La pandemia da Covid-19 ha messo in luce le fragilità ed inefficienze del SSE. Le politiche sanitarie hanno evidenziato come la Spesa Pubblica sia stata sempre considerata un costo piuttosto che un investimento. La risposta dell’EU a questa necessità è l’EU4Health. Tale programma costituisce il più grande piano per la salute in termini finanziari. La digitalizzazione e l’innovazione costituiscono lo strumento che permette ai Paesi Europei di essere più competitivi a livello globale e di porre le basi per un miglioramento complessivo della qualità del lavoro e della vita degli individui.
Autore
Dott.ssa Alessandra Savino – Junior Assistant Lum Business School & Consulting – Università LUM Casamassima (BA).
[dropcap color=”#008185″ font=”0″]L[/dropcap]a pandemia da Covid-19 ha messo in luce le fragilità ed inefficienze latenti della maggior parte dei Sistemi Sanitari Europei.
Le politiche sanitarie, poste in essere prima della pandemia, hanno evidenziato come la Spesa Pubblica sia stata sempre considerata un costo piuttosto che un investimento. Inoltre è stata concentrata in misura prevalentemente sugli interventi curativi trascurando, come emerso dalla crisi che stiamo vivendo, la medicina preventiva. L’emergenza da COVID-19,dunque, evidenzia il primario bisogno di costruire sistemi sanitari resilienti, rivolti al paziente in termini di accessibilità, qualità delle cure ed efficienza.
La risposta dell’EU a questa necessità è l’EU4Health. Tale programma, prevedendo lo stanziamento di fondi pari a 9,4 miliardi di euro, costituisce il più grande piano per la salute in termini finanziari. Tre sono i principali obiettivi che persegue il fondo.
Il primo consta nel consolidamento della capacità dell’UE nell’affrontare minacce sanitarie costituendo riserve di forniture mediche, di personale sanitario ed esperti che possano essere mobilitati sull’intero territorio europeo, nonché favorendo un incremento delle attività di monitoraggio delle possibili minacce per la salute.
Sebbene il numero di medici e infermieri sia aumentato in quasi tutti i Paesi dell’UE, in molti di essi permangono importanti carenze. Quest’ultime sono emerse bruscamente durante la pandemia, comportando una forte pressione degli operatori sanitari presenti.
Difatti l’accesso effettivo ai diversi tipi di cure può essere limitato, oltre che dei lunghi tempi di attesa o dalla distanza per raggiungere la struttura sanitaria, della carenza di operatori sanitari.
Difatti, tra le 168 000 e le 346 000 morti premature nei Paesi dell’UE possono essere attribuite ogni anno all’inquinamento dell’aria causato da polveri sottili. Di conseguenza si presenta importante anche investire sulla transazione ecologica. Essa costituisce un’importante e fondamentale obiettivo del Fondo NextGenerationEU.
Quest’ultimo, così come previsto dal Green Deal, prevede la diminuzione dell’inquinamento mediante la riduzione dell’emissioni di gas serra e il miglioramento dell’efficienza energetica durante le attività produttive.
L’UE mira inoltre: ad intensificare gli interventi volti alla prevenzione e alla cura di malattie quali il cancro, le infezioni resistenti agli antimicrobici ad aumentare i tassi di vaccinazione; ad incrementare la ricerca per le malattie rare; a ricercare forme di cooperazione internazionale in caso di minacce globali quale ad esempio il covid-19.
Necessaria, al fine che le misure adottate possano avere l’esito positivo prospettato, è la responsabilizzazione delle persone, dei cittadini, delle famiglie. La salute pubblica è il prodotto delle scelte individuali e delle famiglie, che a loro volta, influenzano la salute della comunità.
La voce della società civile, nelle sue forme associative come le organizzazioni di pazienti, giovanili e quelle degli anziani, è un fondamentale strumento per migliorare i risultati sanitari nonché le prestazioni del sistema sanitario e per attirare l’attenzione in merito alla salubrità degli ambienti, gli stili di vita o i prodotti dannosi per la salute e sulle lacune relative alla qualità e alla fornitura di assistenza.
Vi sono ulteriori programmi che completeranno l’EU4Health: il Fondo sociale europeo Plus (FSE+) per il sostegno ai gruppi vulnerabili nell’accesso all’assistenza sanitaria, il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) per il miglioramento delle infrastrutture sanitarie regionali, Orizzonte Europa per la ricerca in ambito sanitario, il meccanismo di protezione civile dell’UE/rescEU per creare scorte di forniture mediche di emergenza e l’Europa digitale e il meccanismo per collegare l’Europa per la creazione dell’infrastruttura digitale necessaria per gli strumenti sanitari digitali quali ad esempio la telemedicina.
Lo sviluppo di strumenti per la Telemedicina permette sia di ottenere risposte nuove per risolvere problemi tradizionali della medicina, sia di migliorare il servizio sanitario tramite una maggiore collaborazione tra i vari professionisti sanitari e i pazienti.
Essa permette: l’equità di accesso all’assistenza sanitaria, una migliore qualità dell’assistenza, la continuità delle cure, una migliore efficacia, efficienza, appropriatezza e il contenimento della spesa sanitaria, riducendo il costo sociale delle patologie.
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
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I recenti studi relativi il microbiota umano stanno cambiando radicalmente i paradigmi utilizzati dalle scienze biomediche e psicologiche perché offrono spiegazioni più esaustive sullo sviluppo delle malattie aprendo nuove prospettive terapeutiche e relative la promozione del benessere psicofisico.
English abstract
Human microbiota is the set of all microorganisms (bacteria, viruses and fungi) present in the human body and which therefore do not possess the human genotype.
The study of the complex interactions between these microbiological life forms and their effects on human fitness has currently allowed us to understand many dynamics that represent a revolution in the biomedical field because they offer new interpretative models of disorders and diseases as well as providing potential therapeutic and well-being approaches relatively many psychophysical dynamics (both strictly organic and more psychological).
Italian abstract
Il microbiota umano è l’insieme di tutti i microorganismi (batteri, virus e miceti) presenti nell’organismo umano e che quindi non possiedono il genotipo umano.
Lo studio delle complesse interazioni tra queste forme di vita microbiologiche e i loro effetti sulla fitness umana ha permesso attualmente di comprendere molte dinamiche che rappresentano una rivoluzione in campo biomedico perché offrono nuovi modelli interpretativi di disturbi e malattie oltre a fornire potenziali approcci terapeutici e di promozione del benessere relativamente molte dinamiche psicofisiche (sia strettamente organiche che più psicologiche).
Autore
Dott. Massimo Agnoletti – Psicologo, Dottore di ricerca esperto di Stress, Psicologia Positiva e Epigenetica. Formatore/consulente aziendale, Presidente PLP-Psicologi Liberi Professionisti-Veneto, Direttore del Centro di Benessere Psicologico, Favaro Veneto (VE).
[dropcap color=”#008185″ font=”0″]L[/dropcap]o studio del microbiota, inteso come analisi sistematica della composizione e delle interazioni della popolazione di microorganismi che vivono nel nostro organismo, è molto recente a causa del giovane sviluppo della tecnologia necessaria a sequenziare i genomi dei microorganismi, analizzare i fenotipi e le complesse dinamiche (rispettivamente metagenomica, trascriptomica e metabolomica) esistenti con l’organismo umano.
L’analisi dei batteri che compongono il microbiota comincia ad essere piuttosto avanzata rispetto invece quella dei virus e dei miceti (rispettivamente batterioma, viroma e micoma) che rimane attualmente quasi interamente sconosciuta.
Nonostante lo studio del microbiota è una scienza estremamente recente, vedremo in questo scritto che, anche dalle relativamente poche ma solide conoscenze acquisite finora, possiamo già affermare senza ombra di dubbio che questo settore rivoluzionerà il campo biomedico e psicologico del prossimo futuro.
La massa totale del microbiota è di circa un kilogrammo e, sebbene sia distribuita in tutte le superfici del nostro corpo interne ed esterne a contatto con l’ambiente (pelle, bocca, stomaco, intestino, polmoni, ecc.), è maggiormente concentrata nel tratto dell’intestino tenue e del colon.
Anche se il peso totale del microbiota equivale circa a quello del nostro cervello, i microrganismi che lo compongono sono estremamente eterogenei (batteri, virus e funghi) tanto che il numero globale delle loro cellule è almeno dieci volte superiore a quello delle cellule del “nostro” corpo (delle cellule cioè che condividono il DNA umano) con un patrimonio genetico almeno mille volte più grande di quello che possiede il “nostro” stesso DNA.
Già da questi numeri possiamo capire quanto lo studio del microbiota sia un qualcosa di estremamente sfidante il concetto consolidato di cosa generalmente consideriamo con il termine “nostro” (riferito all’organismo) e di come la sua conoscenza possa impattare su quanto sappiamo relativamente la “nostra” salute psicofisica.
Se fino a pochi anni fa le scienze biomediche consideravano il microbiota semplicemente come un insieme piuttosto statico e passivo di microorganismi che vivevano in maniera parassitica il nostro corpo, adesso abbiamo capito che si tratta di un complesso ecosistema che vive all’interno del nostro organismo in maniera dinamica e simbiotica assolvendo a funzioni fondamentali per la nostra sopravvivenza e la nostra fitness.
Dalla produzione di neurotrasmettitori quali ad esempio la serotonina (più del 90% viene prodotta a livello intestinale) e la dopamina, alla funzione di elaborazione degli alimenti che assumiamo, al ruolo fondamentale di apprendimento del nostro sistema immunitario, il microbiota si sta rivelando un protagonista finora grandemente sottovalutato dell’eziologia di molte problematiche di natura sia organica (si veda ad esempio la celiachia, l’obesità o la colite ulcerosa) che psicologica (per esempio l’ansia, la depressione e molte psicopatologie quali l’autismo, la schizofrenia, etc.) (Caio et al., 2019; Cheunget al., 2019; Li & Zhou, 2016; Sharon et al., 2019; Foster &McVey Neufeld; 2013; Garrett et al. 2007; Mangiola et al., 2016; Rodrigues-Amorim et al., 2018; Simpson et al., 2021).
Lo studio del microbiota che si trova a livello intestinale, in particolare, ha fornito prove che rappresentano una sfida ai nostri attuali paradigmi psicobiologici che hanno sottostimato l’importanza di questo vasto ecosistema che vive “in noi” e “con noi” apportando alla nostra fitness grandi vantaggi anche in termini evoluzionistici.
Il microbiota è un ecosistema che interagisce in maniera biunivoca con molti sistemi costituiti dalle cellule umane nel senso che influenza ed è continuamente influenzato da molte complesse strutture funzionali che caratterizzano l’organismo umano attraverso il cosiddetto asse “microbiota-intestino-cervello” (Cryan et al., 2019)
Mi riferisco qui soprattutto ai numerosi recenti studi di trapianti di microbiota avvenuti tra modelli animali, da modelli umani ad animali e tra umani.
Le evidenze scientifiche riportate negli ultimi anni dimostrano che, per esempio, trapiantando artificialmente il microbiota di un ratto sperimentalmente stressato negativamente al punto di renderlo ansioso o depresso, all’interno dell’intestino di un topolino che non esibiva questi comportamenti, ha indotto velocemente (in pochi giorni) in quest’ultimo comportamenti ansiosi o depressivi simili al donatore (Kelly et al., 2016; Winter et al., 2018).
Anche il trapianto nella direzione opposta (cioè trapiantando il microbiota di un topolino non ansioso e non depresso nell’organismo di uno ansioso o depresso) ha avuto come risultato il miglioramento notevole della qualità di vita e della salute del topolino ricevente questa componente biologica.
Coerentemente con queste ricerche che confermano il notevole impatto globale del microbiota nell’organismo si sono riscontrate evidenze anche in contesti quali l’obesità (in esperimenti che hanno avuto come donatore del trapianto un ratto o una persona sebbene il “ricevente” fosse sempre un ratto) (Yu et al., 2020; Ridaura et al., 2013; Tremaroli & Bäckhed, 2012) o, per esempio, della sindrome del colon irritabile caratterizzata dalla presenza particolarmente pericolosa di un microorganismo chiamato Clostridium Difficile (in questo caso il trapianto è stato anche effettuato tra persone oltre che nei ratti).
Il concetto di eubiosi (equilibrio) e disbiosi (disequilibrio) è fondamentale per comprendere il microbiota perché anche nell’equilibrio ottimale di questa complessa comunità di microorganismi esistono esseri viventi potenzialmente pericolosi che però possono essere o meno controllati ed inibiti da altri microorganismi più funzionali alla fitness umana.
Un esempio tra tutti è Helicobacterpylori, batterio che causa ulcere e cancro allo stomaco ma solo nel contesto in cui altre specie batteriche non riescono più a limitare le sue capacità riproduttive. La presenza di Helicobacterpylori non è infatti l’unico criterio per prevedere lo sviluppo di ulcere o cancri allo stomaco dal momento che lo si trova anche in organismi sani privi di queste problematiche (Wroblewski&Peek, 2016).
In una situazione di eubiosi, l’Helicobacterpylori è inibito funzionalmente da altre specie batteriche che ne impediscono la proliferazione evitando quindi il conseguente sviluppo di patologie a danno dell’organismo umano.
Lo stress cronico, anche di natura psicosociale, impatta nell’equilibrio del microbiota cambiando il suo stato generale da eubiotico a disbiotico favorendo alcune specie batteriche che, come l’Helicobacterpylori, possono influenzare negativamente la fitness umana (Qin et al., 2014).
Naturalmente anche l’alimentazione è un fattore che modula il microbiota promuovendo la proliferazione di alcune specie batteriche e riducendo la riproduzione di altre ma le evidenze scientifiche hanno dimostrato che anche la qualità del sonno così come l’attività motoria o la somministrazione di antibiotici rappresentano altrettanti elementi che influenzano l’equilibrio del microbiota (Cox et al., 2014; Queipo-Ortuño et al., 2013; Smith et al., 2019; Trehan et al., 2013).
Grazie a ricerche molto recenti sappiamo ormai che un periodo particolarmente importante per la formazione del microbiota avviene soprattutto durante i primi anni di vita dell’organismo umano (“native core microbiota”) attraverso esperienze quali il parto, l’allattamento, la presenza di altri esseri viventi (per esempio animali domestici), l’assunzione o meno di antibiotici, la tipologia di stress psicosociale percepito, etc.(Koenig et al., 2011; Ottman et al., 2012).
I primi anni di vita sono fondamentali per la determinazione e la stabilità del microbiota ma questo non significa che la sua composizione non cambi nel tempo (si veda in particolare la fase “over 65”) e che quindi non possa essere influenzata da molteplici fattori che hanno un impatto globale sulla salute e la qualità di vita della persona.
Spero che riportando, anche se in maniera molto sintetica, i risultati delle ricerche sul microbiota sia ora evidente quanto queste conoscenze stiano cambiando i paradigmi sia delle scienze biomediche che psicologiche.
Alla luce dei dati acquisiti negli ultimi quindici anni in questo settore possiamo affermare che, ad esempio, molti modelli di patologie o disturbi che finora avevamo considerato non trasmissibili in realtà possono esserlo (vedi ricerche sul trapianto di microbiota relative l’ansia, la depressione, l’obesità, ecc.) fornendoci anche nuove potenzialità terapeutiche.
A titolo d’esempio possiamo pensare a come diversamente potrebbe essere considerata da un professionista, come uno psicologo od un medico, una persona che soffre di stati d’ansia o di depressione malgrado affermi di aver vissuto una vita percepita dalla persona stessa come serena e tranquilla e comunque priva di episodi particolarmente stressanti.
Le scienze del microbiota ci forniscono una possibilità interpretativa aggiuntiva molto interessante da approfondire che esula dalle varie forme di riduzionismo e di determinismo rappresentabili, ad esempio, dall’improduttiva ricerca di inesistenti traumi infantili dimenticati o di semplicistici squilibri chimici presenti a livello cerebrale.
Come sempre in questi ambiti la scoperta di nuove frontiere scientifiche apre la strada a nuove sfide anche etiche e legali infatti, conoscendo le ricerche sul microbiota e sapendo dell’impatto che questo può avere nella dinamica, ad esempio, madre-figlio/a, cosa sarebbe opportuno fare nel caso la madre possedesse un microbiota che predispone i suoi figli all’obesità o alla depressione? Queste sono domande alle quali in futuro occorrerà rispondere in maniera competente e responsabile soprattutto in uno scenario dove le informazioni scientifiche sul microbiota si accumuleranno ulteriormente.
Considerando quanta già sappiamo dell’ecosistema del microbiota all’interno della prospettiva epigenetica (che evidenzia cioè i fattori che determinano l’espressione differenziale del DNA)è possibile comprendere come il comportamento umano e la sua fitness sia il risultato di una negoziazione continua tra le esigenze del genotipo umano e quello delle migliaia di specie che colonizzano il nostro corpo.
In questo contesto, la Psicologia Epigenetica, ossia lo studio scientifico dell’influenza dei fattori psicologici sui processi epigenetici dell’organismo (Agnoletti, 2018) include anche l’impatto che possiede sulla memoria epigenetica del microbiota perché funzionale alle varie teleonomie dell’organismo umano (biologica, psicologica e socio-culturale) assumendo un ruolo ancora più complesso da esplorare.
La stessa nozione di “self” (cosa consideriamo e percepiamo come “nostro” nel senso di legato alla nostra identità) e cosa invece giudichiamo essere “altro” rispetto a noi, assume un nuovo significato alla luce del paradigma epigenetico (Agnoletti, 2020) soprattutto contestualizzato all’interno di un organismo che comprende un ecosistema come il microbiota caratterizzato da migliaia di microorganismi molto diversi tra di loro e diversi dal DNA umano.
La sfida scientifica del microbiota è solo agli inizi ma già così traccia la strada di un profondo rinnovamento dei paradigmi acquisiti finora dalle scienze psicologiche e biomediche perché offre nuove possibilità esplicative dei processi sia patologici che di quelli che promuovono la salute umana.
BIBLIOGRAFIA
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L’articolo, vuole delineare e ridefinire le competenze attuali dell’Igienista Dentale, sottolineando le criticità connesse al profilo stesso. L’Igienista Dentale svolge competenze relativa alla prevenzione delle affezioni orodentali su indicazione degli odontoiatri e dei medici chirurghi legittimati all’esercizio della odontoiatria.
Abstract Italiano
L’igienista dentale dovrebbe divulgare, mediante i dispositivi in suo possesso, le informazioni utili alla popolazione per promuovere la salute orale. Tutto ciò può iniziare dalla scuola elementare attraverso incontri con i piccoli pazienti, per poi espandersi a tutta la popolazione italiana attraverso ogni mezzo di comunicazione disponibile nel XXI secolo come giornali, televisione, interviste e programmi radiofonici.
Di fatto non tutti i pazienti italiani ne sono al corrente, e chi invece ne riconosce l’influenza difficilmente si sottopone alle normali pratiche di igiene orale; di conseguenza, la maggior parte della popolazione non si sottopone ai trattamenti di prevenzione per le patologie del cavo orale ma, al contrario, si presentano in uno studio dentistico quando la situazione richiede interventi più invasivi.
English abstract
The dental hygienist should disclose, through the devices in his possession, information useful to the population to promote oral health. All this can start from elementary school through meetings with young patients, and then expand to the entire Italian population through every means of communication available in the 21st century such as newspapers, television, interviews and radio programs.
In fact, not all Italian patients are aware of it, and those who recognize its influence are unlikely to undergo normal oral hygiene practices; consequently, the majority of the population do not undergo preventive treatments for oral diseases but, on the contrary, come to a dental office when the situation requires more invasive interventions.
Autori
Dott.ssa Maria Patrizia Irene Losacco – Dottoressa in Igiene Dentale, Gravina in Puglia (BA)
Dott. Abramo Mammarella – Dottore in Infermieristica, Chieti
Dott. Gianfranco Verna – Dottore Magistrale in Scienze Infermieristiche ed Ostetriche, Chieti
Francesco Verna – studente corso di Laurea in Infermieristica, Chieti
CHI È L’IGIENISTA DENTALE
[dropcap color=”#008185″ font=”0″]L'[/dropcap]igienista Dentale è l’operatore sanitario che, in possesso del titolo di studio abilitante alla professione (Corso di Laurea in Igiene Dentale), svolge un ruolo fondamentale nella prevenzione delle patologie oro-dentali e nel promuovere la salute orale dei pazienti al fine di migliorare anche la salute sistemica, nonché l’estetica e l’autostima.
Tuttavia, i pazienti che si recano in una struttura odontoiatrica pubblica sono poco consapevoli della funzione dell’igienista dentale; inoltre molti pazienti, pur conoscendo il ruolo dell’igiene dentale nella prevenzione delle malattie orali non si sottopongono regolarmente a controlli odontoiatrici. È bene dunque che gli igienisti dentali aumentino le loro attività di propaganda al fine di informare meglio le persone circa il ruolo dell’igienista sulla prevenzione delle malattie del cavo orale.
Questo può iniziare dall’età della scuola primaria, con lezioni e attività educative e successivamente attraverso giornali, riviste, annunci di servizio pubblico, interviste a igienisti dentali durante programmi televisivi e radiofonici nel campo della prevenzione della salute orale. È inoltre possibile creare centri per la promozione della salute orale in cui, sia i pazienti che i professionisti della salute orale, possono essere istruiti sui collegamenti tra le malattie orali e sistemiche, nonché il ruolo esatto che ogni professionista svolge nella promozione della salute orale e sistemica.1
Agli igienisti è richiesto un livello molto elevato di competenza che vede alla base non solo lo sviluppo delle conoscenze scientifiche, ma anche etiche e tecniche.2
L’igienista dentale deve:
Pianificare ed effettuare un programma di prevenzione sia primaria che secondaria per ogni singolo paziente;
Applicare la conoscenza specifica, le capacità personali, le procedure educative e tutte le tecniche cliniche;
Considerare il paziente nella sua interezza psicofisica;
Ottenere il consenso del paziente al trattamento. A questo scopo deve fornire tutte le indicazioni corrette e le informazioni circa le alternative, oltre ai rischi e agli effetti collaterali della cura.
Dare l’opportunità al paziente di fare domande e ottenere delle risposte;
Osservare il segreto professionale e garantire la riservatezza dell’informazione sulla salute generale;
Aggiornarsi continuamente per acquisire conoscenze scientifiche e qualifiche professionali, al fine di garantire la qualità dei trattamenti;
Collaborare alla ricerca per il miglioramento della professione;
Attenersi rigorosamente al rispetto professionale nei confronti dei collaboratori o dei colleghi, nonché di tutto il team odontoiatrico;
Partecipare attivamente al confronto diretto con i colleghi attraverso associazioni nazionali, europee e internazionali per ampliare le proprie conoscenze e la propria versione della professione;
Avere riguardo per i bisogni di tutti i pazienti, in particolare per quelli vulnerabili, dimostrando capacità interpersonali che permettono di prendersi cura efficacemente delle individualità di ognuno 3.
COME AGISCE UN’IGIENISTA DENTALE RIGUARDO ALLA PREVENZIONE ?
La prevenzione primaria è volta a prevenire l’insorgenza di patologie che colpiscono il cavo orale, ciò è reso possibile mediante l’informazione e l’istruzione del paziente.
Esistono diversi metodi per un corretto approccio in base anche al grado di collaborazione del paziente stesso:
Tell, Show, do: spiega, mostra, esegui;
Schema di Skinner: istruzione, esecuzione, rinforzo.
Diversi possono essere i presidi utilizzati per rafforzare l’istruzione, la motivazione del paziente e per migliorarne l’igiene domiciliare come:
Rilevatori di placca mediante i quali si ha una visione oggettiva della situazione;
Uso dello specchio per mostrare al paziente i siti dove vi è un maggior accumulo di placca batterica;
Valutazione presenza di placca batterica mediante sonda parodontale North Caroline;
Utilizzo di macchina fotografica, telecamera intraorale o anche smartphone, computer e monitor.
La tecnica motivazionale è efficace per andare a ridurre l’indice di placca e sanguinamento del paziente, al fine di garantire la salute del cavo orale attraverso un miglioramento delle manovre d’igiene orale domiciliare.
Nonostante lo spazzolino sia il presidio principale per una corretta igiene orale non è sufficiente per garantire un’eliminazione completa della placca batterica; a tal proposito è bene introdurre, nella propria routine domiciliare altri dispositivi atti a rimuovere residui di placca negli spazi interdentali:
Filo interdentale;
Stimolatori gengivali (wood-stick);
Scovolini interdentali;
Spazzolino monociuffo;
Forcelle tendifilo;
Irrigatori orali;
Spazzolino sulculare.
La prevenzione secondaria verte nell’intercettare il danno precocemente, tanto da renderlo reversibile, in seguito a gengivite e parodontite. Il fattore eziologico primario delle patologie in esame, oltre a fattori predisponenti che variabili, è la placca batterica.
Gengivite: patologia che colpisce i tessuti molli che circondano l’elemento dentale. Si presenta come uno stato d’infiammazione in seguito all’accumulo di placca batterica all’interno del solco gengivale. È una patologia che non causa un danno irreversibile, ma è possibile andare incontro al processo di “restitutio ad integrum’’, nel momento in cui si arresta il decorso della malattia. Diversi sono i fattori eziologici scatenanti come fumo, farmaci e alterazioni ormonali. Per quanto concerne il trattamento della gengivite, appare fondamentale il ruolo dell’igienista il quale deve assicurare un’igiene professionale impeccabile, associata a un buon controllo di placca batterica domiciliare. Per garantire questo risultato è indispensabile motivare correttamente il paziente, insegnando le tecniche di spazzolamento più adatte al singolo e l’uso di dispositivi d’igiene interdentale. L’obiettivo finale è la guarigione con recupero dei tessuti parodontali.
Parodontite: la parodontite è una malattia cronica infiammatoria che colpisce i tessuti parodontali del dente (gengiva, legamento parodontale, cemento radicolare e osso alveolare). Questa è recidivante, il che significa che si può ripresentare; difatti seguiranno fasi di attivazione e fasi invece d’inattivazione della malattia.
Il compito dell’igienista dentale è quello di tenere sotto controllo l’evoluzione della patologia seguendo i protocolli sul piano di trattamento della patologia.
I fattori di rischio, che conducono allo sviluppo della malattia parodontale, sono:
Paziente – specifici (età, razza, sesso, storia progressiva della patologia, scarsa compliance);
Dente – specifici (posizione del dente in arcata, coinvolgimento delle forcazioni, quantità ridotta di supporto parodontale residuo);
Sito – specifici (sanguinamento al sondaggio, parametri di sondaggio, presenza di essudato purulento).4
Il paziente con parodontite deve sottoporsi a visite periodiche, in modo tale che l’igienista dentale possa monitorare il decorso della malattia e mettere in atto un piano di trattamento mirato. Lo scopo è quello di limitare il danno provocato dalla malattia, senza garantire però una “restitutio ad integrum”; ciò determina una perdita dei tessuti di supporto che non possono essere reintegrati.
La prevenzione terziaria si basa sul trattamento degli effetti a seguito della avanzata distruzione dei tessuti parodontali, quando possono crearsi delle situazioni in cui l’igienista dentale non riesce a raggiungere efficacemente la parte più profonda delle lesioni parodontali con la sola terapia non chirurgica della malattia parodontale. A tal proposito, il trattamento prevede un approccio parodontale chirurgico ad opera dell’odontoiatra; terapia che viene eseguita in anestesia locale. Un accesso chirurgico sarà indicato anche nei casi in cui sarà necessario un’applicazione di bio-materiali per ricostruire o rigenerare il tessuto osseo e l’apparato di attacco del dente.5
Il criterio con il quale si affronta la prevenzione infantile della patologia cariosa comprende sia la prevenzione primaria, per evitare l’insorgenza della malattia stessa, sia quella secondaria per evitarne lo sviluppo a formare una cavità cariosa.
I trattamenti adoperati per prevenire o arrestare la patologia cariosa sono:
Sigillatura;
Fluoroprofilassi.
I sigillanti fanno parte della prevenzione primaria, in quanto formano una barriera fisica che non permette ai batteri e ai residui alimentari di accumularsi nei solchi o nelle fossette degli elementi dentari. Tuttavia, sono efficaci anche per arrestare l’evoluzione della carie e quindi vengono inseriti anche nella prevenzione secondaria. Se il materiale viene posizionato correttamente su una lesione cariosa non cavitata, il sigillo impedisce la progressione della carie e la inattiva, riuscendo a privare i batteri delle sostanze nutritive necessarie per i loro stesso sviluppo.
La sigillatura sta riscontrando una notevole applicazione non solo in campo preventivo ma anche come terapia micro o mininvasiva delle lesioni cariose iniziali.
La fluoroprofilassi è riconosciuta scientificamente come il metodo più efficace nell’ambito della prevenzione e del controllo del processo carioso. È stato anche affermato che la presenza del fluoro assume dei benefici indiretti su terapie e prevenzione della salute parodontale, grazie alla sua capacità di agire sui microrganismi della placca batterica.
L’assunzione di fluoro, secondo quanto emanato dall’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) è efficace a tutte le età, sia a livello individuale che comunitario senza apportare alcun rischio per l’individuo stesso. La fluoroprofilassi è considerata il primo meccanismo di prevenzione del processo carioso.
Alla base di un efficace programma di prevenzione contro il processo carioso ritroviamo anche la fluorizzazione topica domiciliare o autoprofilassi; infatti, attraverso l’utilizzo di collutorio e dentifrici a base di fluoro, è possibile ottenere ottimi risultati preventivi sia in casi individuali sia nell’intera popolazione con alta cariogenicità. Tale applicazione non va effettuata in bambini minori di 6 anni o in soggetti portatori di handicap gravi.
Importante in questo caso sarà il ruolo dell’igienista che verte nel consigliare il giusto dentifricio e il collutorio al paziente, in base alle esigenze personali.
APPROCCIO PSICOLOGICO AL PICCOLO PAZIENTE, UN ASPETTO DA NON SOTTOVALUTARE!
Quando si parla di approccio al piccolo paziente, si parla di strategie di comunicazione.
Il trattamento odontoiatrico, sia dell’adulto sia del bambino, è spesso associato a manifestazioni di paura, ansia e fobia. C’è un’età in cui il paziente inizia ad avere paura della figura dell’igienista e del dentista, di solito nel 50% dei casi si manifesta durante l’infanzia; il 20% invece sviluppa la paura durante l’adolescenza e circa il 27% durante l’età adulta.
L’approccio psicologico al piccolo paziente può essere influenzato da vari fattori:
Livello di sviluppo cognitivo del bambino in rapporto alla sua età anagrafica;
Ambiente familiare;
Vita che conduce;
Tratti caratteriali quali ansia, paura e fobia.
A tal proposito sono stati studiati quali sono i meccanismi che conducono il bambino a percepire l’ansia:
Esposizione a delle informazioni minacciose, come può essere il racconto di un evento negativo dal dentista tale che il bambino lo associ al dolore e alla paura;
Apprendimento del bambino osservando comportamenti ansiosi di altri bambini o dei genitori che si sottopongono a cure dentistiche, è bene dunque lasciare il bambino a casa o in sala d’aspetto con il genitore che non dovrà fare il trattamento;
Esperienza diretta, che è quella più difficile da trattare ed eradicare; in questo caso il bambino è già stato sottoposto a trattamenti odontoiatrici inefficaci.
Altro evento negativo, che fa parte di questo meccanismo, avviene quando il bambino arriva in studio che presenta già una sintomatologia dolorosa evidente, associando l’ambiente odontoiatrico a questa sensazione spiacevole.6
Nonostante tutto, vi è una riduzione nel tempo di queste manifestazioni ansiose dovute alla frequenza delle visite odontoiatriche asintomatiche. Si deduce che se un bambino frequenta lo studio dentistico in modo asintomatico con visite e controlli, o comunque non esponendo nessun tipo di problema, diminuirà il suo stato di ansia mentale.
Poiché la prima infanzia è una fase critica per la formazione di abitudini salutari e i bambini sono spesso ricettivi in questa fase7 , questo periodo offre un’opportunità unica per gli interventi comportamentali consentendo, al contempo, delle alternative. Coltivare abitudini sane tra i bambini in età prescolare, i cui denti permanenti eromperanno in seguito, massimizzerebbe le possibilità di una dentatura permanente priva di carie per tutta la vita.
Lo sviluppo di stili di vita sani dal punto di vista dentale è identificato dall’OMS come una priorità e un orientamento strategico per la promozione della salute orale.8
Una corretta tecnica di spazzolamento esige una notevole destrezza manuale e comprende la detersione delle superfici con direzioni, movimenti e angoli specifici tra lo spazzolino, i margini del tessuto gengivale e i denti. Tra i bambini piccoli è stato spesso suggerito e impiegato un metodo di “lavaggio orizzontale” facile e adeguatamente efficace.
Le abilità manuali di spazzolamento dei denti, e il miglioramento di queste a livello personale, sono tradizionalmente valutate attraverso il successo della rimozione della placca misurata dai punteggi e dagli indici della stessa. 9
È stato sviluppato un indice per la valutazione delle “capacità di spazzolamento” definite operativamente come posizione dello spazzolino in bocca al fine di raggiungere tutte le superfici dentali; l’indice di Simon “Brushing Skills’’. 10
PROGETTO DI PREVENZIONE NELLA SCUOLA PRIMARIA
Un elemento essenziale in un progetto dentale preventivo, sia per l’individuo sia per il gruppo, è un programma di controllo della placca ben organizzato.
Si tratta di un tema rilevante, già affrontato in passato11, nel quale si andava a registrare le condizioni gengivali di ciascun soggetto mediante il sistema Indice Gengivale (GI)12 e le valutazioni della placca effettuate da un sistema di indice PHP (Patient Hygiene Performance).13
I soggetti avevano 12 e 13 anni di età, assegnati in modo casuale, suddivisi in due gruppi: test e controlli. Entrambi sono stati sottoposti ad un pre e post-esame; i partecipanti del gruppo test hanno ricevuto due spazzolini, uno da utilizzare durante il periodo di supervisione e uno invece da utilizzare a casa., inoltre gli era stato fornito anche il filo interdentale. Mentre i partecipanti del gruppo controllo hanno utilizzato un solo spazzolino.
Dopo aver eseguito i movimenti di spazzolamento dei denti sotto la supervisione degli igienisti, l’individuo ha esaminato la propria bocca per rilevare la presenza di placca utilizzando un tablet rivelatore e gli ausili combinati dello specchio della bocca e dello specchio manuale. Gli igienisti dentali hanno valutato il numero di denti con placca rimanente e lo studente ha seguito lo spazzolamento di quelle aree.
In tutto, gli igienisti hanno dato un’idea chiara di ciò che era stato compiuto correggendo eventuali movimenti giudicati inadeguati o errati. Durante una settimana, un igienista è stato incaricato di supervisionare il metodo “Scrub” mentre l’altro ha supervisionato il metodo “Bass”; le loro posizioni sono state invertite nelle settimane seguenti.
È emerso che lo stato di igiene orale, dei bambini in entrambi i gruppi di studio e di confronto, è migliorato in modo significativo nel corso del mese di durata dello studio.11
A questo punto è possibile realizzare un progetto che, basandosi sulla letteratura, permetta di diffondere il concetto di prevenzione in pazienti con età compresa tra 6 e 10 anni, con il fine di diminuire la prevalenza della patologia cariosa e sfruttando i trattamenti preventivi adatti al singolo.
Per fare ciò è necessario mettersi in contatto con alcune scuole primarie dell’ordinamento scolastico italiano. In modo del tutto casuale verranno scelte delle classi e, garantendo la totale privacy, si somministrerà loro un questionario con domande specifiche per valutarne il grado di conoscenza seguito da una dimostrazione teorica e pratica delle corrette manovre di igiene orale.
Step più importante comprenderà la valutazione della quantità e qualità di placca batterica presente in ogni singolo piccolo paziente, resa possibile mediante l’utilizzo delle pasticche rivelatrici di placca, che ci permetteranno di evidenziare la presenza della placca batterica senza introdurre strumenti invasivi all’interno del cavo orale. In questo modo si avrà un’analisi oggettiva della situazione, consentendoci di motivare ogni singolo paziente.
Il progetto sarà suddiviso in due incontri differenti:
Primo incontro:
Somministrazione del questionario pre-test di 10 domande per valutare la conoscenza generale degli scolari;
Seguirà un corso con slide e dimostrazione a cura dell’igienista dentale e del professore sulla problematica oggetto di studio;
Utilizzo di rivelatore di placca consistenti in pasticche (senza nessun trauma per il piccolo paziente).
Raccolti i dati per l’incidenza di placca;
Saranno offerti dei kit dentistici alle classi in esame;
Secondo incontro:
Dopo 15 giorni, verrà organizzato un secondo incontro dove sarà somministrato nuovamente il questionario di apprendimento al fine di valutare la recettività dei piccoli pazienti;
Utilizzo della pasticca rivelatrice di placca;
Raccolta dei dati per evidenziare possibili miglioramenti.
Verrà insegnato loro come utilizzare nel modo più appropriato possibile lo spazzolino, scegliendo la tecnica di spazzolamento più adatta al singolo in base all’età anagrafica, al livello cognitivo e al grado di collaborazione.
Tra i bambini piccoli è stato spesso suggerito e impiegato un metodo di “lavaggio orizzontale” facile e adeguatamente efficace. Le abilità manuali di spazzolamento dei denti, e il miglioramento di queste a livello personale, sono tradizionalmente valutate attraverso il successo della rimozione della placca misurata dai punteggi e dagli indici della placca.9
In base alla manualità del paziente, il metodo Bass modificato e il metodo Scrub modificato sembravano essere i metodi più comunemente raccomandati, ma non vi sono prove a sostegno della scelta di una tecnica rispetto all’altra.14
La durata di spazzolamento è di circa 3 minuti, fattore che dipenderà sempre dal grado di collaborazione. Affinché il piccolo paziente abbia la percezione visiva del tempo, è stato introdotto un oggetto in grado di misuralo: la clessidra.
Di seguito riportiamo il questionario da somministrare sia nel primo incontro; con lo scopo di verificare la conoscenza del piccolo paziente, sia nel secondo incontro; per valutare il grado apprendimento del singolo, in seguito alle informazioni date dall’igienista dentale.
Alla base di tale scelta, vi è il fine di divulgare le giuste conoscenze in una popolazione scolastica elementare, per mettere in atto la prevenzione delle patologie che colpiscono il cavo orale, allo scopo di diminuirne l’incidenza.
CONCLUSIONE
Con l’obiettivo di divulgare le notizie circa la prevenzione di patologie che colpiscono il cavo orale e di abbassare la prevalenza e l’incidenza di queste all’interno della popolazione, si è dimostrato che il punto di partenza è la prevenzione infantile; analizzando i dati a disposizione è emerso che è possibile migliorare le scorrette abitudini comportamentali del piccolo paziente mediante l’istruzione, l’informazione e l’esecuzione delle corrette manovre d’igiene orale.
BIBLIOGRAFIA
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Studio di Loe e Silness, 1963
Podshadley e Haley:q PHP (Patient Hygiene Performance)
Il bullismo rappresenta oggi un fenomeno piuttosto diffuso tra i minori adolescenti, dagli innumerevoli risvolti psicosociali. Il persecutore mette cioè in atto dei comportamenti denigratori verso la vittima, condizionando la sua vita personale e sociale. Negli ultimi anni il bullismo classicamente inteso è stato di fatto equiparato a quegli atti di prevaricazione che avvengono online. L’attenzione si sposta, cioè, ai social network e a tutti quegli strumenti che permettono la condivisione di spazi virtuali.
Il cyberbullismo viene definito come un atto aggressivo e volontario, provocato da un singolo individuo o da un gruppo di persone, utilizzando gli strumenti digitali per vittimizzare e prevaricare la vittima, la quale non riesce a difendersi come vorrebbe.
Autore
Dott.ssa Annamaria Venere – Sociologa Sanitaria – Criminologa Forense – Socio AICIS (Associazione Criminologi per l’Investigazione e la Sicurezza). Amministratore Unico: AV eventi e formazione – Direttore editoriale: Medicalive Magazine – Catania – annamariavenere.it.
Introduzione
[dropcap color=”#008185″ font=”0″]D[/dropcap]a uno studio del 2018 dell’Istat, è emerso che in Italia almeno la metà dei ragazzi di età compresa tra 11 e 17 anni è vittima di bullismo, con un’escalation dei casi tra gli 11 e i 13 anni. Più in particolare, è emerso che dal 2014 al 2018 poco più del 50 % dei ragazzi (22,5 % dei casi 11-13 anni e 17,9 % tra 14 e 17 anni) ha subito qualche episodio offensivo, non rispettoso o violento, a volte con una frequenza settimanale (nel 9,1 % dei casi). Questi numeri salgono ancora di più se al bullismo tradizionale aggiungiamo la percentuale dei moderni fenomeni di cyberbullismo.
Il bullismo rappresenta oggi un fenomeno piuttosto diffuso tra i minori adolescenti, dagli innumerevoli risvolti psicosociali. Con “bullismo” si intende un’interazione in cui un individuo o un gruppo di individui più dominanti causa intenzionalmente sofferenze a un individuo o un gruppo di individui meno dominanti.
Il persecutore mette cioè in atto dei comportamenti denigratori verso la vittima, condizionando la sua vita personale e sociale. Perché si possa parlare di bullismo (e cyberbullismo) deve però esserci un’intenzionalità da parte del “bullo”, colui che mette in atto gli atteggiamenti violenti, nonché una sistematicità e un’asimmetria nel rapporto tra quest’ultimo e la vittima, colei che invece subisce gli atti prevaricatori fisici o verbali (Lawson, 2001).
Le conseguenze psicosociali del bullismo nella vittima e nel bullo
Nella vittima, gli atti di bullismo hanno delle inevitabili conseguenze sotto il profilo psicosociale. Tralasciando le caratteristiche personologiche di quest’ultima e di come esse possano influenzare il suo divenire “vittima”, possiamo individuare alcune conseguenze del breve e lungo periodo, fra cui paura, scarsa autostima, sensi di colpa e di vergogna per non riuscire a fermare gli attacchi, senso d’impotenza e disperazione, isolamento sociale, stati depressivi, disturbi comportamentali, disturbi del sonno, disturbi alimentari e disturbi somatici (Fedeli, 2007).
Il quadro sintomatologico del bullizzato è, quindi, abbastanza ampio. Esso si riversa anche nella quotidianità del soggetto, ovvero la scuola, la famiglia e le altre aree sociali. Nel contesto scolastico, la vittima evidenzia un peggioramento nelle prestazioni cognitive, nonché difficoltà di concentrazione e comportamenti di evitamento, quali la fuga e l’abbandono scolastico. Tali comportamenti sono messi in atto, solitamente, per sfuggire al confronto diretto con il bullo. In merito alla famiglia, invece, il bambino bullizzato può mostrare segni di ulteriore isolamento sociale e vergogna, giacché la vittima cerca sempre di non confessare ai propri genitori le problematiche relazionali di cui sta soffrendo.
Le conseguenze psicosociali, tuttavia, non riguardano soltanto il bullizzato, ma anche colui che mette in atto il bullismo. Il bullo, infatti, è in genere (ma non sempre) un ragazzo la cui famiglia ha svariate e pregresse problematiche sociali, i cui comportamenti possono sfociare in altri atteggiamenti antisociali, come abuso di sostanze, disturbo antisociale di personalità, disturbi dell’umore e svariate problematiche con la giustizia. Anche nel bullo, peraltro, troviamo a livello scolastico deficit cognitivi, dovuti a iperattività, cali di concentrazione o devianze (Fedeli, 2007).
Cyberbullismo: le peculiarità psicosociali
Negli ultimi anni il bullismo classicamente inteso è stato di fatto equiparato a quegli atti di prevaricazione che avvengono online. L’attenzione si sposta, cioè, ai social network e a tutti quegli strumenti che permettono la condivisione di spazi virtuali.
Il cyberbullismo viene definito come un atto aggressivo e volontario, provocato da un singolo individuo o da un gruppo di persone, utilizzando gli strumenti digitali per vittimizzare e prevaricare la vittima, la quale non riesce a difendersi come vorrebbe (Castiglione et al. 2018).
Perché si possa parlare di cyber bullismo, occorrono anche in questo casi i seguenti elementi: ripetizione temporale dei messaggi offensivi, intenzionalità e aggressività da parte del bullo. Rispetto al bullismo tradizionale, però, in quello online ritroviamo un elemento aggiuntivo: l’anonimato da parte del persecutore (Gorini, 2018). Le modalità di offesa possono essere, pertanto, svariate: flaming (commenti volgari), online barassment (messaggi aggressivi), cyberstalkin (perseguitare la vittima con messaggi anche di natura violenta), denigrazione, provocare danni alla reputazione della vittima sotto falso nome (masquerade), rendere pubbliche informazioni personali (outing), escludere la vittima da gruppi online (exclusion), frodare la vittima (trickery). Questi elementi possono emergere per via diretta (messaggistica istantanea) o indiretta (social network) (Vrioni, 2019; Langos, 2012).
Sebbene le conseguenze psicosociali sulla vittima e sul bullo siano simili a quelle del bullismo tradizionale, l’aggiunta della caratteristica tecnologica e dell’anonimato, rendono il cyberbullismo ancora più pericoloso. I bulli online, infatti, possono seguire le proprie vittime 24 ore su 24: la vittima vive nella consapevolezza che chiunque, connettendosi, ad esempio, a un sito, possa riconoscere il suo volto, leggere le denigrazioni che ha ricevuto, contribuire alla diffusione delle sue immagini.
Gli effetti sulla vittima di atteggiamenti bulli, pertanto, possono essere disarmanti, giacché comportano una perdita dei confini spazio-temporali che, invece, sono salvaguardati nel bullismo tradizionale (Gorini, 2018). L’incapacità di difendersi della vittima, pertanto, suscita un dolore profondo che porta a esasperare il ritiro sociale e l’incapacità di confrontarsi o stare con gli altri.
Tra gli esiti psicologici, peraltro, abbiamo pesanti problemi nella vita relazionale, imbarazzo e vergogna, con conseguenti disturbi anche nella sfera emotiva. Nei casi in cui la vergogna sia amplificata, in situazioni estreme il bullizzato può mettere in atto anche condotte autolesive, sviluppare disturbi psicosomatici o tentare il suicidio (Vrioni, 2019; Jouriles, & Sargent, 2017).
Possibili ambiti di intervento: la prevenzione multidisciplinare
Nel nostro ordinamento giuridico non esiste una norma specifica contro il bullismo: il codice penale punisce la condotta lesiva messa in atto dal bullo, ma non riconosce il bullismo di per sé come reato. In ambito giuridico e politico, tuttavia, il dibattito è molto acceso, poiché vi è attualmente una proposta di legge già approvata dalla Camera dei Deputati a Gennaio 2020 e che ora si trova all’esame del Senato, la quale ha come oggetto di discussione proprio il bullismo. Questa legge andrebbe ad affiancare quella già esistente contro il cyberbullismo, la legge 71/2017.
Al di là degli aspetti giuridici, sono anche altri gli ambiti di intervento da attuare per prevenire il fenomeno. La prima prevenzione riguarda la scuola e il ruolo educativo svolto dall’insegnante, giacché la stessa scuola è il primo ambiente in cui i fenomeni di bullismo si manifestano. In questo caso possono essere attuate strategie preventive sull’allievo (di tipo educativo, interpersonale e socio comunicativo) o sul contesto (valorizzazione delle differenze individuali, l’aiuto e il supporto reciproco), dando risalto anche al ruolo dell’insegnante e alle sue capacità di rilevare e prevenire i segnali premonitori che attestino lo svilupparsi del fenomeno (Iannaccese, 2005).
Altro ambito in cui è necessario affrontare il bullismo, è il contesto familiare, in particolare nella capacità dei genitori di notare nel bambino quei campanelli d’allarme che possono far pensare che siamo in presenza di un fenomeno di bullismo, quali: segni d’ansia, regressioni a comportamenti infantili, sintomi fisici, umore depresso, difficoltà di concentrazione o del sonno (Fedeli, 2007).
Un intervento contro il bullismo, per essere efficace, tuttavia, deve prevedere, in ogni caso, una logica multidisciplinare, in cui famiglia, scuola e professionisti sanitari devono tutti assieme collaborare per prevenire sintomi psicosociali negativi futuri sia nel bullo che nella vittima.
Bibliografia
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In Italia il 25% dei pazienti con malattie neurologiche rare attende da 5 a 30 anni per ricevere conferma di una diagnosi. Situazione peggiorata dall’emergenza pandemica. SIN attiva per promuovere modalità telematiche di assistenza.
Autore
Salvo Falcone – Giornalista, Media Consultant, Direttore Responsabile Medic@live Magazine.
[dropcap color=”#008185″ font=”0″]N[/dropcap]ello scenario imposto dalla pandemia da Covid 19, i soggetti con patologie neurologiche rare si sono trovati ad avere maggiori difficoltà nella continuità assistenziale. L’allarme è stato lanciato dalla Società Italiana di Neurologia in occasione della Giornata Mondiale delle Malattie Rare che si celebra il 28 febbraio.
“In questo anno in cui la Pandemia da COVID-19 ha colpito tutto il mondo – ha dichiarato il Prof. Antonio Federico, già Direttore della Clinica Neurologica di Siena e professore emerito presso questa università – i pazienti con malattie neurologiche rare si sono trovati ad avere maggiori difficoltà nella continuità assistenziale, dal momento che hanno interrotto gli accessi in ospedale per proteggersi dalla possibile infezione del virus, limitando i controlli periodici e la riabilitazione, essenziale per limitare i danni di molte patologie e migliorare la autosufficienza, e anche le terapie, alcune delle quali necessitano di una somministrazione ospedaliera”.
Il lockdown e la limitazione dei contatti hanno inoltre contribuito a peggiorare alcuni aspetti psicologici di questi pazienti. “Come hanno fatto le ERNs (European References Networks) e altre istituzioni neurologiche internazionali, anche la Società Italiana di Neurologia – ha dichiarato il Prof. Gioacchino Tedeschi, Presidente della Società Italiana di Neurologia – è stata attiva nel promuovere lo sviluppo di modalità telematiche di assistenza come il teleconsulto, sia attraverso la costituzione di un Gruppo di Studio di Telemedicina, sia attraverso numerosi articoli pubblicati sulla rivista Neurological Sciences, organo della SIN, che ha proposto a livello internazionale modelli di valutazione a distanza dei pazienti”. La Neurologia ha un ruolo fondamentale nella cura delle Malattie Rare, dal momento che esse rappresentano più del 50% delle oltre 6000 malattie classificate in questo gruppo.
Istituita nel 2008 per volontà di EURORDIS, European Organisation for Rare Disease, l’organizzazione europea che raggruppa oltre 700 organizzazioni di malati di 60 paesi in rappresentanza di oltre 30 milioni di pazienti, la Giornata delle Malattie Rare è oggi un evento di caratura mondiale che coinvolge oltre 85 paesi nel mondo. Un evento che ha visto la collaborazione tra medici, ricercatori e pazienti, attraverso numerose attività divulgative, dibattiti e manifestazioni e soprattutto l’autorevole punto di vista degli esperti.
“Nell’intero percorso diagnostico e terapeutico – ha commentato il Prof. Gioacchino Tedeschi, – il neurologo rappresenta il primo interlocutore valido per tutte le malattie neurologiche rare. Inoltre, un numero enorme di queste patologie sono così rare da richiedere spesso un approccio multidisciplinare. Per questo motivo, diventa sempre più importante condividere le informazioni, facendo networking tra tutti i centri specializzati, le istituzioni, i medici e i ricercatori, al fine di garantire al paziente un’organizzazione assistenziale efficiente e adeguate possibilità terapeutiche”. Il 25% dei pazienti rari nel nostro Paese attende da 5 a 30 anni per ricevere conferma di una diagnosi; 1 su 3 è costretto a spostarsi in un’altra Regione per ricevere quella esatta. Convivere con una patologia rara rappresenta ogni giorno una sfida ed è quindi fondamentale ricevere il sostegno della propria comunità scientifica, soprattutto nel difficile passaggio del paziente dall’età pediatrica a quella adulta che può provocare alcune lacune nella diagnosi della malattia
La Società Italiana di Neurologia, con il suo gruppo di Studio Neurogenetica Clinica e Malattie Rare rappresenta un importante punto di riferimento a livello nazionale. Molti neurologi italiani hanno una attiva presenza all’interno delle varie Reti Europee di Eccellenza per le Malattie Neurologiche Rare (demenze fronto-temporali, atassie e paraparesi spastiche, coree, parkinsonismi rari, leucodistrofie), per le Malattie Neuromuscolari Rare e per le Epilessie Rare. A livello della Società Europea di Neurologia, due neurologi italiani hanno un ruolo di Coordinatori (Il Prof. G. Piazzi di Bologna e A. Federico di Siena) e la Federazione Mondiale di Neurologia, che riunisce i neurologi di tutto il mondo e che quest’anno avrà il suo Convegno biennale a Roma (3-7 ottobre), ha da poco attivato un Gruppo sulle Malattie Neurologiche Rare, affidando il coordinamento al Prof. Federico.
MALATTIE RARE, NASCE L’ASSOCIAZIONE SINDROME DI PIERPONT
In Italia ci sono 3 pazienti, nel resto del mondo un centinaio di età che varia da 0 a 23 anni. Si tratta della Sindrome di Pierpont, malattia genetica ultra-rara che nonostante la sua epidemiologia da oggi non lascia più isolate le famiglie che si trovano a viverla quotidianamente. È nata, infatti, a Milano l’Associazione Sindrome di Pierpont ad opera di Laura Bertolotti, che ha voluto mettere in contatto, instaurare un dialogo e creare una rete dei nuclei familiari italiani interessati da questa rarissima patologia. Laura, però, non è solo la fondatrice dell’associazione ma anche la mamma di Matteo, bambino di 8 anni affetto dalla Sindrome di Pierpont. Solo nel 2018 è arrivata la diagnosi corretta della malattia, ma i sintomi si sono presentati fin dalla nascita e il percorso in questi cinque anni non è stato affatto facile. Laura Bertolotti lo ha raccontato a OMaR: “All’inizio Matteo era piuttosto piccolo, ma i medici attribuivano questo aspetto a un problema di idronefrosi al rene, una cosa che non avrebbe dovuto avere nessuna ripercussione sul suo sviluppo futuro”. “Quando aveva circa una settimana – ha continuato Laura – Matteo ha però cominciato ad avere problemi alle vie urinarie e gli è stata diagnosticata l’escherichia coli. Qualche giorno dopo sono iniziate le convulsioni e così l’ho portato di nuovo in ospedale, dove è stato ricoverato per accertamenti. Di lì a poco ha perso la tonicità muscolare. Ci è voluto molto tempo, però, per capire che cosa avesse esattamente: solo nel 2018, tramite un test genetico di sequenziamento dell’esoma effettuato presso l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, è emersa una mutazione del gene TBL1XR1 ed è arrivata la diagnosi di Sindrome di Pierpont: una malattia rara il cui nome deriva da Mariella Pierpont, la genetista americana del Minnesota che per prima l’ha studiata e classificata”. In Italia, dunque, Matteo è stato il primo paziente a ricevere la diagnosi di Sindrome di Pierpont, mentre all’estero – negli Stati Uniti in particolare – erano già state individuate alcune decine di bambini affetti dalla patologia. “La Sindrome di Pierpont è una condizione ultra-rara, caratterizzata da ipotonia, dimorfismi del volto (più evidenti quando la persona sorride), disabilità intellettiva, epilessia, particolari cuscinetti ai polpastrelli delle dita e sulla parte anteromediale dei talloni e profondi solchi palmari e plantari – ha spiegato a OMaR la dottoressa Donatella Milani, medico genetista presso l’UO Pediatria alta intensità della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore di Milano – La condizione è causata da mutazioni a carico del gene TBL1XR1, localizzato nella regione cromosomica 3q26. Mutazioni a carico dello stesso gene possono causare anche forme di disabilità intellettiva isolata, autismo o sindromi lievemente distinte dalla Sindrome di Pierpont classica. Queste condizioni sono a oggi certamente sottodiagnosticate per via della loro rarità e per la scarsa conoscenza da parte della comunità medica. Gli esperti del settore sono tuttavia attivi negli studi per comprendere meglio questa patologia, sia dal punto di vista biologico che clinico”. Creare una rete di specialisti è sicuramente un elemento importante per conoscere meglio la malattia, così come fare network tra i pazienti. È per questo che Laura Bertolotti ha deciso di dar vita all’Associazione Sindrome di Pierpont, con l’obiettivo di garantire un punto di riferimento per le famiglie italiane che si trovano, o si troveranno, ad affrontare la patologia. Uno step successivo, nelle intenzioni della fondatrice, potrebbe essere quello di creare una sezione scientifica per finanziare le ricerche che la dottoressa Donatella Milani sta portando avanti all’interno del Policlinico di Milano. “La maggior parte dei genitori, però, ha paura di esporsi, perché si parla per lo più di pazienti minorenni – ha concluso Laura Bertolotti – Io invece voglio metterci la faccia e far conoscere questa sindrome al mondo. Non ho manie di grandezza, voglio solo trovare una voce per i nostri bambini”.
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