corte di Cassazione ha ritenuto, complessivamente, fondati i motivi di ricorso.

Rileva la Suprema Corte che “il paziente ha sempre diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte; tuttavia, il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare così il medico dal potere – dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale: non è sufficiente, dunque, una generica manifestazione di dissenso formulata “ex ante” ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ovvero dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure.” (Cass. 15 settembre 2008, n. 23676, relativa proprio ad un caso in cui paziente era un Testimone di Geova).

In materia di rifiuto di determinate terapie, alla stregua di un diritto fondato sul combinato disposto dell’art. 32 Cost., della L. 28 marzo 2001, n. 145, art. 9 (recante “ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina“) e art. 40 codice di deontologia medica – sottolinea la Corte – “pur in presenza di un espresso rifiuto preventivo, non può escludersi che il medico, di fronte ad un peggioramento imprevisto ed imprevedibile delle condizioni del paziente e nel concorso di circostanze impeditive della verifica effettiva della persistenza di tale dissenso, possa ritenere certo od altamente probabile che esso non sia più valido e praticare, conseguentemente, la terapia già rifiutata, ove la stessa sia indispensabile per salvare la vita del paziente” (Cass. 23 febbraio 2007, n. 4211, anche tale pronuncia relativa ad un caso in cui paziente era un Testimone di Geova).

Il giudice di merito, invero, ha affermato che “vi è assenza di prova che al momento di esprimere il rifiuto preventivo alla trasfusione l’appellante intendesse già rifiutare di sottoporsi a trasfusione anche nell’ipotesi di pericolo di vita” e che “l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa implicava l’accettazione di tutte le sue fasi.”

La Corte d’appello ha così condiviso la valutazione del Tribunale la quale, secondo quanto risulta dalla decisione impugnata, era stata nel senso che “fosse irrilevante accertare se vi fosse stato effettivo dissenso rispetto alla trasfusione una volta che la paziente non avesse ritenuto di rifiutare l’intervento chirurgico connesso alle trasfusioni.”

La ratio decidendi, quindi, secondo la Suprema Corte, è nel senso che “non potesse considerarsi l’esistenza di un espresso, inequivoco ed attuale dissenso all’emotrasfusione perché l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa implicava l’accettazione di tutte le sue fasi, ivi compresa la necessità della trasfusione per il caso di pericolo di vita.”

Siffatta ratio è, espressamente, contestata rilevandosi che “lo stato di coscienza della paziente, successivamente al parto mediante taglio cesareo, comportava la piena consapevolezza in ordine alla gravità della propria situazione, in secondo luogo affermando che il consenso prestato all’intervento di laparotomia non comportava consenso all’emotrasfusione alla luce del diritto all’autodeterminazione della paziente e dell’incoercibilità del credo religioso della stessa, Testimone di Geova.”

In altre parole, il consenso al trattamento sanitario “non può essere qualificato anche come consenso all’emotrasfusione, dato che il diritto all’autodeterminazione ed il credo religioso impedirebbero di interpretare il consenso al trattamento come consenso anche all’emotrasfusione.”

L’art. 32 Cost., comma 2, come noto, dispone che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge“.

Dovendosi, quindi, identificare i principi costituzionali rilevanti deve essere verificato “se, in relazione alle circostanze del caso ed alla tipologia dei principi concorrenti, questi siano suscettibili di attuazione graduata nell’ambito di un bilanciamento, secondo la specifica natura che li distingue dalle regole, o possano trovare piena attuazione, non essendovi questione di ponderazione con un principio di segno contrario.

Infine – sottolinea la Corte – il Giudice formula il giudizio, il quale consta “non della diretta applicazione del principio costituzionale, ma della regola di diritto formulata per il caso concreto sulla base della combinazione del detto principio, se del caso bilanciato con altro principio concorrente, con le circostanze del caso.”

Il fatto, come noto, è quello della sottoposizione di Testimone di Geova a trasfusione di sangue ed è, altresì, nota “la contrarietà della trasfusione di sangue al credo religioso per i Testimoni di Geova, fondata, come si legge in Cass. n. 4211 del 2007, su una particolare lettura di alcuni brani delle Scritture: Gen. 9, 3-6; Lev. 17, 11; Atti 15, 28, 29.

Il divieto di assumere sangue costituisce precetto religioso per il Testimone di Geova.”

La ricorrente fa valere, quindi, sia il diritto di autodeterminazione con riferimento al trattamento sanitario che la libertà di manifestazione del proprio credo religioso atteso che “quella dei Testimoni di Geova non costituisce una mera autodeterminazione sanitaria, ma una vera e propria forma di obiezione di coscienza e che se un Testimone di Geova accettasse volontariamente una trasfusione di sangue, ciò equivarrebbe ad un atto di abiura della propria fede.”

La posizione soggettiva fatta valere dalla ricorrente risulta, quindi, qualificata dal duplice e concorrente riferimento al principio di autodeterminazione circa il trattamento sanitario e alla libera professione della propria fede religiosa.

I principi costituzionali che, così, entrano in gioco sono quelli per un verso riconducibili all’autodeterminazione sanitaria, per l’altro alla libertà religiosa.

Con riferimento al primo “la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2, 13 Cost. e art. 32 Cost., comma 2.

Affermazione, peraltro, coerente a quanto già affermato dalla giurisprudenza costituzionale: “il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”” (Corte Costituzionale 23 dicembre 2008, n. 438).

Quanto al profilo della libertà religiosa, la Suprema Corte ha già, in passato, posto in evidenza il collegamento del diritto di rifiutare il trattamento sanitario all’art. 19 Cost. in relazione a casi in cui il paziente era Testimone di Geova (Cass. 7 giugno 2017, n. 14158 e 15 maggio 2019, n. 12998, quest’ultima richiamata anche da Cass. 15 gennaio 2020, n. 515).

La libertà religiosa, peraltro, secondo la Corte Costituzionale (sentenza 5 dicembre 2019, n. 254) “è garantita dall’art. 19 Cost. ed è un diritto inviolabile, tutelato al massimo grado dalla Costituzione.

Garanzia costituzionale avente valenza anche “positiva“, giacché il principio di laicità che contraddistingue l’ordinamento repubblicano è “da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze n. 63 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità” (sentenza n. 67 del 2017)“.

A sostegno del diritto di rifiutare l’emotrasfusione vi è, così, il complesso concorso di principi rappresentato da quello all’autodeterminazione in materia di trattamento sanitario e quello di libertà religiosa.

Tale osmosi di principi costituzionale – secondo l’iter argomentativo della Corte – non incontra nel caso di specie principi di segno contrario suscettibili di bilanciamento.

L’accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito evidenzia, esclusivamente, la circostanza della necessità dell’emotrasfusione per il mantenimento in vita della paziente.

La tutela della salute (quale diritto dell’individuo, sancito dall’art. 32 Cost.) è dunque un principio nuovamente riconducibile alla posizione soggettiva della ricorrente e non ad un bene – interesse contrapposto a tale posizione (non potendosi ritenere il riferimento nella norma costituzionale all’interesse della collettività alla salute dell’individuo in contraddizione al principio di autodeterminazione enunciato nella medesima norma).

Il complesso di principi evidenziati non incontra, quindi, principi costituzionali di segno opposto i quali impongano una forma di bilanciamento sicché non essendovi materia di ponderazione con altri principi costituzionali, essi possono trovare piena e diretta attuazione.

La regola di giudizio che si trae dall’identificata osmosi di principi costituzionali, con riferimento alle circostanze del caso, è che “il Testimone di Geova ha diritto di rifiutare l’emotrasfusione.

Sulla base della fonte costituzionale “sorge uno specifico rapporto giuridico contrassegnato dall’obbligazione negativa del sanitario di non ledere la sfera giuridica vantata dal Testimone di Geova, cui spetta la titolarità attiva del rapporto.

La ratio decidendi della decisione impugnata è, invece, nel senso “che non potesse considerarsi l’esistenza di un espresso, inequivoco ed attuale dissenso all’emotrasfusione perché l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa implicava l’accettazione di tutte le sue fasi, ivi compresa la necessità della trasfusione per il caso di pericolo di vita.

Siffatta ratio è stata impugnata denunciandosi che “il consenso prestato all’intervento di laparotomia non comportava consenso all’emotrasfusione alla luce del diritto all’autodeterminazione della paziente e dell’incoercibilità del credo religioso della stessa.”

La tesi della ricorrente, secondo la Suprema Corte, è da reputare fondata sulla base dell’evidenziata regola di giudizio in quanto “la Testimone di Geova, sotto la copertura del complesso di principi costituzionali evidenziati, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione anche con dichiarazione formulata prima del trattamento sanitario.

L’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa non ha implicato l’accettazione anche dell’emotrasfusione.

La dichiarazione anticipata di dissenso all’emotrasfusione, che possa essere richiesta da un’eventuale emorragia causata dal trattamento sanitario, non può dunque essere neutralizzata dal consenso prestato a quest’ultimo.”

È doveroso precisare – sottolinea la Corte – con lo sguardo alla L. 22 dicembre 2017, n. 219, che “la posizione del medico non è esente da garanzie in circostanze come quella del caso di specie” atteso che l’art. 1, comma 6 citata legge, dispone non solo che “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale“, ma anche che “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali“.

In tale ottica, quindi, “prestare il consenso ad un intervento chirurgico, al quale è consustanziale il rischio emorragico, con l’inequivoca manifestazione di dissenso all’esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri, significa esigere dal medico un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale.

A fronte di tale determinazione del paziente il medico non ha obblighi professionali.”

Il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione è, quindi, il seguente :

Il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita.

La Corte di Appello ha reputato conforme a diritto l’esecuzione della terapia trasfusionale nei confronti della paziente, Testimone di Geova, sul presupposto che il consenso al trattamento sanitario implicasse il consenso all’emotrasfusione.

Nel giudizio di rinvio – conclude la Suprema Corte – facendo applicazione dell’enunciato principio di diritto (che riconosce il diritto di rifiutare la terapia trasfusionale anche in presenza di consenso al trattamento sanitario) il giudice di merito dovrà accertare “se sia intervenuto un informato, inequivoco, autentico ed attuale dissenso della paziente all’emotrasfusione.