Ortopedia

L’ortoplastica nasce dall’esigenza di trattare contemporaneamente tutti i tessuti coinvolti in un evento traumatico ovvero i tessuti scheletrici e i tessuti molli.


Dott. Maurilio Bruno – Ortopedico, Gruppo Policlinico di Monza, Clinica San Gaudenzio, Novara.

DEFINIZIONE

[dropcap color=”#008185″ font=”0″]L'[/dropcap]ortoplastica nasce dall’esigenza di trattare contemporaneamente tutti i tessuti coinvolti in un evento traumatico ovvero i tessuti scheletrici e i tessuti molli.

Si tratta, quindi, non solo di una metodica terapeutica ma di un vero e proprio “atteggiamento terapeutico“ di fronte ad un vulnus complesso in cui, partendo da un quadro strettamente ortopedico – traumatologico, si richiede la presenza di competenze diverse, rappresentate da una parte dall’ortopedico sensustrictu al chirurgo plastico. Lo scopo del trattamento sinergico consente di risolvere quadri traumatici molto complessi e soprattutto di tenere conto della ricostruzione sia anatomica sia funzionale.

Gli ambiti in cui questa metodica di approccio è fondamentale sono la traumatologia complessa, l’oncologia ortopedica, l’osteomielite cronica, la paralisi post traumatica.

STORIA

Gli albori  della chirurgia ortoplastica sono legati all’opera di Tagliacozzi, Velpau, Pare, Dupuytren e Malgaigne. Questi primi maestri chirurghi divennero i padri fondatori della chirurgia ortopedica e plastica e una delle prime collaborazioni moderne fu quella tra W. Arbuthnot Lane e H. Gillies nel 1919. Lane scrisse la prefazione per il libro di testo del maggiore Gillies, e così iniziò l’era moderna della chirurgia ortopedica.

La prima definizione di ortoplastica è presente nell’articolo pubblicato da L.S.Levinnel 1993.

L’ulteriore sviluppo del concetto di ortoplastica è avvenuto con l’avvento della microchirurgia ricostruttiva. Con la descrizione di Alexis Carrel di un’anastomosi vascolare end-to-end nel 1902, nacque la disciplina della chirurgia microvascolare.

Un altro progresso fondamentale che ha portato allo sviluppo della chirurgia microvascolare fu l’uso del microscopio operatorio da Jacobson e Suarez nel 1960. Le successive evoluzioni nella strumentazione microchirurgica e i fili di sutura, portarono all’inizio dell’era microchirurgica moderna.  Con i fondamenti della microchirurgia in atto, il concetto di chirurgia di salvataggio degli arti si è ulteriormente evoluto. Nel 1968, S. Tamai ha segnalato il primo reimpianto digitale di successo.

Un capitolo a parte merita la chirurgia ricostruttiva dei nervi periferici e del plesso brachiale . Nonostante la prima descrizione di una lesione di plesso brachiale sia stata effettuata da Omero nell’Iliade (duello tra Teucro ed Ettore, libro VIII), queste lesioni non vennero riconosciute fino alla seconda metà del 19° secolo: i primi tentativi di riparazione chirurgica furono poi intrapresi alla fine del 19°- inizi del 20° secolo.

Già negli anni ’20, però, la chirurgia del plesso brachiale (che fondamentalmente consisteva in tentavi di sutura e neurolisi, cioè pulizia di aderenze cicatriziali formatesi intorno ai nervi danneggiati) venne pressoché abbandonata: i risultati erano infatti assolutamente miseri e in più vi erano state anche delle complicanze post-chirurgiche fatali.

L’italiano Augusto Bonola identificò negli incidenti motociclistici la causa principale delle lesioni di plesso brachiale dell’adulto alla fine degli anni ‘30. Con l’avvento della Seconda Guerra Mondiale si registra un aumento dei casi che portano ad un rinnovato interesse per la chirurgia del plesso brachiale, soprattutto in Gran Bretagna da parte dell’equipe di Seddon.

Sulla scia della scuola inglese, rifioriscono i tentativi di riparazione chirurgica del plesso e vengono effettuate le prime procedure con innesto e il primo tipo di transfer nervoso (trasferimento dei nervi intercostali sul nervo muscolocutaneo per tentare di ripristinare la funzione del bicipite).

Tuttavia anche in questo periodo, gli insuccessi sono prevalenti e il nichilismo terapeutico ricomincia a serpeggiare nella comunità medica fino al raggiungere il suo apice nel 1966 durante il congresso SICOT (Società internazionale di chirurgia ortopedica e traumatologica) tenutosi a Parigi: viene raggiunto un consenso unanime sulla inutilità della chirurgia del plesso brachiale in quanto, a fronte di risultati assolutamente inconsistenti, si dichiara che le lesioni di plesso sono irreparabili. Nel 1969 addirittura si arriva a ritenere come unico trattamento possibile delle lesioni di plesso brachiale l’amputazione dell’arto e il posizionamento di una protesi.

Parliamo di ortoplastica - foto 1L’introduzione del microscopio operatorio e della tecnica microchirurgica rivoluzionano la scena mondiale della chirurgia in tutti i settori e negli anni 70 si assiste anche ad una rinascita della chirurgia del plesso grazie ai tentativi pioneristici di Hanno Millesi a Vienna e Algimantas Narakas a Losanna.

Sulla loro scia altri chirurghi intraprendono nuovamente la chirurgia ricostruttiva del plesso e fioriscono le varie scuole europee: è rilevante a questo proposito il contributo della Scuola Italiana capeggiata da Ezio Morelli a Legnano e  Giorgio Brunelli a Brescia.

La rivoluzione copernicana della chirurgia ricostruttiva del plesso arriva negli anni ‘80 con la tecnica messa a punto dal francese Christophe Oberlin per re innervare il bicipite nei casi di paralisi superiore del plesso.

Da quel momento in poi vengono messe a punto ulteriori procedure che consentono di raggiungere risultati dapprima inimmaginabili nella chirurgia del plesso brachiale, campo oggi giudicato in espansione e in progressivo sviluppo.

La terza fase viene rappresentata dalla definizione dei trapianti tissutali vascolarizzati o lembi  ossei, muscolari, fasciocutanei, perforanti , tutti diventati fondamentali nel recupero delle estremità traumatizzate.

Il successo nella microchirurgia e nel reimpianto ha portato allo sviluppo dell’allotrapianto composito vascolarizzato, compresi i trapianti di mani e della faccia come il gradino più alto della scala ricostruttiva.

Insieme questi progressi microchirurgici sono diventati i pilastri della chirurgia ortoplastica.

Parliamo di ortoplastica - foto 2RAZIONALE DELLA MATERIA

Ad oggi l’ortoplastica rappresenta una vera e propria specializzazione chirurgica, una materia caratterizzata dalla competenza in tema di ortopedia e traumatologia, chirurgia plastica ricostruttiva e padronanza delle tecniche microchirurgiche.

Queste competenze possono essere patrimonio di più specialisti operanti in team o di un solo chirurgo con particolare addestramento e preparazione culturale specifica .

Sono rappresentate dalla capacità specifica di  stabilizzare e/o modificare l’anatomia dei tessuti scheletrici mediate osteosintesi interna od esterna, dalla capacità di realizzare trapianti di tessuti vascolarizzati o lembi semplici o compositi, peduncolati o liberi, e di ricostruzione dei pervi periferici e plessi mediante tecnica microchirurgica.

Si deve distinguere la necessità di risolvere la perdita di tessuti scheletrici nell’acuzie  dalla necessità di ricostruire i tessuti dopo eventi morbosi cronicizzati ovvero in elezione.

Parliamo di ortoplastica - foto 4

In acuzie:

-perdita di tessuto scheletrico  e contemporanea perdita di tessuti molli quali il mantello cutaneo, muscoli e tendini ,in particolar modo negli arti inferiori e nella mano;

in elezione:

-perdita di sostanza scheletrica  e di tessuti molli dopo demolizione oncologica;

-perdita di sostanza scheletrica dopo asportazione di focolai e sequestri osteomielitici;

-lesione dei nervi periferici e del plesso brachiale.

La necessità di risolvere le grossolane perdite di sostanza nelle fratture della tibia ha sviluppato le tecniche di trapianti peduncolati come il lembo muscolare di gemello mediale o di soleo e di trapianti liberi cosi come nell’arto superiore il lembo di perone vascolarizzato e di condilo femorale mediale.

Ma oggi sempre di piu’ a causa dell’aumentata incidenza dei tumori ossei e delle infezioni l’ortoplastica diventa una risorsa fondamentale nella chirurgia ricostruttiva per il recupero degli arti altrimenti destinati all’amputazione  e per la bonifica delle infezioni ossee croniche profonde.

Per cui quella che sembrava una necessità di collaborazione specialistica legata all’urgenza traumatologica diventa oggi sempre più legata alla chirurgia di ricostruzione in elezione. Quindi la creazione di gruppi di lavoro superspecialistici e di centri dedicati alla chirurgia ortoplastica diventa una priorità istituzionale di cui i grossi centri ospedalieri dovrebbero essere dotati.

Le lesioni dei nervi periferici e del plesso brachiale, che determinano paralisi, richiedono la ricostruzione microchirurgica mediante neuroplastiche ed innesti nervosi in emergenza o in tempi differiti. Ove non si possa ricorrere a queste tecniche microchirurgiche per l’eccesso di tempo trascorso si dovrà ricorrere a tecniche di trasposizione funzionale dei muscoli ,anch’esse tecniche di competenza ortoplastica.

Nuovo ma non ultimo capitolo in cui si va sempre più affermando la competenza ortoplastica riguarda il trattamento del dolore cronico neuropatico esito della lesione nervosa. Anche in questo caso infatti tecniche di trattamento dei neuromi traumatici dolorosi con eventuale copertura con lembi muscolari o fascio cutanei associati ad innesti nervosi vanno a rappresentare quella che oggi viene affermandosi come “chirurgia del dolore”.

In definitiva l’ortoplastica rappresenta una materia che raccoglie in sé diversissime peculiarità specialistiche assolutamente non nuove ma che mai come oggi necessitano di essere conglomerate in una vera e propria strategia operativa  con professionisti e strutture dedicate.

COSTI E BENEFICI

La creazione di un servizio di ortoplastica rappresenta una necessità moderna all’interno di una comunità ospedaliera e comunque rappresenta un punto di riferimento ultraspecialistico per il trattamento di patologie traumatiche in urgenza differibile ed in elezione per lo svariato numero di quadri patologici che richiedono la chirurgia e microchirurgia ricostruttiva.

Non vi sono in realtà costi specifici per applicare la chirurgia ortoplastica se non quelli già riferiti ad una normale gestione di un  reparto di ortopedia e chirurgia plastica, sia per quanto riguarda la degenza che la sala operatoria .Di contro la quantità di benefici che derivano dalla creazione di un servizio ortoplastico sono enormi in termini di quantità e qualità dei risultati.

La gestione contemporanea dei traumi complessi da parte di professionisti diversi ma complementari porterà a ridurre i tempi di ospedalizzazione e di occupazione delle sale operatorie nonché la possibilità di evitare per quanto possibile la chirurgia demolitiva come l’amputazione. La creazione del paziente-invalido rappresenta infatti un ulteriore costo sociale mentre la possibilità di ricostruire la funzionalità dell’arto o di risolvere una paralisi oltre che rappresentare la restituzione soggettiva alla vita biologica e di relazione avrebbe un impatto socio economico indubbiamente apprezzabile.

Parliamo di ortoplastica - foto 3

La criticità vera è di per sé rappresentata dalla difficoltà di costituire un gruppo di professionisti abili e disposti ad un pur complesso lavoro di équipe con una curva di apprendimento tecnica non breve.

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Medical News Psicologia

È possibile ipotizzare la connessione esistente tra specifici Profili Temporali e specifiche attivazioni del sistema dopaminergico della ricompensa così importante per la motivazione, le decisioni e le varie implicazioni per la nostra salute ed il nostro benessere.


English abstract 

The hypothesis proposed by us in this article is about the connection of two sectors that drive our behaviors: Time Perspective and the Dopaminergic Reward System.

Time Perspective is aninnovative sector of scientific psychology that studies how each of us relates to time. The neural activation of the Dopaminergic Reward System is a part of our brain very related to our motivation to pursue goals and generate expectations about them.

Our hypothesisproposes that specific Time Perspective configurations (called Time Profiles) correspond to specific dopaminergic Reward System patterns. Many studies in the literature converge on this hypothesis, although, none so far have empirically verified this hypothesis.

Currently, the bio-psycho-social model predicts that there is a massive integration between the biological, mental, and socio-cultural aspects that reflect the great complexity and heterogeneity of human behaviors.

The purpose of this article is to explore the possibility that solid correlation now identified concerning the specific Time Perspectives (TP) that each of us possesses, has peculiar neural, endocrine, and immune influences that can be grasped also by a specific Dopaminergic Reward System(DRS).

Italian abstract 

L’ipotesi proposta riguarda la connessione tra due settori che guidano i nostri comportamenti: la Prospettiva Temporale ed il sistema dopaminergico della ricompensa.

La Prospettiva Temporale è un settore innovativo della psicologia scientifica che studia il modo in cui ognuno di noi si relaziona nei confronti del tempo. Il sistema dopaminergico della ricompensa è una parte del cervello particolarmente connessa con la nostra motivazione, il perseguire obiettivi desiderati e generare aspettative su di essi.

La nostra ipotesi propone che specifiche configurazioni relative la Prospettiva Temporale (chiamate Profili Temporali), corrispondano a specifici pattern di attivazione del sistema dopaminergico della ricompensa.

Studi in letteratura convergono con questa tesi sebbene nessuno, finora, l’abbia verificata empiricamente.

Attualmente, il modello bio-psico-sociale prevede una massiccia integrazione tra gli aspetti biologici, mentali e socio-culturali che riflettono la grande complessità ed eterogeneità dei comportamenti umani.

Con questo lavoro intendiamo esplorare la possibilità che la solida correlazione già identificata, riguardante la specifica Prospettiva Temporale (TP) che ciascuno di noi possiede, abbia peculiari influenze neurali, endocrine e immunitarie e che possono essere colte anche da uno specifico funzionamento del Sistema Dopaminergico della Ricompensa (SDR).

Autore

Dott. Massimo Agnoletti – Psicologo, Dottore di ricerca Esperto di Stress, Psicologia Positiva e Epigenetica, Formatore/consulente aziendale, Presidente PLP-Psicologi Liberi Professionisti-Veneto, Direttore del Centro di Benessere Psicologico, Favaro Veneto (VE).

Dott. Philip G. Zimbardo – Professore emerito all’Università di Stanford. Fondatore del settore della psicologia scientifica chiamato Prospettiva Temporale.


[dropcap color=”#008185″ font=”0″]L'[/dropcap]approccio psicologico chiamato Prospettiva Temporale studia la relazione psicologica che un individuo ha nei confronti delle dimensioni temporali vissute nel presente, rispetto agli eventi passati ed alle aspettative che ha del suo futuro (Stolarski et al., 2014; Zimbardo&Boyd, 2008). Ognuno di noi pensa alle esperienze passate, presenti e future, ma è soggettiva la configurazione relativa a “quanto spesso” e “in che modo” investiamo psicologicamente, nei confronti di queste specifiche dimensioni temporali, le energie.

Zimbardo, dopo decenni di ricerca scientifica, ha sviluppato un questionario specifico, lo ZTPI (Zimbardo Time Perspective Inventory), per misurare il peculiare rapporto che ogni singolo soggetto ha con il tempo (chiamato anche Profilo Temporale).

Ogni Profilo Temporale è definito dalla particolare configurazione di sei dimensioni temporali che si sono dimostrate significative nel riconoscere gli specifici stili cognitivo-emotivi e motivazionali legati alla personale costruzione del tempo.

Due dimensioni temporali sono legate alle esperienze passate negative e positive (chiamate rispettivamente il “Passato Negativo” e il “Passato Positivo”), due riguardano il presente (il “Presente Fatalistico” legato a quanto ci sentiamo protagonisti attivi degli eventi significativi che viviamo, e il “Presente Edonistico” che misura la tendenza nel ricercare attivamente le esperienze piacevoli ed evitare quelle spiacevoli) e, infine, la dimensione temporale del “Futuro” (l’insieme delle aspettative sui progetti e gli obiettivi che perseguiamo).

Ai fini di questo lavoro, è utile ricordare che, ad esempio, il profilo temporale caratterizzato da un valore significativamente elevato nella dimensione del Futuro è correlato positivamente sia alla pianificazione che al prevedere le conseguenze possibili delle scelte e delle decisioni effettuate.

Ciò significa che spesso queste persone tendono a concentrarsi sulle gratificazioni a medio e lungo termine invece che a breve termine e quindi sono preferenzialmente caratterizzate da un’attivazione neurale del SDR finalizzata al raggiungimento di obiettivi a medio e lungo termine.

Diversamente, il Profilo Temporale caratterizzato da un valore elevato di Presente Edonistico è correlato a comportamenti più focalizzati sulla percezione temporale attuale dei soggetti, quindi essi sono molto più motivati a raggiungere obiettivi a breve termine rispetto a quelli del medio e lungo termine.
Questa predisposizione decisionale fa si che siano preferenzialmente caratterizzati da un’attivazione neurale del SDR finalizzata al raggiungimento di obiettivi a breve termine.

Può essere interessante notare che la differenza decisionale e comportamentale tra coloro che sono più orientati al Futuro e coloro che sono più focalizzati sul Presente può essere ben rappresentata dal famoso “esperimento dei marshmallows” ideato dallo psicologo dell’università di Stanford Walter Mischel che identificò nell’autocontrollo la capacità di posticipare le gratificazioni e quindi le ricompense alle quali ambiamo (Mischel, 2014).

L’autocontrollo che Mischel ha descritto come fattore fondamentale per ritardare la gratificazione è espresso dal punto di vista neuro-funzionale dall’area cerebrale della corteccia prefrontale che fa parte, a sua volta, della rete neurale del SDR (Baik, 2020).

Il Profilo Temporale caratterizzato da un alto valore di Passato Negativo è invece positivamente correlato a stati depressivi e ruminazioni (pensieri emotivamente negativi ricorrenti rivolti ad eventi del proprio passato) e ciò significa che queste persone sono caratterizzate da un basso livello motivazionale generale che denota un basso livello di attivazione neurale del SDR.
Ogni Profilo Temporale specifico influenza il modo in cui facciamo le scelte, i nostri comportamenti e lo stile di vita che adottiamo, determinando la nostra qualità di vita e il nostro modo caratteristico di gestire lo stress.

Le recenti scoperte della PNEI (approccio psico-neuro-endocrino-immunologico) hanno ora chiarito la natura altamente integrata e interconnessa del nostro organismo in cui gli aspetti biologici influenzano quelli mentali tanto quanto il dominio psicologico può modificare la natura di quello più puramente biologico(Agnoletti, 2017, Bottaccioli & Bottacioli, 2017; Conklin et al., 2015; Epel et al., 2004).

In questo senso, sono già stati evidenziati in letteratura i collegamenti della Prospettiva Temporale con le numerose implicazioni psicofisiologiche esistenti (Agnoletti, 2016a; Agnoletti 2016b; Stolarski et al., 2014).

In questo contesto altamente integrato, è interessante notare il ruolo fondamentale del Sistema Dopaminergico della Ricompensa nel guidare i nostri comportamenti e le nostre scelte di vita quotidiane.
Il SDR è stato a lungo frainteso, anche a livello accademico, perché spesso è stato confuso con la sensazione di piacere stessa (connotata quindi nel “qui ed ora” presente).

Questo bias ha implicato che l’attivazione neurale SDR fosse erroneamente associata unicamente alle esperienze edonistiche stesse, ma recenti ricerche mostrano invece che il vero ruolo di SDR è molto più complesso e può essere rappresentato da un sistema di apprendimento predittivo volto a raggiungere obiettivi significativi che perseguiamo, anche di natura non edonistica (Agnoletti, 2019a).

Il funzionamento del DRS varia a seconda delle esperienze percepite dal sistema nervoso centrale (inteso anche come esposizione a molecole endogene che ne influenzano il comportamento come le citochine proinfiammatorie) attraverso processi neuro-plastici consentiti dalle dinamiche epigenetiche che ne ri-modellano continuamente l’architettura neurale (Agnoletti, 2019b; Klankeret al., 2013; Kobayashi&Hsu, 2019; Treadway, Cooper & Miller, 2019).

Questi processi neuro-plastici estremamente dipendenti dal tipo di esperienze che viviamo sono la chiave per spiegare l’enorme eterogeneità comportamentale umana sia tra gli individui che durante il corso ontogenetico della vita di una persona.

Le reti neurali coinvolte nel SDR realizzano un apprendimento associativo tra l’aspettativa ed il raggiungimento dello scopo perseguito (non necessariamente correlato al piacere edonistico), modificando epigeneticamente i neuroni che includono i recettori della dopamina nella loro struttura cellulare.

Da un punto di vista esperienziale/fenomenologica, l’attivazione del SDR è più connessa con la sensazione percepita di controllo (derivante dalla corrispondenza tra l’attesa e l’obiettivo raggiunto) che con quella di puro piacere sperimentato nel “qui ed ora”, caratteristica del momento in cui vieneeffettivamente raggiunto lo scopo stesso (Agnoletti, 2019a; Salpolsky, 2017).

Recenti esperimenti scientifici ci dimostrano, infatti, che è possibile essere disposti a rinunciare ad una ricompensa edonistica (che attiverebbe il percorso neuroanatomico chiamato “like”) per ottenere preventivamente informazioni sulla ricompensa stessa (Bromberg-Martin &Hikosaka, 2009), o per conoscere informazioni relative ipotetici scenari futuri (Niv& Chan, 2011), o per soddisfare la curiosità di aver ottenuto informazioni anche apparentemente di scarsa utilità immediata (Kobayashi&Hsu, 2019).

Pertanto, diversamente da quanto sostenuto per molti anni, l’attivazione del SDR non è peculiare solo dei comportamenti edonistici legati a qualche forma di dipendenza patologica (si pensi, ad esempio, al consumo di alcol o di sostanze psicoattive o di abuso nel consumo di cibo “comfort food”, etc.) ma anche di quelli che promuovono buone e sane abitudini per la nostra salute (si pensi ad esempio alla pratica di una corretta attività motoria, una sana alimentazione, le esperienze di Flow, etc.) (Agnoletti, 2019a).

I meccanismi neurali che svolgono funzioni motivazionali relativela ricerca attiva della ricompensa e quelli relativi al piacere conseguente il raggiungimento della ricompensa stessa sono diversi (Berridge, 2004; Berridge, 2007; Berridge&Aldridge, 2008; Robinson et al., 2016) anche se possono essere molto legati da un punto di vista esperienziale se il contesto temporale di riferimento è molto limitato.

Quando, ad esempio, siamo coinvolti in un’attività sessuale, gustiamo il nostro piatto preferito o pratichiamo la nostra attività di Flow prediletta, nel nostro cervello si verifica un rilascio massiccio e istantaneo di dopamina, precedentemente prodotta nel tronco cerebrale, nel tratto mesolimbico del SDR che attiva l’area tegmentale ventrale (VTA), il nucleo accumbens ed altre parti del network dopaminergico come lo striato dorsale, l’amigdala e la corteccia prefrontale.

Più precisamente, è attualmente accettato che il tratto mesolimbico del SDR, caratterizzato dal dare maggiore rilevanza alla gratificazione immediata legata allo stimolo condizionato presente nel “qui e ora”, scambi continuamente segnali neurali con il sistema esecutivo espresso dalla corteccia prefrontale (PFC), responsabile di comportamenti complessi come la risoluzione dei problemi, la pianificazione, le scelte e le decisioni che coinvolgono ipotetici scenari futuri.
In alcune teorie è presente anche una terza parte, rappresentata dall’insula, che avrebbe la funzione di mediazione tra i due principali sistemi del SDR appena citati.

Le continue interazioni funzionali tra questi due sistemi neurali (tratto mesolimbico e la corteccia prefrontale) sono influenzate dalle nostre esperienze le quali determinano cambiamenti epigenetici neurali nel nostro SDR.
Considerando globalmente quanto finora descritto, sia per quanto riguarda il contesto psicologico che per quello più fisiologico, possiamo avanzare un’ipotesi riguardante le implicazioni della Prospettiva Temporale sull’attivazione neurale del Sistema Dopaminergico della Ricompensa.

Più specificamente, possiamo avanzare l’ipotesi che se ogni Profilo Temporale è caratterizzato da una specifica configurazione psico-neuro-endocrino-immunologica allora, a parità di altre condizioni, ciò si potrebbe riflettere in una specifica e prevedibile attivazione neurale del SDR.

Per comprendere più facilmente la connessione proposta dalla nostra ipotesi, ricordiamo qui che le persone focalizzate sul Futuro nel contesto di Prospettiva Temporale sono più inclini a ritardare la gratificazione al fine di ottenere i loro obiettivi a medio/lungo termine, il che significa che la loro rete neurale SDR è più attivanel raggiungimento di obiettivi che non si collocano nel momento presente del “qui e ora”.

La rete neurale SDR delle persone orientate al Futuro dovrebbe essere caratterizzata da un settaggioneuro-funzionale che predilige obiettivi di medio/lungo termine, ciò significa che, all’interno della rete SDR, la corteccia prefrontale ed il tratto mesolimbico sono entrambi frequentemente attivi da un punto di vista neurale.
Questa prospettiva è coerente con almeno due fonti informative indipendenti.

La prima è che dai dati statistici raccolti in più di trent’anni di ricerca sappiamo che le persone orientate al Futuro sono più positivamente correlate con un alto livello di autocontrollo ed un basso livello di impulsività (Zimbardo&Boyd, 2008).

La seconda fonte di informazioni è rappresentata dai dati convergentile neuroscienze sociali, cognitive ed emotiveche rivelano che l’interazione tra la corteccia prefrontale e l’elaborazione della ricompensa sottocorticale è cruciale per l’autoregolazione (Kelley et al., 2015; Berkman, 2017; Wagner e Heatherton, 2017).
Numerosi studi hanno dimostrato che un efficace autoregolazione consiste in un controllo del tipo “top-down” espresso dalla corteccia prefrontale sulle regioni di ricompensa sottocorticali coinvolte (Dambacher et al., 2014; Lopez et al., 2017).

Al contrario, il fallimento dell’autoregolazione si verifica quando il controllo “top-down” realizzato dalla corteccia prefrontale sulle aree di ricompensa sottocorticali è scarso e/o comunque sbilanciato rispetto alle regioni neurali sottocorticali del SDR (Lopez et al., 2014; Meyer& Bucci, 2016).

Diversamente e coerentemente con la nostra ipotesi, il Profilo Temporale caratterizzato da un’elevata dimensione temporale di Presente Edonistico, quindi correlato a comportamenti finalizzati ad obiettivi più rivolti al breve termine, dovrebbe essere caratterizzato da una rete neurale SDR maggiormente attivata per il raggiungimento di obiettivi focalizzati sul “qui e ora” quindi sul momento presente.

La rete neurale SDR delle persone focalizzate nel Presente Edonistico dovrebbe essere caratterizzata da un funzionamento per default che promuove maggiormente obiettivi a breve termine pertanto, all’interno della rete SDR, la corteccia prefrontale dovrebbe essere meno attiva in assoluto e/o meno dominante rispetto alle regioni sottocorticali (tratto mesolimbico).

Coerentemente con questa previsione sappiamo che le persone orientate al Presente Edonistico sono più positivamente correlate con un basso livello di autocontrollo, un alto livello di impulsività e di possibile sviluppo di dipendenze negative (Zimbardo&Boyd, 2008; Kelly, Zimbardo&Boyd, 1999) e che, nel momento in cui raggiungono la ricompensa, gli individui patologicamente dipendenti da sostanze hanno mostrato una maggiore attivazione delle regioni di ricompensa sottocorticali (Luijten et al., 2017).

Inoltre, sempre secondo la nostra ipotesi, le persone focalizzate sul Passato Negativo sono positivamente correlate con i sintomi della depressione (Lefèvre et al., 2019, Zimbardo&Boyd, 2008) che a loro volta sono correlati con la disfunzione del Sistema Dopaminergico della Ricompensa (Martin-Soelch, 2009; Schlaepfer et al., 2014; Naranjo et al., 2010).

I sintomi della depressione sono connotati da una diminuzione dell’esperienza di piacere o dell’interesse per attività precedentemente apprezzate (si pensi ad esempioall’anedonia) come il lavoro o gli hobby, e sono accompagnati da una diminuzione generaledella motivazionemolto connessa al funzionamento ed all’attivazione neurale del SDR.
Quindi, sintetizzando, la nostra ipotesi consiste nel sottolineare il possibile legame tra:

• persone orientate al Futuro ed il funzionamento del SDR caratterizzato da un’alta attivazione neurale di default tendente a perseguire obiettivi di medio/lungo termine con un’alta attivazione assoluta e/o relativa della corteccia prefrontale rispetto il tratto mesolimbico,

• persone focalizzate sul Presente Edonistico ed il funzionamento del SDR caratterizzato da un’alta attivazione neurale di default tendente a perseguire obiettivi di breve termine con una bassa attivazione assoluta e/o relativa della corteccia prefrontale rispetto il tratto mesolimbico.

• persone orientate al Passat Negativo con una bassa attivazione neurale generale del SDR.
Potrebbe essere interessante per un futuro lavoro l’esplorazione delle possibili implicazioni teoriche che la Balanced Time Perspective (Prospettiva Temporale Bilanciata), cioè la configurazione ottimale del Profilo Temporale contemplata dall’approccio temporale, ha nell’ambito del Sistema Dopaminergico della Ricompensa, soprattutto relativamente la resilienza, la gestione dello stress e le sue potenziali ricadute immunologiche (Agnoletti, 2021) così cruciali per la nostra salute e qualità della vita.

Ovviamente, anche se esiste già una letteratura convergente con l’ipotesi della connessione tra specifici Profili Temporali e specifiche configurazioni di SDR, il passo successivo è quello di verificare empiricamente l’ipotesi stessa oltre ad affinare i dettagli delle possibili connessioni tra questi due settori della psicologia e della fisiologia.
Speriamo che la nostra proposta teorica qui presentata possa servire da stimolo ad alcuni nostri colleghi nel perseguire le interessanti conferme empiriche richieste.

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Medical News Sociologia

Per effettuare un’analisi approfondita inerente il tema della sessualità nei disabili, occorre integrare il modello medico biopsicologico con quello socio-culturale.


Autore

Dott.ssa Annamaria Venere – Sociologa Sanitaria – Criminologa Forense – Socio AICIS (Associazione Criminologi per l’Investigazione e la Sicurezza). Amministratore Unico: AV eventi e formazione – Direttore editoriale: Medicalive Magazine – Catania – annamariavenere.it.

[dropcap color=”#008185″ font=”0″]P[/dropcap]er effettuare un’analisi approfondita inerente il tema della sessualità nei disabili, occorre integrare il modello medico biopsicologico con quello socio-culturale. Il modello medico della disabilità, in vigore fino agli anni ’70 del secolo scorso, vedeva la disabilità come un insieme di menomazioni psicofisiche individuali: la sessualità, di conseguenza, era considerata un problema marginale.

Adottare il modello sociale, invece, significa considerare la disabilità come un prodotto (anche) sociale, piuttosto che l’esito di un’esclusiva menomazione fisica o psichica. Un processo che oggi potremmo definire di normalizzazione e deistituzionalizzazione della persona disabile (Malaguti, 2011).

Il rifiuto nell’immaginario sociale dei bisogni sessuali presenti nella disabilità, si fonda su reticenze, silenzi e ipocrisie che possono avere compromissioni nell’invio delle informazioni e dei servizi utili per la tutela della salute e dei diritti umani. La sessualità delle persone con disabilità, infatti, non in linea ai modelli dominanti, viene bandita a una dimensione che troviamo fuori dalla relazionalità, spesso associata a pratiche dell’igiene personale o delle funzioni corporee.

Sotto un profilo generale, l’OMS (2001) ha equiparato il diritto alla salute sessuale ai diritti umani in generale. Con ciò la sessualità è entrata a far parte a pieno titolo delle componenti che creano il benessere di una persona, analizzata anche in funzione psicoeducativa e sociale.

In altre parole, parlare di sessualità comporta affermare che tutte le persone, libere da coercizione, discriminazione e violenza, incluse quelle disabili, hanno diritto a:

  • ottenere il più alto livello possibile di salute sessuale, compreso l’accesso ai servizi di cura della salute sessuale e riproduttiva;
  • cercare, ricevere e diffondere informazioni in relazione alla sessualità;
  • educazione sessuale;
  • il rispetto dell’integrità fisica;
  • la scelta del partner;
  • decidere se essere sessualmente attivi o no;
  • relazioni sessuali consensuali;
  • matrimonio consensuale;
  • decidere se e quando avere bambini;
  • perseguire una vita sessuale soddisfacente, sicura e piacevole.

Poiché, tuttavia, la sessualità rappresenta una componente essenziale dello sviluppo di qualsiasi essere umano, in termini emozionali, etici, fisici, psicologici, sociali e spirituali dell’identità, a tale componente è riconosciuto anche un ruolo preponderante nella costruzione dell’autostima, della percezione di sé e del proprio ruolo sociale. Secondo alcuni autori, infatti, permangono una serie di pregiudizi sociali inerenti la sessualità del disabile, come ad esempio: non hanno le capacità di imparare la sessualità; sono esseri asessuati o ipersessuali; non hanno gli stessi bisogni dei normodotati; sono spesso abusatori; educarli alla sessualità potrebbe essere pericoloso (Sirigatti et al., 2008).

L’idea del “disabile asessuato” appartiene, il più delle volte, anche a genitori e operatori sanitari e di assistenza. I genitori, a causa dell’iperprotezione, sono propensi a evitare che il figlio entri in contatto con i propri compagni anche al di fuori di contesti sociali definiti (come la scuola), per timore di discriminazione o di pericoli alla sua salute, contribuendo ad una maggiore inibizione della crescita sociale e sessuale (Venere, 2020).

Per contrastare tali pregiudizi, svariate ricerche hanno messo in luce non solo che la maggior parte dei disabili sia sessualmente attiva, ma anche che tra le espressioni affettive da loro utilizzate vi siano pure espressioni di tenerezza, come abbracci, baci e vicinanza fisica che rappresenterebbero quindi l’espressione di una sessualità genitale completa (Lassmann et al., 2007). Non solo, emergono anche attrazioni sia verso il sesso opposto che lo stesso sesso, a dimostrazione del fatto che godono di un’affettività del tutto equiparabile a quella dei normodotati (Federici, 2002).

Emozioni e sessualità nei disabili psichici

Se a livello cognitivo possono essere molto lontani rispetto all’età da loro veramente posseduta, le persone affette da disabilità psichica a livello corporeo e sessuale non smettono di rispettare i tempi della pubertà, dell’adolescenza e della vita erotico-sessuale adulta. E poiché la sessualità è anche rapporto con il corpo, questa inevitabilmente finisce per essere sperimentata e desiderata, nonostante il loro livello cognitivo sia inadatto. Il rischio che a volte si genera è che, a causa di un ritardo cognitivo diffuso, si sperimentino esperienze sessuali regressive in età adulta, diventando così facile preda dei pregiudizi socio-culturali (Venere, 2020).

Quale sviluppo psicosessuale nel disabile?

Se analizziamo la tematica sotto un profilo evolutivo, lo sviluppo psicosessuale dei disabili mette in luce una sorta di asincronia tra lo sviluppo fisico e quello psicologico. Nei disabili, ovvero, lo sviluppo psicosessuale non segue il sottostante sviluppo fisico, a testimonianza ancora una volta della non validità del modello medico di cui sopra.

Si avvertono differenze nei modi, nei tempi e nella qualità dello sviluppo mentale (a prescindere dai caratteri biologici sessuali comunque presenti), nonché differenze nello sviluppo dei caratteri sessuali secondari (rispetto alla gravità del ritardo mentale e all’età) che permettono loro di sviluppare normali abilità affettive (Baldacci, 2006).

L’analisi delle caratteristiche sessuali dei disabili, pertanto, sotto un profilo evolutivo, deve essere effettuata in modo del tutto indipendente dalle peculiarità biologiche e fisiche sottostanti che li riguardano. Alcune ricerche, in ogni caso, hanno rilevato che persone con disabilità intellettive siano meno inclini a sviluppare conoscenze ed esperienze sessuali, rispetto a quelle che sviluppano solo deficit fisici.

Per lo stesso motivo, le prime hanno in genere una minore autostima e soddisfazione affettiva rispetto alle disabilità di tipo esclusivamente fisico (Kedde e Van Berlo, 2006).

Per attenuare sia i deficit fisici che quelli psicologici, e quindi incentivare lo sviluppo di una sessualità adeguata nei diversamente abili, occorre attenzionare, durante lo sviluppo del disabile, alla dimensione sociale cui appartiene.

Lo sviluppo psicosessuale, infatti, migliora e si dimostra adeguato nel momento in cui è presente, alla base, un sistema sociale che lo supporta, a livello sia comunitario che familiare (Casalini, 2013).

La dimensione sociale della sessualità nei disabili: quale prospettiva educativa?

L’ambiente familiare influenza lo sviluppo psicologico di qualsiasi essere umano, ma in modo particolare delle persone disabili, poiché in loro, più che in altri, favorisce l’autorealizzazione, le relazioni interpersonali e l’apertura verso l’esterno. La famiglia rappresenta per un disabile il nucleo sociale per eccellenza, con tutte le contraddizioni cui quest’ultima si trova a far fronte.

La difficoltà principale che la famiglia si trova spesso a dover fronteggiare si riferisce all’ambivalenza verso il proprio figlio disabile, perché da un lato si ha il desiderio dei genitori di volere una vita normale, dall’altro il desiderio e la necessità di iperproteggerlo (Sirigatti et al., 2008).

In questo alveo di atteggiamenti ambivalenti e contradditori spesso rientra anche la sessualità. La sessualità del disabile, infatti, può essere vissuta dai genitori come un lutto che può portare a forme di negazione, nonché ad atteggiamenti ansiosi e ambivalenti, perché percepita al contempo come un vero e proprio rischio per il figlio disabile: rischio di abusi, rischio di rimanere vittima di insoddisfazioni, rischi fisici.

Tali forme di negazione, che a volte portano a vere e proprie condotte sociali estreme (adottare la contraccezione massiva, l’aborto terapeutico o rivolgersi a prostitute), può influenzare considerevolmente il benessere psicosessuale del figlio (Baldacci, 1996).

Il raggiungimento di una certa identità sessuale negli individui con disabilità si caratterizza per essere un processo non facile di affermazione di sé e della propria disability identity, a causa dell’immagine riflessa e introiettata che confluisce in loro dalla famiglia e dalla società stessa di cui fanno parte (Casalini, 2013). In altre parole, il processo affermativo dell’identità di una persona disabile, non si esaurisce con l’accettazione del proprio deficit psicofisico, ma al contrario con un’affermazione della propria identità sociale di persona disabile che, quindi, deve fare i conti con tutti i criteri del riconoscimento sia sociale, che istituzionale e familiare (Shakespeare et al., 1996).

Al pari delle altre persone, anche per i disabili l’obiettivo familiare dovrebbe essere l’educazione alla sessualità, ovvero fornire informazioni e conoscenze commisurate alla capacità di comprendere e dare risposte pertinenti e veritiere, cercando al contempo di integrarle nel processo di sviluppo complessivo della persona (Loperfido, 2006). Per consentire ciò, l’interesse si sposta da strategie psicoterapeutiche da indirizzare esclusivamente al disabile, a strategie di intervento verso la famiglia di appartenenza e ad aree sociali più vaste (scuola e comunità), al fine di rimuovere quelle barriere ambientali, sociali e psicologiche che impediscono il percorso creativo ed espressivo, affettivo e sessuale dei diversamente abili (Shakespeare et al.,1996; Casalini, 2013).

Conclusioni

Tutti gli individui hanno il diritto all’informazione e al piacere (WHO, 1975), tuttavia l’approccio alla sessualità è, il più delle volte, negato ai soggetti con disabilità, ai quali la società stabilisce i ruoli di indifferenti o inadeguati al sesso. Rilevante è in tal senso anche la funzione dei media, indubbiamente importante nell’orientare i modelli culturali e le pratiche di riferimento. La sessualità disabile, di fatto, non condiziona i consumi, non alimenta il culto della bellezza ricercata e perseguita spasmodicamente e perciò i bisogni sessuali del disabile sono confinati alla scomparsa del corpo.

L’intesa emotiva tra due persone consente l’opportunità di riconoscersi come tali e questo ha un grande significato per la persona disabile, che viene identificata come soggetto unico e originale, anziché come deficitario; gli viene, quindi, offerta l’occasione di rappresentarsi come “essere umano” e non come “disabile”. Egli fa esperienza di sé, perché entra in relazione col mondo e sperimenta il proprio modo di essere con quello di un altro. (Venere, 2020)

Bibliografia

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Biologia Medical News News del giorno

Con il prof. Luigi Notarangelo viaggio nella conoscenza dei deficit dell’immunità (SCID).  Indicazioni, inoltre, su come affrontare i pazienti Covid con decorso grave.


Autore

Salvo Falcone – Giornalista, Media Consultant, Direttore Responsabile Medic@live Magazine.

[dropcap color=”#008185″ font=”0″]H[/dropcap]a permesso di curare oltre il 90% dei bambini che ne soffrono l’analisi dei meccanismi genetici responsabili di patologie come l’immunodeficienza combinata grave (o SCID, la malattia dei “bambini bolla”) che annulla le difese immunitarie.

Le ricerche attuali  contribuiscono, a latere, a comprendere anche perché alcuni pazienti Covid hanno un decorso più severo.

Un tema affrontato dal prof.  Luigi Notarangelo, Direttore del Laboratorio di Immunologia Clinica e Microbiologia dei NIH (National Institute of Health) di Washington.

prof luigi notarangelo“In passato, quando ancora si ignoravano le basi cellulari e molecolari di queste malattie – sostiene Notarangelo intervenuto alla XXIII edizione del Congresso Società Italiana di Allergologia e Immunologia Pediatrica  organizzato e presieduto dal professor Gian Luigi Marseglia, Direttore della Clinica pediatrica dell’Università di Pavia Policlinico San Matteo – la suscettibilità alle infezioni era l’elemento fondamentale per definirle clinicamente.

Nel corso degli anni però le cose sono cambiate a diversi livelli: si è visto che esistono dei difetti congeniti dell’immunità che comportano una predisposizione selettiva nei confronti di alcuni germi (per esempio i micobatteri atipici) – ricorda l’esperto -ma non un aumentato rischio infettivo nei confronti di altri agenti patogeni e si è anche scoperto che, accanto alle infezioni, un elemento fondante della presentazione clinica di queste malattie può essere rappresentato anche da altre manifestazioni di disreattività del sistema immunitario, come l’autoimmunità”.

La rivoluzione nella conoscenza e comprensione di queste malattie è avvenuta a partire dagli anni ‘90, con il sequenziamento del genoma umano e la semplificazione delle tecniche di indagine molecolare che hanno consentito di comprendere le basi genetiche di molte malattie.

“In circa 25 anni il numero di geni identificati è passato da una decina a oltre 450 – sottolinea Notarangelo -. L’approfondimento delle conoscenze ha portato a comprendere che, contrariamente a quanto si pensava nel passato, cioè che a un difetto genetico corrispondesse una determinata malattia, si possono avere quadri clinici assolutamente identici sottesi da difetti genetici diversi e d’altra parte difetti genetici all’interno dello stesso gene possono dare quadri clinici assolutamente differenti fra di loro.

Per esempio, i soggetti con un difetto grave dei geni RAG, importanti per la produzione dei linfociti B e T, non sono in grado di produrre queste cellule e sono quindi esposti a infezioni gravissime fin del primo periodo di vita, si tratta delle immunodeficienze combinate gravi SCID, la malattia dei bambini bolla.

Nel caso in cui il difetto sia meno severo, si hanno quadri clinici diversi. A differenza dei bambini con SCID che, se non vengono trapiantati, muoiono nell’arco dei primi anni di vita, i portatori di questi difetti arrivano invece all’età adulta ma si presentano con lesioni granulomatose sistemiche contenenti il virus del vaccino della rosolia o con quadri autoimmunitari anche importanti”.

LA TERAPIA

Negli ultimi anni si è assistito a profondi cambiamenti anche sul versante della terapia. “Per moltissimo tempo ci si limitava a prevenire o curare le infezione con gli antimicrobici, un intervento non curativo. Nel caso dei difetti più gravi come la SCID (Severe Combined Immune Deficiency) la rivoluzione è venuta con il trapianto di cellule staminali ematopoietiche – spiega Notarangelo -.

Negli anni 90 si era visto che quando il trapianto veniva effettuato nei primi mesi di vita la possibilità di sopravvivenza era decisamente migliore; in realtà quello che è emerso da uno studio condotto su un registro nordamericano è che l’aspetto importante per determinare un miglioramento della prognosi non è tanto quello di trapiantare entro i primi tre mesi e mezzo di vita, quanto lo stato clinico del bambino al momento del trapianto.

Si è visto infatti che i pazienti che avevano più di 3 mesi e mezzo ma che non avevano ancora avuto infezioni presentavano una sopravvivenza paragonabile a quella di bambini trapiantati nei primi tre mesi e mezzo di vita. Questo significa che per offrire una prognosi migliore è importante diagnosticare precocemente queste malattie, cosa che può essere fatta ricorrendo allo screening neonatale”.

ruolo della genetica per curare malattie infantili - foto 1

LA FORMA GRAVE DI COVID E IL DIFETTO GENETICO

Nel corso di quest’anno molte ricerche condotte nei laboratori dei NIH si sono concentrate anche sul Covid, in particolare nel tentativo di comprendere perché alcuni pazienti, sia bambini, sia adulti, vanno incontro a un decorso potenzialmente fatale.

“La nostra ipotesi di partenza era che alcuni dei soggetti che hanno sviluppato una forma particolarmente grave di Covid-19, avessero alla base un difetto genetico della capacità del sistema immunitario far fronte al virus e che al contrario soggetti che, pur presentando comorbilità, pur essendo anziani, quando vengono esposti al virus non sviluppano malattia, abbiano una costituzione genetica in grado di determinare resistenza all’infezione virale In collaborazione con diversi centri italiani (Brescia, Monza, Pavia, Foggia, Bari, Torino e Napoli) abbiamo studiato il genoma di questi soggetti adulti e bambini – spiega il ricercatore – soffermandoci in particolare su geni che sappiamo essere responsabili di forme fatali di influenza e in alcuni casi anche di raffreddore.

In effetti abbiamo osservato la presenza di mutazioni a carico di questi 13 geni nel 3,5% dei pazienti con forma critica di Covid-19. Si tratta di geni importanti per produrre gli interferoni di tipo primo che nella fase iniziale di un’infezione virale, prima che si inneschino le risposte dell’immunità specifica con produzione di anticorpi e linfociti T, sono prodotti dal sistema immunitario con l’obiettivo di ridurre il più possibile la replicazione virale”.

GLI  INTERFERONI E OSSERVAZIONI SULLA TERAPIA

Se per ragioni genetiche un individuo non è in grado di produrre interferoni di tipo primo, il virus rimane libero di replicarsi e riesce così a diffondersi in modo molto maggiore nell’organismo con intuibili conseguenze. Ma i ricercatori hanno fatto anche un’altra osservazione sorprendente.

“Il 10% dei soggetti con covid-19 critico senza difetti genetici aveva degli autoanticorpi contro gli interferoni di tipo primo che ne bloccavano l’attività lasciando il virus libero di replicarsi” – dice l’esperto.- Si tratta di osservazioni destinate a ripercuotersi sulla terapia con il ricorso per esempio, in una fase molto precoce della malattia, agli interferoni nei pazienti incapaci di produrli o con interventi che permettano di eliminare gli anticorpi contro gli interferoni nei pazienti che li presentano. Si tratta fra l’altro di osservazioni che non si applicano solo all’infezione da SARS COV 2 e che potranno essere utili per affrontare anche altre malattie.

“Di recente abbiamo pubblicato i risultati di uno studio internazionale che mostra come gli stessi autoanticorpi contro interferoni di tipo primo siano la causa frequente di una complicazione osservata dopo somministrazione del vaccino contro la febbre gialla. Il vaccino contiene un virus vivo attenuato – sottolinea Notarangelo – e alcuni soggetti, dopo averlo ricevuto, sviluppano complicanze molto gravi: abbiamo visto che oltre il 50% di questi individui presenta anticorpi neutralizzanti gli interferoni di tipo primo.

Queste ricerche sul covid-19 sembrano quindi aver aperto nuovi campi di studio. Intendiamo per esempio verificare se i quadri clinici gravi di varicella o le reazioni gravi al vaccino della varicella, che pure sono descritte, sono da associare – conclude Notarangelo  – alla presenza o meno di questi anticorpi”.