Medical News Medicina Iperbarica

L’ossigeno, quando viene respirato in iperbarismo, acquisisce proprietà farmacologiche. Potrebbe essere efficace per contrastare l’insufficienza respiratoria e  i danni sistemici determinati dal virus Sars-Cov2?


Italian abstract 

Covid-19 è una grave infezione sistemica causata dal virus Sars-Cov2 che ha i suoi momenti patogenetici fondamentali nell’ipossiemia e nella grave infiammazione sistemica. L’ossigenoterapia iperbarica comporta iper ossigenazione del sangue e dei tessuti dell’organismo, esercita effetto antinfiammatorio, contrasta lo stress ossidativo e favorisce la riparazione tissutale. Nell’articolo si argomenta di come OTI potrebbe essere utilizzata nel trattamento di covid-19 e delle esperienze che, ad oggi sono state fatte a livello internazionale.

English abstract 

Covid-19 is a serious systemic infection caused by the Sars-Cov2 virus which has its fundamental pathogenetic moments in hypoxemia and severe systemic inflammation. Hyperbaric oxygen therapy involves hyper oxygenation of the blood and body tissues, exerts an anti-inflammatory effect, counteracts oxidative stress and promotes tissue repair. The article discusses how HBOT could be used in the treatment of covid-19 and the experiences that, to date, have been made internationally.

Autore

Dott. Ferruccio Di Donato – Medico specialista in Medicina del Nuoto e delle Attività Subacquee. Direttore Sanitario Centro Iperbarico Bologna. Docente a contratto di Medicina Iperbarica della Scuola di Specializzazione in Anestesia, Rianimazione, Terapia intensiva e del Dolore dell’Università di Bologna


Covid-19

[dropcap color=”#008185″ font=”0″]C[/dropcap]ovid-19 è una infezione respiratoria causata dal virus SARS-COV2 che può manifestarsi con quadri clinici di differente gravità, che vanno dall’assenza di sintomatologia clinica fino alla morte.

Nella pratica clinica sono descritti cinque livelli di gravità (asintomatico, lieve, moderato, grave, critico) a cui corrispondono differenti setting di cura. Covid asintomatico e lieve vengono gestiti a domicilio, nelle forme di malattia moderata e grave è prevista l’ospedalizzazione rispettivamente in reparto ordinario o sub intensivo, mentre il paziente critico viene gestito in terapia intensiva (Agenas, 2021).

Il corteo sintomatologico di covid-19 è vario e comprende febbre, tosse, fatica, anoressia, mialgie, mal di gola, congestione nasale, cefalea, diarrea, nausea e vomito, anosmia e ageusia (questi ultimi spesso precedono l’esordio della sindrome clinica). Già nella forma lieve, l’imaging documenta la presenza di polmonite interstiziale senza, però, ipossiemia anche al test del cammino(PaO2 > 60mmHg;SatO2> 92%). Nei casi più severi, in cui è presente ipossiemia, prevalgono dispnea, aumento della frequenza respiratoria, insufficienza respiratoria di vario grado fino alla ARDS con insufficienza multiorgano, shock e morte.

La reazione dell’ospite all’infezione virale comporta l’attivazione del sistema immunitario con risposta innata aspecifica e risposta specifica con produzione di anticorpi protettivi e attivazione di linfociti T per l’immunità cellulomediata. La risposta innata aspecifica è la prima a manifestarsi e comporta il richiamo a livello polmonare di linfociti e macrofagi con forte produzione di citochine infiammatorie (Conti, 2020).

Se la reazione infiammatoria non è seguita dal controllo della carica virale nel sito dell’infezione, la flogosi continuerà ad aumentare inducendo una forte infiammazione sistemica (tempesta citochinica) che può raggiungere livelli tali da determinare danni agli organi più sensibili, in particolare, cuore, reni e cervello, aggravando il quadro clinico fino a compromettere la prognosi (Liu, 2020). Quindi, i momenti patogenetici fondamentali di covid-19 sono l’ipossiemia, causata dalla polmonite interstiziale e l’infiammazione sistemica testimoniata dalla iperproduzione di interleuchine infiammatorie.

In molti casi, dopo la guarigione clinica persiste una sintomatologia invalidante caratterizzata da fatica, debolezza muscolare, affanno, ansia, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione e di attenzione, anosmia e ageusia. Diversi studi riportano la persistenza di sintomi in oltre il 60% dei pazienti ospedalizzati ancora 6 mesi dopo la dimissione, attribuendola alla persistenza di uno stato infiammatorio (Chaolin, 2021).

Covid-19 non ha una terapia eziologica specifica efficace e l’unica arma sicura per contrastarlo è la vaccinazione. In avanzata fase di studio, ma non ancora disponibili, l’impiego degli anticorpi monoclonali che potranno rappresentare una importante risorsa terapeutica da utilizzare nelle fasi iniziali della malattia, in particolare nei pazienti immunocompromessi. Il trattamento del paziente affetto da covid si basa sull’adozione di misure di sostegno volte a contrastare i momenti patogenetici fondamentali, che variano a seconda della fase della malattia.

Per combattere l’ipossiemia viene fatto largo uso dell’ossigeno, somministrato a concentrazioni crescenti con l’obbiettivo di mantenere la saturazione a valori superiori al 92% ma, purtroppo, questo obbiettivo non è sempre raggiungibile anche ricorrendo alla CPAP e alla NIV e in questi casi, si deve ricorre alla intubazione tracheale e alla tracheotomia con permanenza in terapia intensiva per tempi anche molto lunghi. È noto che quanto più si prolunga il periodo di intubazione tanto più sono probabili le complicazioni infettive e gli eventi iatrogeni.

Il controllo dell’infiammazione si basa sull’utilizzo di farmaci quali l’idrossiclorochina, l’azitromicina e il cortisone, quest’ultimo non indicato in fase precoce per non interferire con la risposta immunitaria dell’ospite.

Ossigeno Terapia Iperbarica

L’ossigeno terapia iperbarica (OTI) è una terapia sistemica che consiste nella respirazione di ossigeno puro all’interno di una camera iperbarica portata ad una pressione superiore di quella atmosferica.

Immagine 1: visione interna camera iperbarica Centro Iperbarico Bologna Immagine 2: respirazione a richiesta e a circuito chiuso, con maschera oronasale

La pressione d’esercizio varia da 1,5 ATA a 2,8 ATA corrispondenti alle profondità in acqua di mare, rispettivamente, di -5 e -18 metri. La durata della singola seduta è, di norma, di 90 minuti totali, 75 dei quali in respirazione di ossigeno puro o miscele gassose iperossigenate.

All’interno della camera iperbarica l’atmosfera è composta dall’aria medicale utilizzata per la pressurizzazione, mentre la respirazione della miscela terapeutica avviene con un sistema a circuito chiuso mediante una maschera oronasale con erogazione a richiesta o un casco con erogazione a flusso continuo; in ogni caso, gli scarichi sono veicolati all’esterno mediante un sistema Venturi e la concentrazione di ossigeno in ambiente è rigorosamente monitorata e mantenuta entro il 22%.

Figura 1: Schema di una seduta OTI. Sul piano orizzontale la scala dei tempi.Sul piano verticale la scala della pressione. NB: Velocità di compressione 1m/min; Velocità di decompressione 1,5m/min. Le aree verdi corrispondono alle fasi di respirazione di ossigeno. Le aree blu corrispondono alle fasi di respirazione di aria. (Cevolani, 2020con il permesso dell’autore). Figura 2: Assorbimento dell’ossigeno in iperbarismo (Modificato da Lambertsen, 1955)

L’ossigeno respirato in questa condizione ambientale si scioglie fisicamente nel plasma e raggiunge valori di pressione arteriosa molto elevati (> 1200mmHg).

Pressione barometrica -> 1 ATA 1 ATA 2 ATA 3 ATA
Gas respirato Aria O2 O2 O2
PaO2 arterioso (mmHg) 98 600 1218 1864
Contenuto O2 arterioso (ml/100ml) 19.3 21.3 23.4 25.5
PvO2 sangue venoso misto (mmHg) 39 48 68 360
 Contenuto O2 venoso (ml/100ml) 14.3 16.3 18.4 20.5
Contenuto O2 disciolto nel plasma (ml/100ml) 0.32 1.7 3.7 5.6

Tabella 1: Pressione parziale dell’ossigeno in diversi compartimenti organici in funzione della fiO2 e della pressione ambiente. (Modificato da: Nunn, 1987 e Saltzman, 1965)

A questi valori di pressione parziale arteriosa, l’ossigeno acquisisce proprietà farmacologiche (Thom, 2011). Possiamo, quindi, dire che l’ossigeno è un farmaco che viene respirato la cui la dose, nella singola seduta, viene modulata modificando la pressione dell’ambiente in cui soggiornano i pazienti durante il trattamento. I protocolli terapeutici delle numerose patologie ammesse variano per numero di sedute previste e per pressione di esercizio.

Gli effetti biochimici di OTI scientificamente documentati sono molteplici e giustificano le indicazioni terapeutiche approvate dalla EUBS (European Underwater Baromedical Society) dalla SIMSI (Società Italiana Medicina Subacquea e Iperbarica) e dalla SIAARTI (Società Italiana Anestesia Analgesia e Terapia Intensiva) nonché dal Ministero della Salute (DPS VI/4.6/844 del 23.12.1997) dal Consiglio Superiore di Sanità (provvedimento del 17/6/1998) e dall’Assessorato alla sanità della Regione Emilia Romagna (circolare n. 18 prot. 37755/BAS/TG/dg del 16 settembre 1999).

 Terapia indispensabile, urgente e indifferibile (Pz. Degente)

•      Intossicazione da monossido di carbonio

•      Embolia gassosa arteriosa

•      Incidenti da decompressione 

Protocolli terapeutici approvati a carico SSN

•      Infezioni necrosanti progressive di cute e tessuti molli

•      ulcere cutanee ischemiche in pazienti diabetici e/o arteriopatici

•        Traumi complessi:

o        Ischemia traumatica acuta

o        Sindrome compartimentale

o        Gravi fratture esposte

•      Osteomielite refrattaria cronica

•      Lesioni dovute a radio terapia:

o        Ulcere cutanee

o        Necrosi e infezioni ossee

o        Cistiti e proctiti emorragiche

o        Profilassi dell’estrazione dentaria su mandibola irradiata

•      Innesti cutanei e lembi muscolo-cutanei compromessi

•      Ipoacusia improvvisa

•      Osteonecrosi asettica

 

Indicazioni terapeutiche non a carico SSN

•      Traumi cerebrali acuti e cronici, stroke cronico

•      Ulcere cutanee croniche non ischemiche e non infette

•      Fratture a rischio e ritardi di consolidamento

•      Retinopatia diabetica, Retinopatia pigmentosa

•      Edema maculare cistoide e Maculopatie degenerative

•      Sindrome di Meniere, acufeni

•      Parodontopatie

•      Cefalea a grappolo

•      Fibromialgia

Tabella 2: Patologie con indicazione terapeutica all’ossigenoterapia iperbarica

In relazione a covid-19, sono di particolare interesse la documentata la capacità di OTI di ridurre, in vivo, l’adesione dei neutrofili all’endotelio vasale, riducendo l’espressione delle molecole di adesione sICAM-1 (Fildissis, 2004) e inibendo l’espressione delle β2integrine (Baiula, 2021). Inoltre, OTI contrasta l’infiammazione riducendo la produzione di interleuchine infiammatorie, TNF-α, IL-6, and IL-10, (Halbach, 2019) ed esercita un’azione citoprotettiva nei confronti dei danni da ischemia-riperfusione (Godman, 2010). Infine, OTI stimola la riparazione tissutale mediante la mobilizzazione delle cellule staminali del midollo osseo attraverso la produzione di ossido nitrico (Lee j, 2006).

Tollerabilità, controindicazioni ed eventi iatrogeni

OTI è una terapia ben tollerata,con poche controindicazioni cliniche e pochi eventi iatrogeni ad essa correlati. Le controindicazioni assolute sono l’asma bronchiale grave in atto non trattata e lo pneumotorace non drenato; quelle relative sono le disfunzioni della tuba uditiva di Eustachio che compromettono la possibilità di compensare l’orecchio medio e gravi forme di epilessia non controllate dalla terapia anticomiziale.

Gli eventi iatrogeni più comuni cono i barotraumi auricolari, per lo più di lieve entità, conseguenti alla erronea esecuzione delle manovre di compensazione.

La respirazione di ossigeno iperbarico può comportare l’insorgenza di neuro tossicità (effetto Paul Bert) che si manifesta come una crisi tonico clonica generalizzata, ad evoluzione autolimitante e che deve essere gestita con la sola sospensione della respirazione di ossigeno. Tale evento è strettamente connesso alla pressione ambientale e in camera iperbarica è del tutto eccezionale per le pressioni utilizzate in terapia (Heyboer, 2014). La tossicità polmonare dell’ossigeno (effetto Lorrain Smith) non è attesa durantel’ossigenoterapia iperbarica per i tempi di esposizione all’ossigeno troppo brevi.

Razionale terapeutico

I momenti patogenetici fondamentali di Covid-19 sono la marcata ipossiemia e l’esagerata risposta infiammatoria dell’ospite. OTI è in grado di indurre concentrazioni arteriose e tissutali di ossigeno talmente elevate, non solo da correggere l’ipossia ematica e tissutale, ma anche da stimolare effetti biochimici di contrasto all’infiammazione e allo stress ossidativo e di favorire la riparazione tissutale reclutando le cellule staminali midollari.

Ci sono pochi dubbi riguardo al fatto che OTI, impiegato nella fase acuta di Covid-19,possa essere in grado di correggere l’ipossia tissutale e in base ai lavori scientifici sopra citati, sembra logico supporre che possa contrastare efficacemente l’infiammazione e lo stress ossidativo; ciò che ancora deve essere dimostrato è che queste azioni terapeutiche siano efficaci nel prevenire i danni indotti dal virus Sars-Cov2 evitando il ricorso a supporti terapeutici invasivi,l’insufficienza multiorgano e riducendo i decessi.

Stato dell’arte 

L’approccio terapeutico maggiormente utilizzato è quello di prevedere un ciclo OTI per i pazienti con malattia moderata o grave allo scopo di prevenire l’intubazione tracheale. Attualmente, nel mondo sono stati attivati 12 studi per verificare l’efficacia di OTI nel trattamento di Covid-19; gli studi registrati sono iscritti nel database di ClinicalTrials.gov e visionabili al link: https://lnkd.in/dEZmkBW

Ciò nonostante, in letteratura sono disponibili solo alcuni lavori.

Unico trial ad oggi pubblicato (Gorenstein, 2020) riguarda 20 casi selezionati presso NYU Winthrop Hospital dal 31 Marzo al28 Aprile 2020. I pazienti hanno ricevuto ossigeno 100% a 2 ATA per 90 minuti in camera monoposto e sono stati confrontati con un’analoga popolazione (60 pazienti) accettata nello stesso periodo e sottoposta a terapia standard. Dei 20 pazienti sottoposti ad OTI, il 10% (2 pazienti) ha necessitato di essere intubato ed è deceduto mentre il 90% è guarito e ha potuto essere dimesso; nel gruppo di controllo, 60 pazienti, il 30% è stato intubato, il 22% è deceduto e un ulteriore 5% al termine del periodo di osservazione è rimasto ricoverato.

Gli altri studi disponibili sono case report.

Thibodeaux descrive 5 casi di Covid-19 moderato severo sottoposti a 5 sedute OTI a 2.0 ATA per 90 minuti ottenendo miglioramento della saturazione, normalizzazione della frequenza respiratoria e stabilizzazione clinica, senza che nessun paziente abbia necessitato di essere intubato (Thibodeaux, 2020). Questi risultati sono i medesimi ottenuti da Zhou a Wuhan in Cina.

Un altro report (Guo, 2020) riporta buoni risultati su 2 pazienti maschi di 57 e 64 anni, con insufficienza respiratoria (frequenza respiratoria RR ≥30 respiri/minuto; saturazione al pulsossimetro SpO2 ≤93% a riposo e rapporto PaO2/FiO2 ≤300 mmHg) trattati per 7 giorni a 1,5ATA con fiO2 >95% ottenendo miglioramento della dispnea già dopo la prima seduta e stabilizzazione alla settima giornata.

In occasione di un webinar della EUBS (European Underwater Baromedical Society) dello scorso 10 marzo 2021, sul tema OTI e Covid sono stati presentati risultati preliminari molto promettenti, ma non ancora pubblicati, di studi in corso in diverse università; hanno esposto Sylvain Boet dell’Università di Ottawa, Andres Kjellberg del Karlolinska University Hospital e Jean-Eric Blatteau del Ste Anne Military Hospital di Tolone.

I pochi dati disponibili sono incoraggianti e poiché la posta in gioco e molto alta, ritengo auspicabile che si possano effettuare ulteriori studi per verificare se OTI possa essere utile per prevenire l’intubazione tracheale e ridurre i decessi nei pazienti con insufficienza respiratoria da Covid-19.

OTI e la sindrome post Covid

Abbiamo visto che dopo la guarigione clinica da covid-19 molti pazienti continuano a presentare un corteo sintomatologico multiforme e spesso invalidante. Tale condizione viene comunemente definita long covid. I sintomi più frequenti sono la fatica, la debolezza muscolare, l’affanno, i disturbi cognitivi e del tono affettivo. I pazienti che accusano questi problemi sono alla ricerca di una soluzione efficace poiché non esistono terapie utili ad accelerare la ripresa.

La fondazione GIMBE ha tradotto e pubblicato le “Linee guida per gestire la long term COVID-19” che definiscono la terminologia in uso, dettagliano la sintomatologia descritta e offrono importanti informazioni sulla diagnostica e sul monitoraggio clinico e strumentale, ma non offrono suggerimenti terapeutici. (GIMBE, 2021 https://www.evidence.it/articolodettaglio/209/it/568/linee-guida-per-gestire-la-long-term-covid19/articolo ). In Israele, il Prof.Shai Efrati e il Dr.Shani Zilberman-Itskovich hanno fatto partire un trial randomizzato con gruppo di controllo volto a valutare l’efficacia di OTI per il trattamento della sindrome post covid.

Il lavoro, iniziato nel gennaio di quest’anno, prevede l’arruolamento di 70 pazienti maggiorenni con persistenza di sintomatologia clinica oltre 3 mesi dopo la diagnosi di covid-19; i pazienti verranno sottoposti a 40 sedute OTI da 90 minuti con fiO2 100% a 2 ATA. L’obiettivo primario dello studio sarà la valutazione dei disturbi cognitivi mediante l’impiego di test computerizzati, mentre obiettivi secondari saranno la valutazione del restante corteo sintomatologico mediante test validati e valutazione dell’attività cerebrale mediante moderne tecniche di risonanza magnetica nucleare.

Lo studio è registrato nel database di ClinicalTrials.gov e visionabile al link precedentemente riportato. Al Centro iperbarico di Bologna, abbiamo potuto effettuare l’osservazione occasionale degli effetti di OTIin alcuni pazienti sintomatici per gli esiti di covid-19 e sottoposti a terapia iperbarica per altre patologie. I risultati sono stati molto incoraggianti poiché i pazienti hanno riferito un rapido miglioramento dei disturbi cognitivi, della fatica e dell’affanno già dopo poche sedute di terapia. Ovviamente, è presto per trarre conclusioni ma, in base alla esperienza acquisita, siamo fiduciosi che lo studio del Prof. E frati possa dare risultati positivi.

ossigenoterapia iperbarica e covid - img2

Bibliografia

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Medical News Sociologia

La relazione psicosociale tra tifo e violenza è purtroppo una delle più frequenti e conosciute in ambito sportivo. Secondo Simons & Taylor (1992) la violenza all’interno del tifo sportivo, in particolare nel mondo del calcio, può essere definita come l’insieme di quei comportamenti messi in atto a scopo distruttivo o ingiurioso durante un evento sportivo da spettatori di parte, che possono essere causati da fattori personali, sociali, economici o di competizione.

Partendo da questa definizione, possiamo dire che, in ambito psicologico, sono state ipotizzate una serie di motivazioni inerenti le cause di questa stretta e frequente relazione tra tifo e violenza. Capire perché un comportamento del genere si mantiene nel tempo, infatti, permette non solo di comprenderlo sotto un profilo scientifico e conoscitivo, ma anche e soprattutto di prevenirlo da un punto di vista psicosociale.


Autore

Dott.ssa Annamaria Venere – Sociologa Sanitaria – Criminologa Forense – Socio AICIS (Associazione Criminologi per l’Investigazione e la Sicurezza). Amministratore Unico: AV eventi e formazione – Direttore editoriale: Medicalive Magazine – Catania – annamariavenere.it.

[dropcap color=”#008185″ font=”0″]C[/dropcap]ome anticipato, il fenomeno della violenza all’interno degli stadi fa rimando a una serie di fattori causali che possono essere trovati all’interno della società, nella cultura di riferimento o nell’appartenenza a un gruppo. In termini psicosociali, il comportamento violento del tifo sportivo è visto come un rituale, o come l’esito di meccanismi inconsci della persona che cerca di manifestare il proprio desiderio di affermazione identitaria, attraverso l’esasperazione della competitività e la differenziazione dagli altri (le tifoserie opposte). Cosa che magari, all’interno della società, non è riuscito a fare per una serie motivazioni e frustrazioni psicologiche che possono essere di tipo familiare, lavorativo o sociale in generale (Maniglio, 2006).

tifo e violenza - img1I comportamenti di violenza nel tifo, quindi, sono orientati a uno scopo preciso: quello di autoaffermazione identitaria dell’individuo (Castrelfranchi e Miceli, 2002).

Stiamo parlando di un processo che spinge l’individuo a identificarsi in modo estremo con la propria squadra, probabilmente poiché manca egli stesso di una sua identità psicosociale precostituita. L’identificazione estrema con propri beniamini gli permette così, grazie al supporto indiretto del gruppo di tifosi di cui fa parte, di non sentire questo vuoto interiore, anche a costo di manifestare comportamenti estremi e violenti (Bianco, 2007). Nell’ambito del tifo violento, tale ricerca di autoaffermazione identitaria, assume ancora più senso e sicurezza, poiché la componente intenzionale dell’individuo è “protetta” dallo stesso gruppo di cui fa parte (una precisa tifoseria o gli ultrà), che gli garantisce anonimato e assenza di responsabilità diretta dei propri comportamenti.

La dimensione gruppale nel tifo violento: gli ultrà

All’interno del gruppo si generano dei meccanismi inconsci psicosociali che portano un soggetto ad assumere e giustificare comportamenti che individualmente non compierebbe, poiché non accettati sotto un profilo morale. I fenomeni gruppali, in un certo senso, giustificano la violenza.

Nel nostro caso, il gruppo di tifosi violenti è assimilato spesso agli ultrà.

A differenza dei semplici tifosi, il “modello ultrà” si caratterizza per una continua ricerca di differenziazione e di competizione estrema con le tifoserie concorrenti. Gli ultrà più che alla partita in sé, infatti, sono interessati ai riti e alle pratiche del tifo, con ostilità e freddezza. Il tifo non serve, peraltro, solo per aiutare la propria squadra a vincere, ma anche per intimidire e aggredire la tifoseria avversaria. In ambito sportivo, gli ultrà rappresentano in genere il gruppo di riferimento che consente al singolo soggetto di esprimere con sicurezza la propria autoaffermazione identitaria di cui sopra o, in alcuni casi, la propria rabbia sociale (Balestri & Viganò, 2004).

All’interno di contesti festosi e momenti di aggregazione collettiva come gli stadi, d’altronde, gli individui si liberano dalla propria maschera sociale per identificarsi con gli scopi del gruppo di cui fanno parte. Gli ultrà, essendo caratterizzati da competizione, aggressività e autoaffermazione identitaria, in questa costante ricerca di autoaffermazione personale, finiscono per essere il campo sociale prediletto per manifestazioni inelaborate di rabbia e violenza degli individui (Russo, 2016) southafrica-ed.com.

tifo e violenza - img2

La prevenzione sociale del tifo violento

Le ragioni sopra esposte, alla base della violenza degli stadi, ammettono il fenomeno gruppale come valore esplicativo nel processo identitario di un individuo socialmente fragile. Di conseguenza, l’oscuramento dell’individualità a favore dell’identità di gruppo, fa riemergere il ruolo della motivazione individuale nel riappropriarsi delle responsabilità frammentate di origine sociale ed etica (Bianco, 2007).

Per la prevenzione sociale del tifo violento, pertanto, più che agire sul fenomeno gruppale in sé, attraverso metodi punitivi o coercitivi che non farebbero altro che inasprire le stesse rabbie sociali portate alla luce dal tifo violento, occorre agire sul singolo individuo. In particolare, identificare le ragioni psicologiche e sociali e alla base della rabbia e intervenire con strategie di riaffermazione dell’identità individuale.

Alcuni parlano, a tal proposito, di “strategie psicosociali dell’esistere” (Bianco, 2007). Ricondurre, in altre parole, la violenza nei binari dell’eticità e della responsabilità, agendo sul singolo individuo e sulle motivazioni inconsce che lo spingono a mettere in atto comportamenti violenti (Bianco, 2007).

Bibliografia

Balestri, C., Viganò, G. (2004). Gli ultrà: origini, storia e sviluppi recenti di un mondo ribelle, Quaderni di Sociologia, 34.

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Castelfranchi, C., Miceli, M. (2002). Architettura della mente: scopi, conoscenze e loro dinamica, Bollati Boringhieri, Torino.

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Simons, Y, Taylor, J. (1992). A psychosocial model of fan violence in sports, International Journal of Sport Psychology, 23.

Medical News News del giorno Psicologia

La funzione difensiva legata alla sopravvivenza biologica dell’organismo non è che una delle funzioni dello Stress che invece include, nella specie umana, tutti i contesti in cui occorre fornire energia e risorse finalizzate alle teleonomie bio-psico-sociali.


English abstract 

The currently widespread paradigm linked to Stressprovides that, in the context in which a biological threat is perceived(consciously or not) by the organism, there is a specificpsycho-neuro-endocrine activation aimed at resolving the situation to ensure thesurvival of the organism.

This paper aims to criticize this paradigm in whichthe concept of stress is limited exclusively to biological teleonomy, trying tolay the foundations for a new, more complex paradigm of stress where, inaddition to biological purposes, there are also the psychological andsocio-cultural ones characteristics of the human species.

Italian abstract 

Il paradigma attualmente diffuso legato allo Stress prevede che, nel contesto in cui viene percepita una minaccia biologica (coscientemente o meno) dall’organismo, vi sia una specifica attivazione psico-neuro-endocrina finalizzata a risolvere la situazione per garantire la sopravvivenza dell’organismo stesso. Il presente scritto ha come obiettivo la critica di questo paradigma in cui il concetto di stress viene limitato in via esclusiva alla teleonomia biologica cercando di porre le basi per un nuovo paradigma più complesso di stress dove, oltre alle finalità biologiche, trovano posto anche quelle psicologiche e socio-culturali caratteristiche della specie umana.

Autore

Dott. Massimo Agnoletti – Psicologo, Dottore di ricerca esperto di Stress, Psicologia Positiva e Epigenetica. Formatore/consulente aziendale, Presidente PLP-Psicologi Liberi Professionisti-Veneto, Direttore del Centro di Benessere Psicologico, Favaro Veneto (VE).


[dropcap color=”#008185″ font=”0″]A[/dropcap]ttualmente il modello classico di stress condiviso all’interno della comunità scientifica è quello che prevede, anche nella specie umana, l’attivazione di una specifica configurazione psico-neuro-endocrina per risolvere una situazione potenzialmente pericolosa per l’organismo.

Lo scienziato Cannon definì lo stress inizialmente nei termini di reazione fisiologica dell’organismo di fronte ad una minaccia percepita.

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Questa reazione prevedeva la percezione di uno scostamento rispetto il precedente stato fisiologico di equilibrio ed il conseguente tentativo di ripristinarlo attraverso una caratteristica attivazione fisiologica condivisa da varie specie animali.

Vari autori tra i quali Selye, Lazarus, McEwen, Chrousos, Sapolsky, in quasi un secolo di ricerche hanno arricchito di dettagli lo stesso concetto di stress (che deriva dalla parola “stringere”, “premere”) sottolineandone alcuni aspetti più di altri (per esempio l’aspetto di a-specificità rispetto l’agente stressante di alcune caratteristiche neuroendocrine attivate come risposta, la natura delle molecole implicate, etc.).

Probabilmente non c’è stato finora uno sforzo concettuale altrettanto importante per sintetizzarne il suo ruolo esplicativo spettacolarmente complesso presente nella specie umana e questo è uno dei motivi per cui è anche oggigiorno così difficile contestualizzarlo, misurarlo (estrapolando valori oggettivi) e valutarlo (positivo o negativo) nelle persone (Agnoletti, 2019; Agnoletti, 2020).

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Nella visione tradizionale, il meccanismo adattativo dello stress che sottende la particolare attivazione psico-neuro-endocrina ha una finalità puramente biologica e per questo motivo le definizioni di eustress (stress positivo) e distress (stress negativo) trovano il loro spazio logico unicamente in funzione del risultato ottenuto in riferimento alla fitness biologica dell’organismo.

In altri termini, nella versione “standard” o “classica” dello stress, la differenza tra eustress e distress viene definita in base all’efficacia nel garantire la sopravvivenza stessa dell’organismo.

Se la sopravvivenza viene garantita ristabilendo l’equilibrio precedente l’esposizione alla minaccia (di natura batterica, virale o, ad esempio, da parte di un possibile predatore) si parlerà di stress positivo, se invece la reazione comporta una diminuzione della fitness biologica (la morte, nel caso estremo) si parlerà di stress negativo.

Il paradigma standard dello stress ha naturalmente la sua declinazione “acuta”, se caratterizzata da una particolare intensa ma breve attivazione del sistema nervoso (centrale ed autonomo; rispettivamente con il possibile coinvolgimento di aree come la corteccia prefrontale, l’ippocampo e l’amigdala, e il sistema autonomo simpatico e parasimpatico) e del sistema endocrino (il cosiddetto asse ipotalamo-ipofisi-surrene), o “cronica”, se connotata da una particolare dinamica psico-neuro-endocrino-immunologica prolungata nel tempo (medio o lungo termine).

Faccio notare che in questo concetto standard di stress viene assunta implicitamente una visione puramente quantitativa dello stress nel senso che esso può essere positivo solo nel contesto “acuto” (perché l’attivazione psico-neuro-endocrina ha una durata molto limitata, infatti lo stress cronico è considerato esclusivamente come negativo, distress) e solo all’interno della finalità strettamente biologica legata alla sopravvivenza (Agnoletti, 2020).

Altrettanto interessante è notare che in questa versione dello stress non vi è alcun riferimento significativo o funzionale agli altri livelli di complessità che caratterizzano la specie umana ossia gli aspetti psicologici e socio-culturali.

In altre parole, ad esempio, che un evento stressante sia vissuto emotivamente come estremamente negativo o intensamente positivo non ha nessun rapporto funzionale con l’attribuzione del valore positivo (eustress) e negativo dello stress (distress).

Un evento dove una persona vive uno stress acuto evitando di farsi investire da un’auto generalmente viene vissuto come un intenso spavento (quindi con una connotazione estremamente negativa dal punto di vista emozionale) ma, nel paradigma classico, lo stress è considerato ugualmente come positivo perché tale connotato emotivo è comunque finalizzato a preservare la vita dell’organismo stesso.

Giusto a titolo di esempio, un attacco di panico, caratterizzato da un’attivazione psico-neuro-endocrina paragonabile a quella di uno stress acuto, non si sa bene come contestualizzarlo perché pur essendo connotato da uno stato emotivo particolarmente negativo non è riconducibile ad alcuna priorità biologica legata alla sopravvivenza per l’assenza di una minaccia oggettive presente nel “qui ed ora” del soggetto.

Una conseguenza concreta di questa visione riduzionistica dello stress è che, ad esempio, anche gli operatori sanitari del pronto soccorso non sapendo bene trattare questa tipologia di problematiche, non fanno altro che ristabilire farmacologicamente e solo temporaneamente lo stato psico-neuro-endocrino pre-panico dei pazienti non fornendo generalmente ulteriori indicazioni a coloro che vivono questi eventi particolarmente drammatici e destabilizzanti.

 

Se l’unico livello di analisi dello stress rimane quello strettamente biologico, un attacco di panico non è particolarmente pericoloso o lesivo perché non è connotato da una vera e propria minaccia oggettiva per la sopravvivenza della persona malgrado il livello di benessere psicologico e qualità di vita della persona che ne fa esperienza possa essere notevolmente compromesso.

Contestualizziamo ora, in maniera critica, la visione tradizionale dello stress che ammette in via esclusiva la sua funzione biologica difensiva.

Ormai la letteratura scientifica già disponibile ha ampiamente dimostrato quanto l’aspetto psicologico e sociale possa influenzare la fitness biologica dell’organismo fino a comprometterne anche strutture quali i cromosomi, si veda ad esempio la scienza della Psicologia Epigenetica (Agnoletti, 2018,Epel et al., 2004, Kim et al., 2020), quindi già questa constatazione evidenzia quanto miope sia considerare lo stress solo limitatamente la sua teleonomia biologica immediata.

Riguardo l’orizzonte temporale considerato dalla versione classica dello stress sono infatti convinto che, almeno in parte, il grande successo dell’attuale concetto di stress sia anche dovuto al fatto che ben si sposa con il modello biomedico fortemente focalizzato a risolvere efficacemente problematiche legate alla sopravvivenza (quindi dando la priorità alla teleonomia biologica) soprattutto nel contesto “acuto” del breve termine (pensiamo ai grandi progressi ad esempio del settore traumatologico o dei trapianti) ma molto meno adeguato nel trattare dinamiche di medio/lungo termine (si pensi ad esempio al diabete, l’obesità, etc.).

In sintesi, a mio parere, il fatto che il modello biomedico fosse già precedentemente focalizzato sullo studio della patologia e che fosse molto efficace nel trattare problematiche del breve termine, ha fornito un contesto molto coerente con il paradigma dello stress come meccanismo di difesa biologica favorendone la sua diffusione culturale.

In passato vi è stato un apprezzabile sforzo concettuale soprattutto da parte di Lazarus e Folkman (Lazarus&Folkman, 1984) nel cercare di definire la differenza tra distress ed eustress coinvolgendo la dimensione psicologica (elaborazione cognitiva) a livello di significato attribuito all’evento stressante ma si tratta sempre di una modalità che prevede un’attribuzione che avviene a posteriori rispetto un meccanismo fisiologicamente determinato, fisicamente/chimicamente connotato e che possiede di per se unicamente una funzione esclusivamente biologica.

Il “plus valore” attribuito dall’elaborazione cognitiva proposta da Lazarus e Folkmanha la possibilità di rendere positivo uno stress negativo ma possiede una connotazione limitatamente psicologica quasi indipendente dalle dinamiche fisiologiche caratteristiche dello stress.

Non si tratta quindi di una natura diversa di stress rispetto quella condivisa all’interno del modello biomedico per questo motivo l’eustress proposto da Lazarus assume più il valore di “riduzione” delle implicazioni negative dello stress cronico che di proposta di un modello alternativo di stress caratterizzato dal promuovere attivamente la salute ed il benessere psicofisico umano all’interno di un modello integrato bio-psico-sociale.

Già il grande studioso di stress Hans Selye (Selye, 1976) aveva sottolineato il fatto di considerare lo stress come un elemento imprescindibile della vita di molte specie animali (inclusa la specie umana) ma non perché non si può considerare realistico pensare ad una vita priva di stress negativo (quindi di potenziali pericoli) ma per il fatto che probabilmente considerava indispensabile per la vita la sua componente positiva (il cosiddetto stress positivo o eustress).

Personalmente sospetto che dopo aver studiato approfonditamente e per molti anni il concetto di stress, Selye si fosse accorto che il suo paradigma iniziale, basato sullo studio della reazione fisiologica conseguente l’induzione di stress di natura puramente negativa in animali quali i ratti, avvertisse la necessità concettuale di espandere l’ipotesi originaria inglobando anche altri fenomeni non riconducibili ad una visione focalizzata sulla patologia (vedi sindrome generale di adattamento)ma comprendendo invece anche gli aspetti positivi dello stress.

A mio avviso, purtroppo Selye non riuscì mai precisamente a definire concettualmente questo complesso quadro teorico che incorpora sia gli aspetti positivi che negativi dello stress con la conseguenza che tutt’oggi vi è una grande confusione concettuale, anche a livello accademico (per non parlare di quello applicativo/clinico), riguardo cosa viene considerato stress ed in particolare a cosa ci si riferisce quando si parla di eustress.

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In sintesi ritengo che la versione classica dello stress come meccanismo di difesa biologica sia corretta esclusivamente nel ristretto contesto di riferimento caratterizzato dai seguenti fattori:

  • Esposizione ad una minaccia per la sopravvivenza da parte di agenti biologici (batteri, virus, predatori, etc.) presenti (o potenzialmente presenti) nel “qui ed ora” della persona;
  • Per valutare il significato dello stress (positivo o negativo) si prenda in considerazione esclusivamente il breve termine (immediatezza) e non dinamiche temporali del medio/lungo termine;
  • L’organismo, nel momento in cui attiva la risposta di stress, si trova in una situazione in cui non sta aumentando la propria complessità informazionale(nel caso della specie umana detta complessità riguarda gli aspetti bio-psico-sociali/culturali). Sappiamo da diversi anni che i sistemi biologici sono sistemi informazionali che si modificano nel tempo aumentando la loro complessità(Barbieri, 2003; Chernavskii, 1978; Miller, 1970; Monod, 1970; Morin, 1985; Prigogine, 1976; Volkenstein). Un esempio paradigmatico di questo aumento di complessitàè lo sviluppo ontogenetico di una persona che da una cellula totipotente arriva a costituire un organismo di trilioni di cellule differenziate o, sempre nel caso della specie umana, un processo di apprendimento che per esempio conduce ad imparare una lingua straniera o una nuova attività sportiva.

In seguito a quanto appena affermato la versione classica dello stress come meccanismo di difesa biologica non è adatta a descrivere situazioni che prevedono:

  • L’assenza di una minaccia imminente (o potenzialmente tale) per la sopravvivenza rappresentata da agenti biologici (batteri, virus, predatori, etc.);
  • La valutazione del significato dello stress (positivo o negativo) in considerazione degliaspetti psicologici o socio-culturali;
  • La valutazione del significato dello stress (positivo o negativo) in considerazione di dinamiche temporali di medio/lungo termine;
  • Che l’organismo, nel momento in cui stia attivando la risposta di stress, si trovi in una situazione in cui sta aumentando la propria complessità informazionale (nella specie umana la natura di questa complessità è bio-psico-sociale).

Sebbene le implicazioni di questa nuova prospettiva dello stress siano complesse quanto apparentemente disorientanti e manchi ancora la realizzazione di un modello esaustivo, la critica costruttiva del modello classico dello stress offre potenzialmente una possibilità esplicativa molto maggiore nello spiegare comportamenti caratteristici della specie umana in particolare dove vi è una contrapposizione funzionale tra i diversi aspetti evolutivi bio-psico-sociali (Agnoletti 2004).

In riferimento alle persone, questa visione più complessa di stress prevede che il suo ruolo difensivo non è che una delle declinazioni di questo meccanismo di adattamento evoluzionistico che mobilita energie e risorse finalizzate a soddisfare tutte e tre le teleonomie caratterizzanti la specie umana: quella biologica, quella psicologica e quella socio-culturale in tutte le interazioni logiche tra di esse.

Solo in questo scenario può esserci la possibilità esplicativa di valutare, ad esempio, un comportamento come caratterizzato da stress positivo dal punto di vista psicologico (emotivo-cognitivo) anche in assenza di minacce biologiche ma nel contesto di uno sviluppo di complessità particolarmente intenso (come può essere l’esperienza del Flow) o il ruolo di stress negativo psicologico determinato da una malattia autoimmune che continuamente alimenta uno stato infiammatorio che con il passare del tempo debilita sempre più la disponibilità dopaminergica fondamentale a livello motivazionale.

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BIBLIOGRAFIA

Agnoletti, M. (2020). La differenza tra stress positivo e negativo non è solo di natura quantitativa. Medicalive Magazine, 11, 25-30.

Agnoletti, M. (2019). Nove principali errori nella visione riduzionistica dello stress. Medicalive Magazine, 10, 16-21.

Agnoletti, M. (2018). La nuova frontiera della psicologia: la Psicologia Epigenetica. State of Mind,10.

Agnoletti, M. (2004). Il modello bio-psico-culturale. Dipav, 11, 16-24.

Barbieri, M. (2003). The Organic Codes. Cambridge: Cambridge University Press. Trad. it. (2000), I Codici Organici. Ancona: PeQuod.

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Volkenstein, M.C., &Chernavskii, D.S. (1978). Information and Biology. Jour-nal of Social and Biological Structures, 1,1, 69-86.

Diritto Sanitario Medical News News del giorno

Con la recentissima sentenza 18.2.2021 n. 4424, la terza sezione civile della Corte di Cassazione torna a occuparsi delle questioni correlate alla incompleta redazione della cartella clinica.

Autore

Avv. Angelo Russo – Avvocato Cassazionista, Diritto Civile, Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania.

I FATTI

I sig.ri C.A. e F.R., in proprio e nella loro qualità di genitori di C.E., hanno convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli, la ASL Napoli (OMISSIS), il Dott. I.B. e la sig.ra M.M. per ottenere la condanna degli stessi al risarcimento dei danni (biologico del figlio e danno parentale) derivati dalle gravissime lesioni patite dal minore in data (OMISSIS) all’atto della nascita (tetraparesi spastica), previa dichiarazione di responsabilità, per negligenza, imperizia ed imprudenza, nell’intervento di estrazione del nascituro con ventosa, effettuato dal Dott. I., coadiuvato dalla ostetrica M., presso la struttura ospedaliera (OMISSIS).

Cartella medica incompleta - img 1

La sig.ra F., ricoverata alle ore 8:00 del (OMISSIS), all’epoca primipara di (OMISSIS) in stato di gravidanza alla 41esima settimana, alle ore 21:00 dava segni di imminente parto e alle ore 00:45 del giorno successivo era condotta in sala parto.

La equipe medica decideva di effettuare l’intervento con applicazione di ventosa ostetrica in presenza di una chiara difficoltà a partorire, senza operare una scelta alternativa meno rischiosa per la mamma ed il bambino in relazione al quadro clinico oramai delineatosi, sicché il piccolo E. riportava una grave asfissia con areflessia con conseguente paralisi cerebrale  infantile  che  non migliorava nel tempo, talché i due genitori dovevano costantemente provvedere alle esigenze del figlio, sconvolgendo la loro vita privata.

Nel giudizio di primo grado si sono costituiti l’ASL e il Dott. I. chiedendo il rigetto della domanda attorea, mentre la sig.ra M. è rimasta contumace.

Espletata l’istruttoria con escussione di testimoni e disposta CTU medico-legale, il Tribunale di Napoli ha dichiarato la responsabilità dell’ASL e del Dott. I. e li ha condannati in via tra loro solidale al risarcimento per complessivi Euro 2.108.544,00, oltre spese di giudizio.

Avverso la sentenza, ha proposto appello la ASL e appello incidentale il Dott. I.

Si sono costituiti i sig.ri C.- F. per chiedere conferma della sentenza, nonché la sig.ra M. per chiedere il rigetto delle domande formulate dagli appellanti nei suoi confronti.

La Corte d’Appello di Napoli ha rigettato gli appelli promossi dalla ASL e dal Dott. I., e, per quanto d’interesse, ha confermato la sentenza di prime cure in ordine alla condanna al risarcimento del danno biologico e del danno morale, e ha condannato la Azienda sanitaria e il Dott. I. alla rifusione delle spese di lite in via tra loro solidale.

La Corte d’Appello – sulla scorta degli  esiti  dell’istruzione  probatoria svoltasi in prime cure con l’acquisizione di una CTU – ha ritenuto la responsabilità del  medico per condotta negligente consistente nell’omessa “forma minimale di sorveglianza” del benessere fetale, nei 45 minuti precedenti al parto, e in particolare per mancato utilizzo del cardiotocografo o, comunque, per mancato rilievo intermittente del battito cardiaco del nascituro, consigliato dalla letteratura scientifica, rilevando che fosse altamente probabile che il corretto adempimento della prestazione sanitaria avrebbe potuto evidenziare tempestivamente la sofferenza fetale ed anticipare l’intervento estrattivo, eliminando o quantomeno riducendo gli effetti dell’ipossia, occorsa a causa del giro di cordone  ombelicale stretto al collo.

Nella sentenza si è dato rilievo al fatto che la cartella clinica, dalle ore 0,40 sino all’atto della nascita difettava di qualsivoglia annotazione valutativa, mentre sino a quell’ora risultavano tre tracciati con cardiotocografi e l’assenza di alcun fattore di rischio.

Si è data rilevanza alla testimonianza resa da una teste presente in sala parto, quale congiunta della partoriente, di professione infermiera, che ha riferito che, in quel frangente, il medico aveva assistito un’altra partoriente e lasciato la ricorrente nelle mani dell’ostetrica.

La Corte d’appello, ha ritenuto che, nel caso specifico, le parti convenute non erano state in grado di offrire la prova liberatoria, richiesta dall’art. 1218 c.c., che l’esito peggiorativo o infausto del parto sia stato determinato da un evento imprevedibile e inevitabile alla fine del periodo espulsivo, secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento, pur essendo pacifico che l’apossia era stata determinata dall’attorcigliamento del cordone ombelicale attorno al collo del nascituro.

Ha proposto ricorso per cassazione il Dott. B. I.

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LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE

Con il primo motivo, si contesta che la Corte d’Appello, facendo proprie le risultanze della CTU espletata in prime cure, avrebbe erroneamente ritenuto provato il nesso causale e la colpa del sanitario, in quanto avrebbe in tesi fondato la responsabilità del Dott. I. esclusivamente sul mancato utilizzo del cardiotocografo (CTG), sebbene – come rilevato anche dal  consulente tecnico di parte – l’omessa sorveglianza fetale mediante CTG non assuma rilievo medico-legale, sia perché questa fu eseguita fino alla fase di dilatazione completa della cervice uterina con risultato rassicurante, sia per i limiti di validità della metodica in questione, soprattutto durante il secondo stadio del parto.

La causa della sofferenza ipossico-asfittica del neonato, dunque, si sarebbe verificata alla fine del periodo espulsivo a causa di un giro di cordone stretto attorno al collo del nascituro, evento imprevedibile ed inevitabile, che limitò l’apporto di ossigeno al feto e causò i danni alla salute lamentati da parte attrice.

Si adduce la carenza di motivazione là dove la sentenza assume la mancata sorveglianza da parte del medico del benessere fetale durante l’ultima fase del parto, da un lato, sulla base di prove documentali che non esistono e, dunque, su una prova negativa ed inesistente (il silenzio della cartella clinica) e, dall’altro, sulla prova testimoniale dell’infermiera presente al parto che, “tutto sommato“, non era così dirimente della responsabilità del medico/ginecologo.

Si denuncia il mancato svolgimento del giudizio controfattuale, nell’ambito della fattispecie concreta, poichè né la sentenza, né la CTU, avrebbero motivato in ordine ad acquisizioni scientifiche indubitabili in forza delle quali poter affermare l’idoneità ex ante di un taglio cesareo eseguito d’urgenza ad impedire lo stato di successiva sofferenza del nascituro; né hanno verificato l’efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito consistente, nel caso concreto, nell’utilizzo di CTG che, infatti, non sarebbe stato in grado di accertare “del tutto” il giro di cordone stretto intorno al collo del feto.

Secondo la Suprema Corte, sul punto, la Corte di merito, nel caso concreto, con motivazione esaustiva ed esente da vizi logico-giuridici ha vagliato specificamente gli elementi costitutivi della fattispecie di inadempimento contrattuale dedotto – danno, condotta, nesso causale ritenendone la sussistenza secondo corretti principi.

In particolare la sentenza gravata dimostra di avere adeguatamente applicato il principio di diritto secondo il quale “mentre è onere del creditore della prestazione sanitaria provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento o l’insorgenza della situazione patologica e la condotta del sanitario, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio è, invece, onere della parte debitrice (il sanitario e la struttura in cui egli opera) provare la causa imprevedibile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione” (Cass., Sez. 3 -, Sentenza n. 28991 dell’11/11/2019; Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 26700 del 23/10/2018; Sez. 3 -, Sentenza n. 18392 del  26/7/2017).

Nel caso concreto, la Corte d’Appello – in adesione alle risultanze della CTU – ha ritenuto che la condotta del personale sanitario avesse determinato, “con elevato grado di probabilità”, gli esiti sfavorevoli osservati successivamente nel neonato mentre il ricorrente non aveva dimostrato l’esatto adempimento o l’impossibile adempimento per causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).

Sottolinea la Corte che “in tema di responsabilità professionale sanitaria, l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente, quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno” (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 28991 del 11/11/2019; Sez. 3 -, Sentenza n. 27561 del 21/11/2017; Sez. 3, Sentenza n. 12218 del 12/6/2015; Sez. 3, Sentenza n. 1538 del 26/1/2010).

In relazione al danno, peraltro, la Corte di appello ha ritenuto pacifico inter partes che la cerebropatia neonatale debba ricollegarsi all’ipossia avvenuta intra partum a causa dello strozzamento da cordone ombelicale, e non prima, quando vi è stato un tracciamento diagnostico che evidenziava una situazione di normalità.

Quanto alla condotta colposa del sanitario, il giudice di secondo grado la identifica “nella mancata indicazione nella cartella clinica di qualsivoglia attività di indagine diagnostica nella fase finale del parto, idonea ad evidenziare in tempo utile una sofferenza fetale e nella conseguente mancata prova di un pronto intervento da parte del medico.

Ciò in quanto, non sono state allegate alla cartella clinica, né prodotte dalle parti, le attività eseguite in sala parto dopo l’ultimo tracciato CTG delle ore 0,40, dacchè si poteva evincere una valutazione di normale decorso del parto solo fin quando le annotazioni in cartella sono state fatte (e dunque con riguardo al primo tracciato CTG e agli ultimi due – l’ultimo delle ore 0:40-), mentre per la fase finale del parto è mancata qualsiasi annotazione in cartella clinica delle attività medico-sanitarie espletate e, comunque, vi è una testimonianza circa la mancanza di adeguata sorveglianza da parte del medico sulla partoriente, lasciata nelle mani di un’ostetrica per assistere un’altra partoriente nel frattempo sopraggiunta in sala.”

L’omessa sorveglianza sul benessere fetale in un arco temporale di quarantacinque minuti non è collegata esclusivamente al fatto che non risultino ulteriori CTG ma ad ulteriori dati obiettivi osservati, e in particolare al fatto che:

  1. i) non risulta essere stata effettuata l’auscultazione intermittente del battito fetale con stetoscopio di Pinard o strumento Doppler, da ripetersi ogni 15 minuti nel primo stadio del parto ed ogni cinque minuti nel secondo stadio come  consigliato da tutte le più autorevoli linee guida internazionali e nazionali, comprese le “Linee-guida per l’assistenza alla gravidanza ed al parto normale in Regione Campania” (approvate dal Comitato tecnico-scientifico del Programma speciale D.Lgs. n. 502 del 1992, ex art. 12, comma 2, lett. b) e pubblicate sul B.U.R.C. n. 41 del 15 settembre 2003);
  2. ii) la cartella clinica risulta carente anche del partogramma (grafico sostanzialmente imposto dalle richiamate “Linee-guida per l’assistenza alla gravidanza e al parto normale in Regione Campania”), pacificamente non compilato, che invece avrebbe dovuto contenere l’annotazione non solo della dilatazione della cervice (dato comunque rilevabile dalla cartella clinica), ma anche del livello della testa fetale rispetto al canale del parto, oltre che le misurazioni del battito cardiaco fetale, della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca materna, del colore del liquido amniotico ed ogni altra indicazione utile circa l’andamento del travaglio (p. 9 della sentenza impugnata).

La Corte, infine, precisa, sul piano della causalità giuridica, che la sentenza della Corte di appello ha fatto il ragionamento dovuto, dando rilievo alla circostanza che la condotta medica avrebbe dovuto, nelle circostanze concrete, essere “vigile ed operosa” e “nel rispetto di tutte le regole e degli accorgimenti tecnici della professione sanitaria, anzichè attendista e negligente”.

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Il corretto adempimento della prestazione sanitaria avrebbe, quindi, potuto evidenziare tempestivamente la sofferenza fetale ed anticipare l’intervento estrattivo, eliminando o quantomeno riducendo gli effetti dannosi dell’ipossia.

Il comportamento omissivo del personale sanitario, pertanto, dà luogo a responsabilità perché gli indicati accertamenti, se disposti, avrebbero posto in evidenza, via via, la progressione del feto nel canale del parto ed i segni di sofferenza fetale, offrendo così al medico maggiori possibilità di avvedersi per tempo della reale condizione in cui versava il feto, e di comportarsi di conseguenza.

Il ritardo nel porre in essere ogni attività necessaria per salvaguardare la salute del feto ed il mancato rispetto delle linee guida sono da considerare, quindi, atti di negligenza.

La Corte di merito, sotto tale profilo, ha ritenuto indimostrata l’imprevedibilità ed inevitabilità dell’evento dedotta dal medico (e ciò in relazione a tutte le sopra menzionate circostanze di inadempimento ad esso imputabili e valutate nel caso concreto).

Con giudizio controfattuale ha ritenuto che la condotta di sorveglianza cui egli era tenuto, nei fatti mancata, sarebbe stata astrattamente idonea ad evitare, con alta probabilità, l’evento di danno o quanto meno a ridurne le conseguenze.

In particolare, la Corte ha ritenuto che “non è sufficiente, al fine di escludere la responsabilità del medico, accertare l’insorgenza di una complicanza, ma se ne deve dimostrare l’imprevedibilità e l’inevitabilità, nonchè l’adeguatezza  della  condotta  del medico per porvi rimedio.

Come il mancato raggiungimento di tale  prova, anche il mero dubbio sull’esattezza di tale adempimento, ricade a carico della struttura sanitaria e del medico.

A ciò si aggiunga che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui, anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato.

Principi che operano non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico tra la sua condotta e le  conseguenze dannose subite.

Il corretto adempimento della prestazione sanitaria, quindi, avrebbe potuto evidenziare tempestivamente la sofferenza fetale e anticipare l’intervento estrattivo, eliminando o quantomeno riducendo gli effetti dannosi  dell’ipossia.

Nel campo medico-sanitario, sottolinea la Suprema Corte, sussistono due cicli causali da considerare, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle. La prova della causalità materiale spetta al danneggiato e consiste nella prova, anche presuntiva, del rapporto di causa – effetto tra la prestazione professionale e la situazione patologica.

Tale prova può essere raggiunta in via presuntiva anche per il tramite di una cartella medica compilata in maniera incompleta, posto che tale circostanza non può, in linea di principio, tradursi in un danno nei confronti di colui il quale abbia diritto alla prestazione sanitaria, quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno.

La prova della causalità giuridica spetta, invece, al danneggiante il quale, ove il creditore abbia assolto al suo onere probatorio, deve dimostrare l’esatto adempimento ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, – oppure l’intervento di una causa esterna, imprevedibile alla stregua dell’ordinaria diligenza di cui all’art. 1176 c.c., comma 1, ed inevitabile sotto il profilo strettamente oggettivo e causale.