Rivista del mese

 


In ogni ambiente naturale, a maggior ragione in montagna dove è possibile trovare diversi scenari, come ad esempio grotte, fiumi, laghi, boschi, dirupi, l’imprevisto è sempre possibile, e spesso si riscontra la necessità di dover attivare un’unità di soccorso specializzata il “soccorso alpino”, in cui l’infermiere riveste un ruolo centrale.

Quando si verifica una difficoltà durante una gita/escursione il primo passaggio da effettuare è la chiamata al 118 che attiva la “macchina del soccorso”; dunque l’infermiere dovrà valutare la componente ambientale (localizzazione del paziente, impervietà del luogo, minacce ambientali), la componente sanitaria (condizioni cliniche generali), infine valutare che tipo di squadra di soccorso deve essere attivata.

Le maggiori difficoltà durante il soccorso in ambiente ostile, sono legate sia ai rischi ambientali dovuti agli scenari imprevedibili e spesso di difficile accesso, sia alle condizioni cliniche del paziente, che devono essere in primo luogo accertate, monitorate e trattate. La stabilizzazione, la messa in sicurezza e il trasporto seguono questa prima fase; durante il trasporto è fondamentale una continua rivalutazione del paziente.

Tra le problematiche più importanti in ambiente montano troviamo:

  • Patologie da freddo (congelamento, stato di ipotermia)
  • Patologie da caldo (colpo di sole e colpo di calore)
  • Traumi (per cadute o sommersione da valanga)
  • Morso di vipera
  • Annegamento (in fiumi o laghi)

 

Una volta individuato e raggiunto l’infortunato, occorre procedere alla sua immobilizzazione, eseguire le relative manovre sanitarie (in base alle problematiche cliniche) e comunicare con il 118; una volta stabilizzato, è necessario provvedere al trasporto.

Una delle maggiori criticità nell’intervento in ambiente ostile è il fattore tempo. Per questo motivo viene spesso attivato il servizio di elisoccorso che, oltre ad essere un mezzo di trasporto molto rapido, può arrivare quasi ovunque con una squadra sanitaria addestrata formata da medico e infermiere che, coadiuvati dai sanitari delle squadre di terra, stabilizzano il paziente e lo centralizzano nell’ospedale adeguato alle sue condizioni.1

Esaminiamo le principali problematiche riscontrabili:

 

PATOLOGIE DA FREDDO

Per ipotermia s’intende una diminuzione della temperatura corporea al di sotto dei 35°C. Tale condizione, reversibile e recuperabile, può precipitare fino all’assideramento, condizione che si verifica quando la temperatura corporea scende al di sotto dei 35°C, sino ad arrivare ai 24-26°C.

Quando l’organismo è esposto a basse temperature il corpo umano mette in atto meccanismi fisiologici di difesa per contrastare tale condizione, come ad esempio la vasocostrizione periferica, per cercare di aumentare l’afflusso di sangue caldo ai visceri, l’aumento della frequenza cardiaca per incrementare la circolazione sanguigna e il brivido.

Se l’ambiente circostante è freddo, il calore sviluppato viene sottratto in modo rapido dall’ambiente stesso.

Nel caso in cui queste reazioni non sortiscano alcun effetto, col passare del tempo tutte le funzioni difensive e fisiologiche cominciano ad indebolirsi progressivamente.

In base alla temperatura centrale, l’ipotermia si può distinguere in quattro stadi di gravità:

  • Lieve (35°- 35°C): torpore, confusione mentale, amnesia, disartria, brividi, perdita della coordinazione motoria, tachipnea;
  • Moderata (29°- 32°C): delirio, iporiflessia, brividi, bradipnea e bradicardia;
  • Severa (< 29°C): perdita di coscienza, marcata rigidità, shock, apnea, ariflessia;
  • Morte apparente (14° – 24°C): incoscienza, midriasi fissa, arresto cardiocircolatorio da FV o asistolia.

Esistono due metodi per riscaldare il paziente:

  • Interno: si basa sulla somministrazione di liquidi riscaldati attraverso diverse metodologie. Il primo modo per aumentare la temperatura corporea internamente è quello di somministrare liquidi attraverso appositi scalda-infusioni, che possono riscaldarli prima della somministrazione oppure durante la stessa. Per l’ipotermia di grado moderato/severo, va preso in considerazione il ricorso a lavaggi gastrici o vescicali con liquidi scaldati a 40°C. Nel caso il paziente presenti ipotermia severa, infine, va considerato il riscaldamento attraverso la circolazione extracorporea. Ovviamente tutte procedure difficilmente applicabili in campo aperto.
  • Esterno: i più efficienti strumenti per il riscaldamento del paziente e la prevenzione dell’ipotermia sono i sistemi convettivi ad aria calda (“forced air warming”). In commercio esistono coperte di diverso formato in modo tale da garantire un’adeguata copertura del paziente rispetto alle differenti tipologie e sedi di intervento. Altri metodi di riscaldamento esterno sono la coperta elettroriscaldata e i sistemi passivi. Questi strumenti, però, presentano notevoli limitazioni. In riferimento ai sistemi passivi (coperta normale, metallina, ecc.), essi servono soltanto a non disperdere calore per convezione ed irradiazione, ma non a riscaldare il paziente.

soccorsoLa misurazione della temperatura corporea deve essere esatta e costante, in quanto risente fortemente del metodo e della sede utilizzati per rilevarla.

La temperatura da monitorare è sempre quella centrale, ovvero la temperatura che si registra nel centro termoregolatore a livello dell’encefalo, organi mediastinici e della cavità toracica.

Le principali sonde di registrazione sono la sonda nasofaringea, la sonda esofagea e la sonda vescicale, la quale riflette in maniera abbastanza fedele la temperatura centrale con i vantaggi di  sicurezza, attendibilità, economicità e velocità di rilevazione.

Per quanto riguarda i presidi non invasivi il più utilizzato è la sonda timpanica, la quale rappresenta il metodo più accurato non invasivo per il monitoraggio della temperatura. Questa sonda, che utilizza una tecnologia ad infrarossi, possiede però un range molto limitante entro il quale è operativa (34° – 42,2°C) e la sonda cutanea, il cui utilizzo non è però raccomandato.2

PATOLOGIE DA CALDO

Possiamo identificare due scenari, il primo riguardo ai danni dovuti ad esposizione errata e prolungata  ai raggi solari, il secondo riguardo all’approccio ad un evento di incendio boschivo, nel quale può essere coinvolta la vittima ma anche  il professionista giunto in soccorso, sia esso vigile del fuoco o operatore volontario di antincendio boschivo.

Il colpo di sole comporta un aumento della temperatura corporea a causa dell’irradiazione solare e di una protezione inadeguata e può associarsi a ustioni sulla pelle o sul capo: questa condizione avviene soprattutto in montagna, dove le temperature sono più basse ma gli ampi spazi aperti determinano una costante esposizione al sole. Il colpo di calore, invece, può manifestarsi anche al chiuso o in assenza del sole, quando la temperatura esterna è molto alta ed è associata a un elevato tasso di umidità o alla mancanza di ventilazione, condizioni a cui l’organismo non riesce ad adattarsi.

soccorsoTra i danni da calore negli ambienti di incendio boschivo, i maggiori problemi sono ricondotti in ordine di rilevanza, all’inalazione di fumo, alla disidratazione e alle ustioni.

 

Il fumo generato dagli incendi ha una composizione diversa rispetto ad altri prodotti della combustione. Le specie chimiche sviluppate sono determinate da molti fattori unici come il luogo dell’incendio, il tipo di vegetazione bruciata e le condizioni meteorologiche.

Gli incendi producono proporzionalmente più particolato fine (meno di 2,5 micron) e ultrafine (sotto 1 micron) rispetto al particolato grossolano, definito come particelle di dimensioni inferiori a 10 micron (PM 10 ).

Il particolato fine e ultrafine è molto pericoloso per la salute umana a causa della sua capacità di penetrare più profondamente nel polmone.

Il particolato trovato nel fumo degli incendi è una miscela eterogenea di specie chimiche, la composizione dipende dal tipo di biomassa bruciata e dalle condizioni della combustione.

La fase senza fiamma della combustione del legno è associata a una maggiore produzione di particolato e può rappresentare una grande percentuale delle emissioni totali di inquinanti atmosferici degli incendi.

Il maggiore impatto del fumo degli incendi boschivi sul sistema sanitario deriva dai pazienti che cercano cure per i sintomi respiratori. Le visite di emergenza per sintomi respiratori aumentano nelle aree colpite dal fumo degli incendi. In particolar modo le patologie associate sono asma, bronchite, dispnea e BPCO.

Il caldo e un’eccessiva sudorazione possono determinare anche un elevato rischio di disidratazione: l’organismo perde più liquidi di quanti ne assuma e si altera l’equilibrio di sali minerali e zuccheri.

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I sintomi principali sono sete, debolezza, vertigini, palpitazioni, ansia, pelle e mucose asciutte, crampi muscolari ed ipotensione. Nei casi più gravi invece la disidratazione può essere accompagnata da stato confusionale, perdita di coscienza, shock fino a morte.

In caso di disidratazione lieve può essere sufficiente bere molta acqua. Nei casi un po’ più gravi, è necessario assumere una particolare soluzione reidratante orale che contiene la giusta concentrazione di sali minerali (elettroliti) e zuccheri. Il consumo di succhi di frutta, bibite gassate e bevande sportive non è altrettanto efficace. In caso di disidratazione grave, si somministrano liquidi per via endovenosa.

I casi lievi e moderati possono risolversi in meno di un giorno, la disidratazione grave deve essere trattata in ospedale e occorrono da 2 a 3 giorni per la risoluzione con una terapia appropriata.

USTIONE

Tra le maggiori cause di ustione in luoghi aperti  sicuramente troviamo il classico eritema solare, comune ma non da sottovalutare, in special modo se questo interessa buona parte della superficie corporea. Altro evento che può verificarsi è l’ustione da esposizione ad un incendio boschivo. In entrambi i casi la corretta procedura da seguire è la stessa:  accertare il grado dell’ustione e la sua estensione.

Prima  regola è quella di agire soltanto se la scena è sicura per l’operatore; di seguito valutare rapidamente le funzioni vitali, praticare RCP (se necessario), successivamente raffreddare le zone interessate con abbondante acqua o fisiologica fredda. Poiché l’acqua conduce il calore 22 volte più dell’aria, il lavaggio risulta come una vera e propria estrazione di calore, riducendo quindi profondità delle lesioni, edema e dolore. Poi rimuovere tutti i tessuti non aderenti alla cute allo scopo di eliminare un ulteriore fonte di calore residuo. In caso di vestiti aderenti alla cute è bene coprire con impacchi freddi. Subito dopo averla raffreddata, la priorità diventa quella di riscaldare la vittima, ossia limitare la dispersione termica causata dalla distruzione dei tegumenti.

Il supporto avanzato del paziente ustionato riguarda soprattutto le lesioni termiche all’apparato respiratorio, l’inalazione di gas tossici e l’ipovolemia. Solo l’ultima, è facilmente riscontrabile in ambiente per il quale l’intervento deve essere tempestivo e decisivo fin dall’ambiente pre-ospedaliero, attraverso l’applicazione di due accessi venosi di grosso calibro e all’infusione di cristalloidi nella misura di 30ml/kg per ora, fino all’ arrivo nella struttura ospedaliera.

TRAUMI

Uno scenario frequentemente riscontrabile, è quello del soccorso al traumatizzato in montagna,  che potrebbe  implicare  un recupero lungo e difficoltoso. Per intervenire in queste situazioni la squadra di soccorso non deve mai perdere d’occhio il fattore sicurezza: un piccolo errore o una dimenticanza, al quale in ambienti urbani è facile porre rimedio, in queste circostanze può compromettere la riuscita del recupero, o peggio,  l’aggravamento delle condizioni di salute del paziente se non il suo decesso. Avere anche solo le condizioni minime e indispensabili per portare l’infortunato in area sicura, è essenziale per non mettere a repentaglio la propria vita e quella del paziente.

Le  problematiche maggiori, sono quelle relative alla quantità di materiale,  a sufficienza per tutta la durata del recupero nel caso in cui il soccorso non possa essere effettuato tramite elicottero HEMS, ovvero in alcuni scenari di soccorso alpino, e nella totalità dei soccorsi speleologici.

soccorsoNella catena del soccorso, la fase critica  è quella della richiesta di soccorso: difatti spesso il paziente non è fisicamente in grado di lanciare la richiesta o il cellulare non funziona o l’ambiente (per es. la  grotta) lo rende estremamente difficoltoso. La sola richiesta di soccorso può necessitare di molte ore.

Tra gli sport di montagna che richiedono il maggior numero di interventi troviamo il trekking, anche se all’apparenza sembra esporre a meno rischi. In realtà, essendo praticato da un gran numero da persone poco esperte, presenta più rischi di infortuni, spesso minori, ma che succedendo in luoghi sfavorevoli e possono complicare la prognosi e le procedure di soccorso.

Non di poco aiuto sono, a tal riguardo,  corsi di primo soccorso a praticanti sport montani nonché la buona abitudine di portare con se medicazioni basilari quali ad esempio bende, garze, sottili steccobende con anima di alluminio modellabili, cerotti e farmaci personali.

Per il soccorso durante la stagione invernale ad un paziente travolto da valanga, le prime considerazioni da fare, oltre a quali tecniche di disseppellimento applicare, sono il tempo ipotetico di seppellimento dalla neve del travolto e l’esistenza o meno di una cavità aerea intorno al capo, in particolare davanti a naso e bocca.

I soccorritori, dunque, con tecniche che prevedono l’impiego di vista-udito, unità cinofile e sonde, scaveranno in direzione obliqua a creare una nicchia, un tunnel in direzione della testa dell’assistito al fine di creare un’area sufficientemente ampia a prestare i primi soccorsi.

soccorsoA questo punto l’attenzione passa alla movimentazione molto lenta del paziente per evitare danni post-traumatici, con particolare attenzione alla colonna vertebrale.

Una volta raggiunto il corpo, i soccorritori lo isolano da ulteriore raffreddamento, e se possibile ed in possesso di materiale adatto per un efficace isolamento,  rimuovono gli indumenti bagnati e avvolgono il corpo in uno scudo idrorepellente anti-vento.

Quando il seppellimento stimato è inferiore ai 45 minuti il pericolo maggiore è l’asfissia acuta, la quale indirizzerà le tecniche di intervento urgenti (ABC, posizione laterale di sicurezza).

Se l’assistito presenta un buon livello di coscienza, viene invitato a compiere semplici movimenti attivi per favorirne il riscaldamento e ad assumere bevande calde, non alcoliche.

Nel caso in cui il seppellimento stimato sia superiore ai 45 minuti, il pericolo è dato dall’assideramento, e assenza di segni vitali,  le manovre rianimatorie intraprese sul posto verranno continuate ininterrottamente fino all’intervento del soccorso organizzato o all’arrivo in ospedale.4

MORSO DI VIPERA

In caso di morso di serpente sarebbe opportuno che la vittima cercasse di capire da quale specie di serpente è stato morsa. In Italia l’unica specie realmente pericolosa è la vipera, a differenza della biscia, molto più comune da incontrare e, per fortuna, innocua. La vipera ha la caratteristica testa triangolare piatta ricoperta di placchette piccole e irregolari che si distingue bene dal collo, ha le pupille a fessura verticale, la lunghezza è inferiore al metro e la coda è tozza, può avere l’apice arancione.

Il suo ambiente ideale è caratterizzato da una temperatura che va dai 15 ai 35 gradi, da luoghi aridi e sotto i sassi o tra siepi ed arbusti.

Non è aggressiva e attacca solo se non ha via di scampo, la sua difesa è quindi il morso con due denti aguzzi distanziati di circa 8-10 mm uno dall’altro.

Il veleno delle vipere italiane, di norma, non è letale anche se può causare gravi complicanze che richiedono un trattamento adeguato. Può essere invece letale per bambini piccoli e anziani con malattie croniche o debilitanti.

La pericolosità è dovuta principalmente all’azione emotossica che crea coagulopatie e a quella neurotossica, che può causare paralisi spastica, convulsioni, alterazioni della coscienza o edema cerebrale.

Il morso di vipera di solito lascia il segno dei denti veleniferi: si tratta di due forellini di piccolo diametro distanziati di circa 1 cm uno dall’altro.

In caso di morso di vipera:

  • Chiamare i soccorsi senza ritardi;
  • Non incidere la zona interessata dal morso, con rischio di diffondere il veleno per via ematica;
  • Non succhiare il veleno, che oltre ad essere poco efficace è anche pericoloso per chi lo fa;
  • Non posizionare laccio emostatico, inefficace e dannoso, poiché aumenta l’assorbimento del veleno per via linfatica;
  • Mantenere la calma e non far agitare il paziente: i movimenti facilitano la diffusione del veleno. Inoltre potrebbe non essere una vipera;
  • Non somministrare siero antivipera poiché, oltre ad essere inefficace dopo poco tempo fuori dal frigorifero, comporta elevato rischio di reazioni anafilattiche anche mortali. Va somministrato solo da sanitari in ambiente protetto e solo nel caso di reale necessità;
  • Immobilizzare il paziente: se l’arto è immobile si ritarda la diffusione del veleno;
  • Eseguire un bendaggio linfostatico (iniziare la fasciatura dal punto del morso e poi proseguire verso l’estremità dell’arto. Quindi risalire fino alla radice dell’arto. Può essere utile aggiungere una stecca per limitare ulteriormente i movimenti della persona e quindi l’espansione del veleno).

In pochi minuti avviene una reazione locale sul punto del morso caratterizzata dai classici segni di flogosi (calore, dolore, rossore e gonfiore) che si estende a tutto l’arto in circa 6 ore, si gonfia lentamente fino a diventare duro, dolente, freddo e bluastro. In circa 12 ore cominciano segni di chiazze cianotiche ed ischemiche, flittene e linfangite con culmine in seconda giornata.

Le reazioni sistemiche importanti, a parte lo shock anafilattico,  non avvengono prima di 2 ore, concedendo quindi il tempo alla vittima di arrivare in Pronto Soccorso.

Possono verificarsi trombosi o emorragie, ipotensione, tachicardia, febbre a 38°-39° C, vomito, nausea, angoscia, senso di mancanza d’aria o crisi simil-asmatica, oliguria, coma o convulsioni per azione sul SNC, raramente nei bambini e negli anziani arresto cardiaco.5

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ANNEGAMENTO

L’annegamento viene definito come una forma di asfissia acuta, indotta da causa meccanica esterna, dovuta a occupazione dello spazio alveolare polmonare da un liquido introdotto attraverso le vie aeree superiori.

Il paziente avrà problematiche fisiopatologiche che dipendono anche dal tipo di acqua ingerita (acqua salata, acqua dolce o acqua con cloro nelle piscine), ma la caratteristica più importante è che l’annegamento spesso comporta la permanenza in acque a bassa temperatura, favorendo in questo modo lo sviluppo di ipotermia.

L’annegamento si può suddividere in tre fasi che avvengono in successione in base al tempo di permanenza in acqua, ciascuna delle quali caratterizzata da una manifestazione clinica diversa: laringospasmo, inondazione bronco-alveolare e arresto cardiocircolatorio.

Laringospasmo: la sommersione prolungata in un soggetto cosciente determina la chiusura volontaria della glottide allo scopo di proteggere le vie aeree e impedire l’aspirazione del liquido.

Il contatto delle vie aeree con liquidi freddi, inoltre, può dare origine ad uno spasmo laringeo riflesso che può essere transitorio, con successivo inondamento delle vie aeree, o persistente, che impedisce al liquido l’ingresso nei polmoni.

La sommersione in un soggetto non cosciente può consentire, al contrario, l’immediata inondazione delle vie aeree.

Inondazione bronco-alveolare: l’ipossia e l’ipercapnia derivati dal transitorio arresto respiratorio stimolano i centri nervosi al fine di far riprendere la respirazione. In questo modo avviene un’improvvisa apertura della glottide con conseguente ingresso di notevole quantità d’acqua nei polmoni, impedimento degli scambi gassosi, alterazione del surfattante, collasso alveolare e sviluppo di atelettasie e shunts.

Arresto cardiocircolatorio: l’anossia, l’acidosi e gli squilibri elettrolitici ed emodinamici derivanti dall’asfissia determinano disturbi del ritmo fino all’arresto cardiaco.

Il trattamento extraospedaliero di un paziente vittima di annegamento si basa su cinque principi assistenziali fondamentali da mettere in atto sul luogo dell’incidente:

  • Tempestività: è fondamentale l’importanza del fattore tempo, inteso come il tempo trascorso dalla sommersione al soccorso, in relazione alle possibilità di sopravvivenza
  • Recupero e primo intervento: il primo intervento da attuare è quello di rimuovere la persona dal liquido in cui è immersa. Durante il recupero deve essere eseguita una valutazione dello stato di coscienza, della pervietà delle vie aeree e della presenza di circolo. Dovrebbe essere sempre sospettata la presenza di un trauma spinale
  • Garantire un’adeguata ventilazione: il trattamento delle vie aeree dipende dal livello di coscienza, dalla pervietà delle vie aeree, dalla presenza di secrezioni, dall’inalazione e dall’apnea
  • Garantire un’adeguata perfusione: le aritmie cardiache riscontrabili dal monitoraggio continuo dell’ECG sono di origine prevalentemente ipossica ed il loro trattamento verte su una buona ossigenazione del paziente
  • Mantenere un’adeguata temperatura corporea: l’obiettivo del trattamento extraospedaliero è quello di riscaldare il paziente e di evitare ulteriori perdite di calore attraverso le tecniche di riscaldamento a disposizione , il successivo trasporto in ospedale permetterà l’utilizzo dei più avanzati sistemi di riscaldamento attivo per il recupero completo del paziente.6
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Avv. Angelo Russo

Avvocato Cassazionista, Diritto Civile,
Diritto Amministrativo, Diritto Sanitario, Catania

 

 

A quasi da due anni dall’insorgenza della pandemia Covid 19 è possibile tracciare alcuni punti fermi in ordine alle problematiche derivanti dall’obbligo vaccinale, in varie forme imposte dallo Stato, e dai connessi profili risarcitori.

Sul punto della legittimità e del fondamento costituzionale dell’obbligo vaccinale, essa è stata recentemente ribadita dalla sentenza n. 7045/2021 del Consiglio di Stato che ha fissato, in modo estremamente preciso e puntuale, i motivi di necessità che lo giustificano a tutale di una società democratica.

Il Supremo Organo della Giustizia Amministrativa, in sintesi, ha chiarito:

Il legislatore, in una situazione pandemica che vede il diffondersi di un virus a trasmissione aerea,

altamente contagioso e spesso letale per i soggetti più vulnerabili per via di malattie pregresse – si pensi ai pazienti cardiopatici, diabetici od oncologici – e dell’età avanzata, ha il dovere di promuovere e, se necessario, imporre la somministrazione dell’unica terapia – quella profilattica – in grado di prevenire la malattia o, quantomeno, di scongiurarne i sintomi più gravi e di arrestare o limitarne fortemente il contagio”.

“Questa scelta dello Stato avviene nella consapevolezza sia di rischi a breve termine che dell’esistenza del c.d. “ignoto irriducibile”, cioè del margine di incertezza, che nonostante tutti gli sforzi della ricerca scientifica, rende impossibile prevedere il rapporto rischio/beneficio degli effetti del vaccino nel lungo periodo.”

L’iter motivazionale del Consiglio di Stato sottolinea, pur nella centralità della tutela della persona, la legittimità dell’imposizione di un trattamento sanitario che possa recare qualche rischio, anche sconosciuto, per la salute.

L’obbligo vaccinale, invero, non viola il primato della persona, “e ciò non perché (come afferma chi enfatizza e assolutizza l’affermazione di un giusto valore concepito però come astratto bene) la persona receda a mezzo rispetto ad un fine o, peggio, ad oggetto di sperimentazione, in contrasto con il fondamentale principio personalista, a fondamento della nostra Costituzione, che vede nella persona sempre un fine e un valore in sé, quale soggetto e giammai oggetto di cura, ma perché si tutelano in questo modo tutti e ciascuno, anzitutto e soprattutto le persone più vulnerabili ed esposte al rischio di malattia grave e di morte, da un concreto male, nella sua spaventosa e collettiva dinamica di contagio diffuso e letale, in nome dell’altrettanto fondamentale principio di solidarietà, che pure sta a fondamento della nostra Costituzione (art. 2), la quale riconosce libertà, ma nel contempo richiede responsabilità all’individuo”.

Il Consiglio di Stato chiarisce, in linea con l’orientamento della CEDU, che “in un ordinamento democratico la legge non è mai diritto dei meno vulnerabili o degli invulnerabili, o di quanti si affermino tali e, dunque, intangibili anche in nome delle più alte idealità etiche o di visioni filosofiche e religiose, ma tutela dei più vulnerabili, dovendosi rammentare che la solidarietà è la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dalla Costituzione”.

Sul punto della presunta lesione del diritto all’autodeterminazione, la sentenza sottolinea (e stigmatizza) la “logica dei diritti tiranni e, cioè, di diritti che non entrano nel doveroso bilanciamento con eguali diritti, spettanti ad altri, o con diritti diversi, pure tutelati dalla Costituzione, e pretendono di essere soddisfatti sempre e comunque, senza alcun limite”.

La pretesa autodeterminazione (che non accetta l’imposizione vaccinale) per il Collegio è estranea ad un ordinamento democratico, quant’è vero che “il concetto di limite è insito nel concetto di diritto”.

Il Consiglio di Stato, poi, mette un punto fermo sulla tesi della “sperimentalità” del vaccino.

Il vaccino anti-Covid19, per il Consiglio di Stato, non è sperimentale (contrariamente a quanto si sente spesso ripetere in modo acritico e improprio).

I vaccini anti-Covid19 non hanno carattere “sperimentale”, ma hanno ricevuto piuttosto un’ autorizzazione all’immissione in commercio condizionata che può essere rilasciata anche in assenza di dati clinici completi, “a condizione che i benefici derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari”.

vaccino

La questione è centrale anche in relazione alle possibili richieste di indennità o di risarcimento.

Il carattere condizionato dell’autorizzazione, sottolinea il Consiglio di Stato, non incide sui profili di sicurezza del farmaco ma impone unicamente al titolare di «completare gli studi in corso o condurre nuovi studi al fine di confermare che il rapporto rischio/beneficio è favorevole».

Il discorso, quindi, si sposta su effetti e reazioni avverse.

Le reazioni, dopo la somministrazione del vaccino, sono distinte in:

Evento avverso: episodio sfavorevole non e necessariamente causato dall’aver ricevuto la vaccinazione.

Reazione avversa: risposta nociva e non intenzionale alla vaccinazione, per la quale è possibile stabilire una relazione causale con la vaccinazione stessa.

La differenza si fonda sulla possibilità di risalire a una causa legata al vaccino e non è sufficiente che l’evento si sia verificato a breve distanza dalla vaccinazione.

Effetto indesiderato è l’ effetto non intenzionale connesso alle proprietà del vaccino, che non è necessariamente nocivo ed è stato osservato in un certo numero di persone.

Si tratta, quindi, di un possibile effetto noto, verificatosi nel corso del tempo e considerato accettabile.

A loro volta le segnalazioni di eventi a seguito della somministrazione del vaccino si distinguono in:

Correlabile allorquando l’associazione causale fra evento e vaccino è considerata plausibile.

Non correlabile allorquando altri fattori possono giustificare l’evento.

Indeterminata se l’associazione temporale è compatibile, ma le prove non sono sufficienti a supportare un nesso di causalità (fonte AIFA).

Quanto ai numeri degli effetti avversi di una certa gravità (gli unici suscettibili di essere indennizzati o risarciti), alla data della sentenza del Consiglio di Stato (fine settembre 2021) l’AIFA

segnalava 120 segnalazioni di “sospette reazioni avverse” ogni 100 mila dosi somministrate, (101.110 segnalazioni su un totale di 84.010.605 di dosi) indipendentemente dal tipo di vaccino e dalla dose.

Le segnalazioni riguardavano soprattutto Comirnaty , che è stato il più utilizzato, mentre in minor misura Vaxzevria e Spikevax.

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L’85% degli eventi avversi sono classificati come eventi non gravi.

Il 14,4% come reazioni avverse (17 ogni 100 mila dosi) con esito in risoluzione completa o miglioramento nella maggior parte dei casi.

vaccinoAfferma il Consiglio di Stato che “Le risultanze statistiche evidenziano dunque l’esistenza di un bilanciamento rischi/benefici assolutamente accettabile e i danni conseguenti alla somministrazione del vaccino per il SARS-CoV-2 devono ritenersi, considerata l’estrema rarità del verificarsi di eventi gravi e correlabili, rispondenti ad un criterio di normalità statistica”.

La presenza di una tutela indennitaria per i danni causati dal vaccino, costituisce, come noto, uno dei presupposti per la legittimità dell’obbligo vaccinale.

La compatibilità con l’art. 32 Cost della legge impositiva di un trattamento sanitario è data dalla presenza di alcune condizioni, indicate dai giudici di legittimità:

  1. a) Il trattamento deve essere diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri.
  2. b) Non deve incidere negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili.
  3. c) Nell’ipotesi di danno ulteriore, deve essere prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria.

Occorre, sul punto, precisare la differenza tra indennizzo e risarcimento.

Il risarcimento del danno, presuppone sempre l’esistenza di un nesso tra un fatto illecito ed un danno ingiusto.

Il diritto all’indennizzo, invece, prescinde dalla colpa e non richiede la prova di un illecito, ma sorge per il solo accertamento che la menomazione irreversibile sia stata causata dalla vaccinazione.

Se il danno causato dal vaccino è, pertanto, legato ad un errore del medico curante (che ad esempio, pur conoscendo una determinata patologia del paziente non ha sconsigliato la somministrazione del vaccino), o all’esecuzione dell’iniezione da parte del personale sanitario, oppure ancora alla somministrazione di una fiala proveniente da un lotto difettoso, o comunque da altro comportamento colposo di uno dei soggetti coinvolti nella catena di somministrazione della dose vaccinale, è possibile cumulare l’indennizzo con la tutela risarcitoria.

In tutti gli altri casi in cui gli effetti avversi si sono verificati in seguito al vaccino, senza che vi sia alcun responsabile e alcuna colpa, sarà possibile accedere comunque alla tutela indennitaria, la quale trova la propria ragione “nell’inderogabile dovere di solidarietà che in questi casi incombe sull’intera collettività ” che trae beneficio dal trattamento vaccinale del singolo.

L’indennizzo, in altre parole, ha natura equitativa e consente agli interessati una protezione certa e predefinita per legge (C. Cass. n. 118 del 1996, C. Cost. n. 268/2017).

La vaccinazione Anticovid-19, obbligatoria per gli esercenti le professioni sanitarie (Decreto-legge n. 44/2021, articolo 4) e per tutta la popolazione over 50, rientra a pieno titolo, nell’art. 1 della L. 25.2.1992, n. 210, in base al quale “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge”.

vaccinazioneIn base alla citata norma, e secondo le regole della tutela indennitaria, il danneggiato dovrà provare di aver subito lesioni o infermità di tale intensità da aver causato una menomazione permanente dell’integrità psico-fisica (sono dunque irrilevanti eventuali febbri passeggere, o modesti disturbi transitori) e che il danno subito è conseguenza della vaccinazione.

L’indennizzo da vaccino obbligatoria ha copertura costituzionale trattandosi di misura di sostegno economico, fondato sulla solidarietà collettiva garantita ai cittadini, alla stregua dei citati art. 2 e 38 Cost., a fronte di eventi generanti una situazione di bisogno, misura che trova fondamento nella insufficienza dei controlli sanitari predisposti nel settore.

vaccinazione

Dal 2001, come noto, la competenza per la procedura di indennizzo è stata trasferita dal Ministero della Salute alle Regioni (D.lgs. 31 marzo 1998 e D.p.c.m. 26 maggio 2000), con la sola eccezione della Sicilia.

La domanda di indennizzo è presentata dall’interessato alla ASL di residenza, la quale svolge l’istruttoria, verificando la completezza della documentazione allegata e il possesso dei requisiti previsti dalla legge.

Al termine della fase istruttoria, l’Azienda sanitaria invia il fascicolo alla Commissione medica ospedaliera (CMO) competente, che deve convocare a visita l’interessato.

È compito della CMO accertare l’esistenza del nesso causale tra l’infermità ed il vaccino, qualificare il grado di infermità e la tempestività di presentazione della domanda.

Il verbale della CMO è notificato al richiedente, che ha 30 giorni di tempo dalla notifica per presentare eventuale ricorso contro la decisione al Ministero della Salute.

L’importo dell’indennizzo è calcolato sulla base della tabella B allegata alla L. 177/1976 (come modificata dall’art. 8 L. 111/1984) rivalutabile annualmente e da una somma pari all’indennità integrativa speciale (L. 324/59 e D.P.R. n. 834 del 1981), anch’essa per la giurisprudenza soggetta a rivalutazione.

L’assegno di indennità è reversibile per 15 anni.

I danneggiati da vaccino obbligatoria possono presentare ulteriore domanda per ottenere un assegno una tantum, pari al 30% dell’indennizzo dovuto per il periodo ricompreso tra il manifestarsi dell’evento dannoso e l’ottenimento dell’indennizzo.

In caso di successivo aggravamento dell’infermità già riconosciuta, l’interessato ha 6 mesi di tempo dalla conoscenza dell’evento per presentare all’Azienda sanitaria la domanda di revisione dell’indennizzo (art. 6 L. 210/1992)

Se invece emerge l’esistenza di un’ulteriore patologia direttamente connessa al vaccino, è possibile ottenere un indennizzo aggiuntivo per “doppia patologia”, di importo pari al 50% di quello previsto per la categoria corrispondente alla patologia più grave (art. 1 comma 7 L. 238/1997)

Se poi il danneggiato muore in conseguenza delle patologie per le quali è stato riconosciuto l’indennizzo, gli aventi diritto (coniuge, figli, genitori, fratelli) potranno presentare all’Azienda sanitaria di residenza del defunto, una domanda per ricevere un assegno una tantum, in unica soluzione o reversibile in 15 anni dell’importo di Euro 77.48, 53.

La L. 29 ottobre 2005, n. 229 (disposizioni in materia di indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie) riconosce ai titolari di indennizzo per danno da vaccinazione obbligatoria, un ulteriore indennizzo, consistente in un assegno mensile vitalizio di importo pari:

A sei volte la somma percepita dal danneggiato per le categorie dalla prima alla quarta della tabella “A” annessa al testo unico in materia di pensioni di guerra (D.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915 ), e successive modificazioni, a cinque volte per le categorie quinta e sesta, a quattro volte per le categorie settima e ottava. Infatti, al testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra di cui sono annesse diverse tabelle, tra le quali la tabella “A” relativa alle lesioni e le infermità che danno diritto a pensione vitalizia o ad assegno temporaneo.

La domanda in questo caso va presentata al Ministero della Salute (e non alla Regione) competente per l’istruttoria, che redigerà una graduatoria sulla base del criterio cronologico di presentazione delle istanze, dei parametri della gravità dell’infermità o delle difficoltà economiche dei richiedenti e dei loro nuclei familiari (D.M. 21/10/2009, n. 9).

Il decreto di liquidazione in caso di accoglimento della domanda, viene comunicato direttamente all’interessato.

Ferma la piena applicazione della L. 210/1992 a tutti i casi nei quali il vaccino Anticovid 19 è stato reso obbligatorio per legge, resta da valutare il profilo dei danni che dovessero eventualmente colpire le categorie attualmente non obbligate.

La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi più volte sull’argomento delle vaccinazioni raccomandate (C. Cost. n. 268/2017), e di recente, in pieno periodo pandemico, lo ha fatto con la sentenza 23 giugno 2020, n. 118.

Per la Corte di legittimità, non c’è differenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione, il cui comune obiettivo è quello di assicurare la più ampia immunizzazione, essendo “del tutto irrilevante, o indifferente, che l’effetto cooperativo sia riconducibile, dal lato attivo, a un obbligo o, piuttosto, a una persuasione o anche, dal lato passivo, all’intento di evitare una sanzione o, piuttosto, di aderire a un invito” (sentenza n. 107 del 2012).

Anche se “la raccomandazione” appare sempre preferibile sul piano politico “per la sua spinta “gentile”, (che) accompagna e favorisce lo sviluppo dell’autodeterminazione, benché anche questa spinta incida anch’essa in profondità sul processo formativo del volere nel consenso informato, senza la costrizione e l’extrema ratio dell’obbligo, aumenta la fiducia dei cittadini nella scienza e nell’intervento pubblico” (Cons. St. n. 7045/2021).

Le vaccinazioni raccomandate, invero, sono caratterizzate dalla presenza di diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore dei trattamenti vaccinali, idonee ad ingenerare un affidamento della popolazione nei confronti di quanto viene consigliato dalle autorità sanitarie, fatto questo che rende la scelta individuale di vaccinarsi come votata alla salvaguardia non di un interesse personale ma dell’interesse collettivo della comunità.

Atteso che il singolo ha aderito alla vaccinazione in ragione delle esigenze di solidarietà sociale, lo Stato deve farsi carico delle eventuali conseguenze negative della sua integrità psico-fisica; sarebbe ingiusto, invece, consentire che fossero i singoli danneggiati a sopportare il costo di un beneficio anche collettivo.

La Corte, ritenuto quindi che la funzione dell’indennizzo è quella di completare il “patto di solidarietà” tra individuo e collettività in tema di salute, e che sia necessaria la “traslazione in capo alla collettività, favorita dalle scelte individuali, degli effetti dannosi” che conseguano al vaccino, ha stabilito che la mancata previsione del diritto all’indennizzo in caso di patologie irreversibili derivanti da determinate vaccinazioni raccomandate si risolve in una lesione degli art. 2, 3 e 32 della Costituzione.

All’indennizzo può essere aggiunto, peraltro, anche il risarcimento dei danni, nel caso in cui l’infermità subita dall’interessato sia imputabile al fatto colposo altrui.

Un caso può essere quello della responsabilità della casa farmaceutica, quando ad esempio il lotto vaccinale dal quale è stata estratta la fiala somministrata, sia risultato difettoso.

Sono generalmente due i rimedi esperibili a tutela del danneggiato.

  1. Azione di responsabilità per esercizio di attività pericolose

Il primo rimedio contro la casa farmaceutica è previsto all’art. 2050 c.c., “responsabilità per l’esercizio di attività pericolose”, nelle quali la giurisprudenza fa rientrare anche l’attività di vendita e somministrazione di vaccini e medicinali da parte delle aziende di farmaci

La responsabilità ex art. 2050 c.c. alleggerisce il danneggiato dell’onere della prova, dando luogo, secondo la prevalente interpretazione, ad una responsabilità oggettiva.

La prova del danno e del nesso causale deve essere fornita dal danneggiato, mentre la casa farmaceutica può liberarsi dalla responsabilità solamente dimostrando di “avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.

La Corte di Cassazione, sul punto, ha escluso la responsabilità della casa farmaceutica che fornisca la prova di avere osservato, prima della produzione e immissione sul mercato del farmaco, i protocolli di sperimentazione previsti dalla legge, e di avere fornito un’adeguata informazione circa i possibili effetti indesiderati dello stesso, aggiornandola – se necessario – in relazione all’evoluzione della ricerca (Cass. Civ. n. 6587/2019).

Con riguardo alla prova liberatoria dell’adeguata informazione, la Cassazione ha precisato anche che non basta una qualunque informativa, ma “è necessario che l’impresa farmaceutica svolga una costante opera di monitoraggio e di adeguamento delle informazioni commerciali e terapeutiche, allo stato di avanzamento della ricerca, al fine di eliminare o almeno ridurre il rischio di effetti collaterali dannosi e di rendere edotti nella maniera più completa ed esaustiva possibile i potenziali consumatori ” (Cass. Civ. n. 6587/2019).

Il secondo rimedio contro l’azienda farmaceutica è previsto dal D.P. R. n. 244/1988.

Si tratta di norme a tutela del consumatore, che sanciscono la responsabilità extracontrattuale del produttore per il danno cagionato dal prodotto difettoso.

L’art. 4 prevede che il danneggiato fornisca la prova del danno, del difetto del prodotto e della connessione causale tra difetto e danno.

La prova del difetto (art. 117) comporta la dimostrazione che il prodotto non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenendo conto di tutte le circostanze tra cui:

  1. a) il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche

palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite;

  1. b) l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che, in relazione

ad esso, si possono ragionevolmente prevedere;

  1. c) il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione.

Altro profilo che interessa il danno da vaccino è quello relativo alla responsabilità del Ministero della salute.

La giurisprudenza ha escluso, in questo caso, l’applicabilità dell’art. 2050 c.c. e ha inquadrato la responsabilità del Ministero nell’art. 2043 c.c.

In particolare, perchè si configuri un risarcimento, in aggiunta all’indennizzo già dovuto per legge in caso di vaccinazione obbligatoria, è necessario fornire la prova che, all’epoca della somministrazione del vaccino, era conosciuta o conoscibile – secondo le migliori cognizioni scientifiche disponibili – la pericolosità dello stesso alla stregua di tali conoscenze.

Il rispetto del fondamentale principio di precauzione avrebbe imposto di vietare tale tipo di vaccinazione o di consentirla con rigorose modalità tali da minimizzare i rischi ad essa.

Rivista del mese

Psicologo, Dottore di ricerca Esperto di Stress, Psicologia Positiva e Epigenetica. Formatore/consulente aziendale, Presidente PLP-Psicologi
Liberi Professionisti-Veneto.
Direttore del Centro di Benessere Psicologico, Favaro Veneto (VE)

 

 


Lo studio ha finora supposto che circa il 50% della felicità fosse dovuta a fattori genetici ma, sia l’epigenetica che lo studio del microbiota, convergono nel ridimensionare significativamente il ruolo della componente genetica ,evidenziando la grande sopravvalutazione fino ad adesso attribuita ai geni.


ABSTRACT

🇮🇹 La felicità è stata, come molti altri elementi psicologici, oggetto di studio anche nelle sue supposte componenti genetiche, utilizzando soprattutto metodologie focalizzate sulla comparazione tra soggetti gemellari omozigoti ed eterozigoti ed assumendo che, la componente invariante attribuita degli indici di felicità dei soggetti analizzati, fosse correlata alle invarianti genetiche umane esistenti all’interno delle due tipologie di gruppi.

Recentemente, sia l’affermarsi del paradigma epigenetico (che studia il ruolo dei fattori extra genetici che influenzano la fitness dell’organismo), sia l’emergere della scienza del microbiota (il complesso ecosistema formato da batteri, virus e funghi che vivono nel nostro organismo e che non condividono il nostro DNA), testimoniano l’esistenza di fattori che influenzano grandemente anche la nostra felicità e che sono stati sottostimati a livello concettuale e metodologico.

🏴󠁧󠁢󠁥󠁮󠁧󠁿 Happiness has, like many others psychological elements, been studied also in its supposed genetic components using overall methodologies focused on the comparison between homozygous and heterozygous twin subjects and assuming that the invariant component attributed to the happiness indices of the subjects analyzed were related to the genetic invariants existing within the two types of groups.

Recently both the ever-increasing affirmation of the epigenetic paradigm that studies the role of extra genetic factors in influencing the body’s fitness even in twin studies and the emergence of the science of the microbiota, that is the complex ecosystem formed by bacteria, viruses, and fungi that live in our organism and that do not share our DNA, testify to the existence of factors that also greatly influence our happiness and that have been largely underestimated at a conceptual and methodological level in the study of this factor.


La felicità e il benessere soggettivo sono, da decenni, fattori oggetto di indagine scientifica, dove l’obiettivo consiste nella comprensione di come l’individuo valuta la propria vita globalmente, nel suo stato presente, passato e futuro, anche per periodi prolungati. Tale valutazione include il modo in cui l’individuo reagisce emotivamente agli eventi, il suo umore, come giudica il livello di soddisfazione della propria vita, della propria realizzazione, e degli ambiti principali quali le relazioni o il lavoro (Diener et al., 2009; Diener, E. & Seligman, 2002; Seligman & Csikszetmihalyi, 2000).

Piuttosto recentemente la felicità e il benessere soggettivo sono state considerate sia nelle loro componenti esperienziali edoniche (cioè attinenti la loro natura squisitamente legata al piacere), che eudaimoniche (esperienze più complesse non riducibili esclusivamente alla dimensione edonistica).

Questi particolari stati psicologici generano significato in ciò che facciamo, sono cioè elementi che a posteriori consideriamo molto significative e che aumentano il benessere e la qualità di vita personale (Seligman e Csikszentmihalyi 2000; Ryan e Deci, 2001; Delle Fave,Massimini e Bassi, 2011).

In generale, due sono le principali strategie di ricerca che esplorano le influenze genetiche e ambientali sulla felicità ed il benessere: l’analisi genetica molecolare e la genetica quantitativa.

La genetica molecolare cerca di tracciare i percorsi causali da specifiche varianti qualitative del DNA correlandole con la misurazione della felicità, soddisfazione o benessere soggettivo.

Un esempio di questo tipo di analisi, che in generale finora ha portato a risultati piuttosto contradditori, è lo studio che ha evidenziato che, la presenza di un particolare allele del gene 5-HTTLPR ( funge da vettore per la serotonina), è correlata ad alti livelli di soddisfazione di vita (De Neve, 2011).

L’analisi genetica quantitativa stima invece, attraverso l’analisi di frequenze statistiche, l’entità delle influenze genetiche e ambientali complessive senza specificare particolari sequenze di DNA.

Questo tipo di analisi applicata al fattore felicità rappresenta la quasi totalità degli studi esistenti e si basa sulla comparazione di categorie gemellari omozigoti e dizigoti in relazione all’ambiente che queste due categorie possono o meno condividere.

Nella ricerca scientifica della felicità e del benessere soggettivo, si è cercato di individuare il contributo delle componenti genetiche di tale costrutto all’interno del paradigma generalmente accettato, relativo la natura dicotomica natura/ambiente e dell’altrettanto diffusa concezione gene-centrica, che implica l’assunto legato all’importanza dominante dei geni nello spiegare anche i comportamenti complessi umani.

In questo contesto vi sono stati diversi tentativi che sottendono gli stessi assunti di fondo, ossia che le interazioni biologiche possono essere suddivise in maniera dicotomica in genetiche ed extragenetiche (quindi in maniera superficialmente sovrapponibile all’altra dicotomia natura/ambiente), e dove la fitness biologica umana è determinata dalla qualità della componente genetica delle sue cellule che quindi condividono il medesimo DNA umano.

Come già accennato gli assunti appena descritti sono stati declinati a livello metodologico, soprattutto in studi che hanno avuto come obiettivo la stima della componente genetica della felicità, analizzando i tassi di variazione differenziale tra due categorie di soggetti: i gemelli omozigoti ed i gemelli eterozigoti e in due contesti distinti (ambiente familiare condiviso o non condiviso).

I gemelli identici, detti anche omozigoti, condividono naturalmente lo stesso genoma perché derivano dal medesimo zigote (l’unione della cellula uovo della madre con lo spermatozoo del padre) a differenza dei gemelli eterozigoti, che derivano invece da diverse cellule uovo fecondate da spermatozoi differenti e che quindi condividono statisticamente solo il 50% dei geni.

Fondamentalmente, la metodologia in oggetto si basa sull’assunto che la variabilità differenziale tra i due gruppi di gemelli relativamente il tratto fenotipico della felicità, sia attribuibile alla componente extra genetica in forza all’esposizione di esperienze post nascita che hanno prodotto tale variabilità.

Questa metodologia quantifica la componente genetica considerandola attraverso una logica di sottrazione da quella extra genetica. In questo paradigma la variabilità rilavata, se non è extra genetica, dev’essere genetica (Goldsmith, 1983; Nichols, 1978).

Questa logica è stata utilizzata anche comparando gruppi di gemelli omozigoti ed eterozigoti nei contesti in cui le persone analizzate hanno vissuto all’interno dello stesso ambiente familiare o in ambienti differenti in cui le esperienze ambientali soggettive avrebbero avuto come riflesso un ulteriore porzione di variabilità (si veda ad esempio Tellegen et al., 1988).

Globalmente, negli anni, questi studi hanno quantificato che il ruolo della cosiddetta componente genetica della felicità fosse dell’ordine tra il 40% e il 50% della variabilità esistente (Nes, R.B., & Røysamb, 2017; Bartels et al., 2010).

Queste ricerche hanno avuto un grande successo mediatico, sia a livello accademico che divulgativo, perché offrono la seducente informazione relativa quanto della felicità è di determinata dai nostri geni e quanto invece risulta essere influenzabile dalla nostra capacità di controllo (si veda ad esempio Lyubomirsky,2007).

Questa visione sia concettuale che metodologica è stata largamente ridimensionata da due recenti elementi particolarmente importanti per le conseguenze che implicano anche nello studio scientifico della felicità: l’epigenetica e il microbiota.

felicità

 

L’epigenetica

Il paradigma epigenetico, a differenza di quello gene-centrico dominante per quasi un secolo, sostiene che lo sviluppo morfologico e comportamentale di un organismo è sempre dovuto all’interazione della memoria genetica con la memoria informazionale extra-genetica che è contemporaneamente non-self dal punto di vista del DNA e self se consideriamo la prospettiva dell’organismo stesso (Agnoletti, 2020a).

L’epigenetica prevede quindi un superamento della tradizionale dicotomia self-ambiente precedentemente affermata dal paradigma gene centrico, per la capacità dell’organismo di selezionare anche in modo reversibile (quindi potenzialmente transitorio) l’informazione genetica che viene espressa e quella che invece viene silenziata e quindi non espressa dal punto di vista fenotipico con le notevoli ricadute sulla fitness dell’organismo (Agnoletti, 2020a).

Una delle implicazioni più importanti derivanti dal paradigma epigenetico è che l’organismo umano, dal momento in cui è zigote (cioè dalla singola cellula originaria che si differenzierà in trilioni di cellule derivanti da essa condividendone lo stesso DNA), possiede già una propria memoria epigenetica che si modifica in base alle esperienze vissute dal percorso di sviluppo ontogenetico in atto, includendo naturalmente con questo anche il periodo di gestazione.

Di conseguenza, nella specie umana, l’organismo al momento del parto possiede già, oltre ad una memoria genetica codificata dal DNA, anche una memoria epigenetica codificata in tutti quei meccanismi che regolano l’espressione dei geni e che viene ereditata almeno in parte dai genitori.

Recenti ricerche (si veda in proposito Bell & Spector, 2011; Fraga et al., 2005; Tan, Christiansen, von Bornemann Hjelmborg & Christensen, 2015; Kaminsky et al., 2009; Van Baak et al., 2018; Wong, Gottesman & Petronis, 2005; Yet et al., 2016), coerentemente con quanto affermato dal paradigma epigenetico, hanno verificato che i gemelli omozigoti o identici, condividono non solo lo stesso genoma, ma anche l’insieme dei meccanismi molecolari che regolano l’espressione dei geni proprio perché la loro duplicazione avviene dalla medesima cellula iniziale che già contiene una sua specifica memoria epigenetica.

È stato dimostrato che questa condivisione informazionale extra-genetica della felicità ha origine nelle prime fasi dello sviluppo embrionale ed è così importante da poter predire lo sviluppo di alcune malattie anche oncologiche.

Ciò che è comune sul piano informazionale a due gemelli omozigoti non è quindi unicamente riconducibile al contenuto di DNA ma anche alle dinamiche epigenetiche, pertanto, nella metodologia comparativa tra gemelli omozigoti ed eterozigoti che indaga il rapporto del contributo genetico rispetto quello non genetico, la differenza di variazione tra i due gruppi non è riconducibile esclusivamente al contenuto informazionale del DNA.

Durante la fase di sviluppo ontogenetico (che include naturalmente anche la fase fetale) non ci sono solo in atto le variazioni esistenti tra le memorie genetiche ma anche quelle derivanti dalle memorie epigenetiche che nei gemelli omozigoti sono molto alte, per questo motivo le componenti informazionali condivise nei gemelli omozigoti sono state chiamate dagli esperti “supersimili”.

Assumendo quindi come esclusivamente “genetica” la parte costante dell’invarianza tra i due gruppi di gemelli ne deriva un errore metodologico dovuto al fatto che suddetta invarianza è in realtà il risultato della somma della memoria del DNA e della memoria epigenetica “supersimile” (nel caso dei gemelli omozigoti).
felicità
Tutte le ricerche che hanno condiviso questa errata metodologia per studiare specifici tratti fenotipici (morfologici, psicologici o comportamentali) hanno quindi finora grandemente sottostimato le componenti extra genetiche sovrastimando quelle genetiche.

Da quanto appena esposto possiamo affermare quindi chenon tutta l’informazione ereditabile di un organismo è sovrapponibile con il contenuto informazionale del DNA.

 

Il microbiota

Lo studio del microbiota ha rivoluzionato molte conoscenze pregresse delle scienze biomediche e psicologiche perché evidenzia il ruolo fondamentale di questo ecosistema di batteri, funghi e virus all’interno della “nostra” fitness.

felicitàDalla produzione di neurotrasmettitori quali la serotonina, la dopamina, la noradrenalina, il GABA (e molti altri) alla funzione di elaborazione degli alimenti che ingeriamo, al ruolo fondamentale di apprendimento del nostro sistema immunitario, il microbiota si è già dimostrato essere un protagonista finora sottovalutato nell’eziologia di molte problematiche di natura sia organica (si veda ad esempio la celiachia, l’obesità o la colite ulcerosa) che psicologica (per esempio l’ansia, la depressione e molte psicopatologie quali l’autismo, la schizofrenia, etc.) (Caio et al., 2019; Carloni et al., 2021; Cheunget al., 2019; Foster & Mc Vey Neufeld; Sharon et al., 2019; 2013; Garrett et al. 2007; Li & Zhou, 2016; Mangiola et al., 2016; Rescigno, 2021; Rodrigues-Amorim et al., 2018; Simpson et al., 2021).

Ricordiamo che più del 90% della serotonina, neurotrasmettitore molto legato agli stati positivi correlati alla felicità, viene prodotta a livello intestinale da batteri specifici quindi l’influenza di questo e altri fattori prodotti o modulati dal microbiota influenzano in maniera importante anche gli stati mentali che partecipano e determinano il nostro livello di felicità.

La massa totale del microbiota all’interno dell’organismo umano è di circa un kg. e, malgrado sia presente in tutte le superfici del nostro corpo interne ed esterne a contatto con l’ambiente (pelle, bocca, stomaco, intestino, polmoni, ecc.), è maggiormente concentrata nel tratto dell’intestino tenue e del colon.

Se il peso totale del microbiota equivale circa a quello del nostro fegato, i microrganismi che lo compongono sono estremamente eterogenei (batteri, virus e funghi) tanto che il numero globale delle loro cellule è stimato essere almeno dieci volte superiore a quello delle “nostre” cellule (delle cellule cioè che condividono il DNA umano) con un patrimonio genetico stimato essere almeno mille volte più grande di quello del “nostro” stesso DNA.

L’influenza dell’interazione microbiota nell’organismo umano è massiccia ed in parte ancora da identificare ma sappiamo già che coinvolge aspetti psicofisici e non solo di natura fisico-chimica (Cheung et al., 2019; Foster & McVey Neufeld, 2013; González-Arancibia et al., 2019; Carloni et al., 2021; Simpson et al., 2021).

Le evidenze scientifiche riportate negli ultimi anni dimostrano che, per esempio, trapiantando artificialmente il microbiota di un ratto sperimentalmente stressato negativamente al punto di renderlo ansioso o depresso, all’interno dell’intestino di un topolino che non esibiva questi comportamenti/stati, ha indotto velocemente (in pochi giorni) in quest’ultimo comportamenti ansiosi o depressivi simili al donatore (Kelly et al., 2016; Winter et al., 2018).

Da quanto appena esposto possiamo dunque affermare che per tratti fenotipici molto complessi come la felicità le influenze del multiforme ecosistema rappresentato dal microbiota, che quindi non condivide il DNA umano, sono molteplici, rilevanti e dipendenti dall’ambiente bio-psico-sociale vissuto dai soggetti (le abitudini alimentari, motorie, la tipologia di parto, lo stress psicosociale vissuto, etc).

In estrema sintesi, sia il paradigma epigenetico che afferma che non tutta l’informazione ereditabile di un organismo è sovrapponibile con il contenuto informazionale del DNA, sia la scienza del microbiota che afferma che il complesso ecosistema di microorganismi di DNA non umano influenzano grandemente tratti fenotipici mentali, convergono nel minare la metodologia che ha condotto a stimare il contributo genetico della felicità (Agnoletti, 2021).

Da questi due assunti possiamo dedurne che la tradizionale comparazione gemellare utilizzata generalmente per stimare statisticamente il ruolo genetico della felicità è scorretta dal punto di vista concettuale e quindi anche dal punto di vista metodologico.

La conseguenza di questa errata metodologia ha condotto ad una diffusa comunicazione che ha grandemente sopravvalutato il ruolo dei geni nel determinare la felicità umana sottovalutando di conseguenza il ruolo dei fattori che invece sono potenzialmente modificabili attraverso i processi decisionali e della volontà personale.

felicità

La correttezza quindi di molte affermazioni conseguenti la metodologiamenzionata sopra finora largamente utilizzata per stimare il contributo genetico di tratti fenotipici altamente complessi come la nostra felicità sono profondamente da rivedere alla luce del paradigma epigenetico e di quello del microbiota.

Considerando le importanti conseguenze nelle persone, della finora largamente sottostimata percezione del controllo della gestione globale della propria vita, è auspicabile integrare quanto primale nuove conoscenze scientifiche appena menzionatepromuovendo una più corretta comunicazione.

Rivista del mese

 

Dott. Roberto Urso
Dirigente Medico U.O. di 
Ortopedia e Traumatologia
Ospedale Maggiore, Bologna


ABSTRACT

Enchondroma, even if it belongs to tumor lesions, is a benign disease that is very often misinterpreted and treated as serious lesions and with often destructive surgical attitudes.

The disease appears most often at a young age, often randomly as the patient feels continuous pain or even worse a bone fracture is created as the anatomical structure has already been undermined for some time.

Non-advanced injuries, which rupture due to trauma, almost always heal with simple immobilization. But the more advanced lesions, which have lasted for years, require surgical removal as, even if rarely, they can give rise to a deviation towards malignancy.


La chirurgia ortopedica ha frequentemente necessità di confrontarsi con una importante varietà di tumori e di lesioni pseudotumorali, a cui si associano le forme sistemiche e metastatiche.(1)

Nell’ambito delle lesioni tumorali la classificazione prevede  1) neoplasie maligne 2) neoplasie benigne 3) lesioni pseudotumorali

Per quanto possa generare ansia e paura, la parola tumore non ha sempre un significato negativo, di male incurabile o di patologia con aggressività non trattabile. Il fatto stesso che un tumore venga definito “benigno”, è sufficiente per pensare ad una guarigione completa e definitiva della lesione.

La miglior descrizione di neoplasia benigna la si può trovare nel volume “Lezioni di Clinica Ortopedica” del maestro Prof. M. Campanacci (4) che così descriveva la neoplasia benigna: “ha origine unifocale o plurifocale, accrescimento autonomo e afinalistico, ma non indefinito nel tempo e assai più lento delle forme maligne. La neoplasia benigna ha limiti netti rispetto ai tessuti circostanti, il suo accrescimento non è invasivo, ma espansivo. Non recidiva dopo asportazione completa e non da mai metastasi. La morfologia cellulare è tipica, ma l’architettura tissutale non lo è, o non lo è completamente. Le cellule si differenziano, maturano e conservano, spesso in notevole misura, la loro funzione specifica”. (fig.1) (5)

L’encondroma, è una forma tumorale classificata benigna, che spesso viene interpretata come una più grave patologia causando paura e sconcerto.

L’encondroma è un tumore benigno formato da cartilagine ialina matura ad insorgenza sia centrale che eccentrica”. (2) La frequenza più elevata la sia ha nella seconda decade di vita e comunque nei soggetti in accrescimento. Non ha predilezione di sesso.  L’encondroma solitario è descritto in tutte le ossa, ma con preferenza nelle falangi della mano, delle coste e del piede. (fig.1) Rappresenta il 2,6% di tutti i tumori dello scheletro e l’11% dei tumori benigni (Dahlin)

encondroma

Hanno un decorso asintomatico in quanto hanno un accrescimento lento e costituiscono spesso un reperto occasionale nell’indagine radiologica eseguita per altri motivi: contusione della tibia e riscontro occasionale di encondroma; dolore insorto al dito della mano dopo sforzo e riscontro di frattura della.

Radiograficamente si evidenziano dei processi osteolitici delle ossa a contorni netti e localizzati in territorio metafisario. Possono essere centrali o eccentrici. (fig.2)

Ma perché si forma?

L’encondroma, spesso asintomatico, è il risultato dell’insufficienza del normale processo di ossificazione della cartilagine di accrescimento. La neoplasia ha una sede intramidollare e si sviluppa nella metafisi adiacente e interessare, successivamente, la diafisi. L’encondroma rappresenta una displasia della porzione centrale della cartilagine di accrescimento. Nel caso che il processo si manifesti nella parte laterale della cartilagine metafisaria, il tumore che ne deriva è chiamato esostosi osteo-cartilaginea. (6-7)

Diagnostica: Una radiografia standard ci mostrerà una lesione osteolitica centrale con dei margini ben definiti, ma formati da osso assottigliato. Durante l’adolescenza il tumore può accrescersi, ma molto lentamente. Spesso nella fase inattiva o latente, tipica dell’età adulta, il tessuto cartilagineo può mostrare un aspetto di micro-calcificazioni ad aspetto puntinato.  Una deviazione in malignità, quando accade, determina delle alterazioni radiografiche che consistono in aere osteolitiche endostali (escavazioni) ispessimento della corticale, erosioni, fenomeni invasivi e formazione di speroni ossei.

Gli esami diagnostici quali TAC e RMN ci permettono di stabilire l’entità dell’erosione della corticale ossea, la densità del tessuto lesionale e la sua esatta localizzazione. Nell’encondroma spesso non serve la biopsia, in quanto la sua natura cartilaginea è del tutto evidente all’esame radiografico. (fig.2)

La terapia: l’unico trattamento ammesso l’asportazione chirurgica del tumore a livello della sua localizzazione. La resezione in blocco della parte anatomica viene presa in considerazione solo ed esclusivamente nel caso in cui l’encondroma abbia dato origine ad una rara evoluzione in condrosarcoma. Questo concetto viene sottolineato poiché spesso si eseguono amputazioni su segmenti ossei affetti da encondromi e scambiati per tumori maligni. L’errore è dato, quasi sempre, da una errata interpretazione della lesione e da un incompleto approfondimento radiodiagnostico.

La radioterapia, risulta inefficace in quanto la lesione è resistente alle radiazioni.

La malattia può presentare recidive e la trasformazione in malignità è un’evenienza possibile: solo in questo caso è prevista l’amputazione.(8)

Caso clinico:

Giugno 2018, giovane donna di 21 anni presenta un’iniziale tumefazione dolente alla prima falange del dito pollice della mano sinistra. La dolenzia e il gonfiore non attenuatasi con antinfiammatori e con il riposo funzionale.

All’età di 22 anni primo controllo radiologico che mostra un’evidente encondroma situato alla base di F1 del 1° dito della mano sinistra. Visitata da uno specialista, non le viene data nessuna indicazione, se non riposo e antinfiammatori.

La paziente, al persistere del dolore e del gonfiore, dopo 8 mesi la prima visita esegue una RMN di controllo che mostra una captazione su F1 ed evidenziava un già voluminoso encondroma. Anche in questo caso non è seguita nessuna indicazione specifica al trattamento. (fig.2)

Nel tempo la lesione è progredita aumentando di volume e nell’intensità del dolore, fino a determinare l’impossibilità di flettere ed estendere il dito pollice, lasciando alla paziente una presa estremamente precaria e con importanti difficoltà lavorative. La paziente ha trascorso anni ad usare solo la mano destra per i lavori pesanti e quando usava la mano sinistra si aiutava sfruttando solo con le altre quattro dita.

All’esame radiologico del settembre 2021 le dimensioni sono tali da far presagire una sicura frattura della falange. In tale occasione si è deciso il planning operatorio: apertura della diafisi della prima falange, asportazione della neoplasia, innesto con osso morcellizzato di banca, chiusura opercolo e stabilizzazione del 1° dito mano sinistra.

Nella figura si evidenzia l’incisione chirurgica a livello dorso-mediale della prima falange del primo dito della mano sinistra; sfruttando una via di accesso che salvaguarda sia l’estensore che il fascio vascolo-nervoso mediale, fino a giungere al piano osseo.(fig.3)

encondroma

Con filo di kirshner si impostava, tramite piccoli buchi, la traccia per aprire il piccolo sportello di osso sula parete diafisaria supero-mediale; con piccolo scalpello da osso si apriva il piccolo sportello osseo; all’interno della cavità vi era una sostanza gelatinosa di tipo sinoviale che veniva asportata in toto; dopo la asportazione della massa tumorale si eseguiva un accurato lavaggio della cavità per poi riempirla con dell’osso morcellizzato (da donatore) (2); una volta riempita la cavità si appoggiava lo sportellino d’osso, si apriva il laccio emostatico, si eseguì l’emostasi e la sutura della cute. (fig.3-4)

Per dare una stabilità al segmento ed evitare movimenti inopportuni per la falange riparata, si è deciso di stabilizzare il tutto con un fissatore esterno mini-stylo con pins alla base di F1 e altre due a cavaliere, con l’articolazione interfalange. Tale sistema ha permesso di avere i vantaggi dell’immobilizzazione di un apparecchio gessato, ma con la possibilità di monitorare la vitalità dei tessuti molli. (fig.5)

Una parte del tessuto asportato, è stato inviato in laboratorio per l’esame bioptico, che ha dato risposta di: “tessuto encondromatoso benigno”.

encondroma

encondroma

Il decorso post-operatorio è stato regolare. Medicazioni eseguite ogni sette giorni e al trentesimo giorni si asportarono i punti di sutura e fu rimosso il fissatore esterno. (fig. 6) L’esame radiografico fu positivo, l’innesto teneva e stava iniziando ad evolvere. Il lato assolutamente positivo fu la totale scomparsa del dolore al dito.

post intervento encondroma 2

La paziente ha iniziato l’uso di un tutore termo-plastico con primo raggio incluso che ha lasciato libera la interfalangea in modo da poter sfruttare la flesso-estensione del dito. (fig. 7)

La fisioterapia, eseguita con continuità e controlli settimanali per trenta giorni ha dato, al controllo radiografico, un ulteriore rimaneggiamento dell’innesto osseo a livello della falange e la motilità, fino a due mesi prima totalmente compromessa, con un buon range di movimento in assenza di dolore. A tre mesi la paziente ha ricominciato la propria attività lavorativa.

Conclusione

L’encondroma, anche se appartiene alle lesioni tumorali, è una affezione benigna che molto spesso viene mal interpretata e trattata come le lesioni gravi e con atteggiamenti chirurgici spesso demolitivi.

La malattia appare, il più delle volte, in età giovanile, spesso in modo casuale in quanto il paziente avverte continuo dolore o ancor peggio si crea una frattura ossea in quanto la struttura anatomica è già minata da tempo.

Le lesioni in stadio non avanzato, che si rompono a causa di un trauma, quasi sempre guariscono con una semplice immobilizzazione. Le lesioni più avanzate, che da anni si protraggono, necessitano di un’asportazione chirurgica in quanto, anche se raramente, possono dare origine ad una deviazione verso la malignità.