Dott.ssa Annamaria Venere
Sociologa Sanitaria,
Criminologa Forense,
Amministratore Unico: AV eventi e formazione, Catania
A volte, gli ignoranti sono quelli che pensano di saperne più di tutti: in parte è vero ed è un fenomeno psicologico, chiamato effetto Dunning-Kruger, che si verifica quando una persona con scarsa competenza in un determinato campo tende a sovrastimare le proprie capacità e a sottovalutare quelle degli altri. Questo fenomeno è stato identificato e descritto per la prima volta dagli psicologi sociali David Dunning e Justin Kruger nel 1999. Secondo gli studiosi, le persone che ne soffrono hanno una percezione distorta della propria competenza e spesso si mostrano eccessivamente sicure delle proprie opinioni, nonostante l’evidente mancanza di conoscenza o abilità. Al contrario, le persone altamente competenti tendono ad avere una maggiore consapevolezza delle proprie lacune e a mostrarsi meno sicure di sé (Kruger & Dunning, 1999). Elementi che finiscono per avere non solo un impatto sul fronte psicologico, ma anche sociale.
La scoperta dell’effetto Dunning-Kruger
Lo studio sull’effetto Dunning-Kruger è nato quasi per caso. Nel 1995 a Pittsburgh, un uomo di 45 anni di nome McArthur Wheeler decise di rapinare due banche nello stesso giorno, senza maschere o travestimenti, nonostante sapesse che le telecamere lo avrebbero ripreso. Dopo poche ore, la polizia lo arrestò incredulo per la sua stupidità. Al momento dell’arresto, egli affermò di essersi cosparso, su suggerimento di un amico, il viso di succo di limone, poiché convinto che questo lo avrebbe reso invisibile.
Prima di recarsi in banca, si era anche scattato una foto con una polaroid, ma aveva fotografato accidentalmente il soffitto, rendendo la propria immagine invisibile e rafforzando la convinzione che il succo di limone lo rendesse invisibile agli occhi degli altri. Non era sotto l’influenza di alcool o droghe, ma lucido e sorpreso di essere stato scoperto. Il professor David Dunning e l’allievo Justin Kruger, entrambi della Cornell University, colpiti da quanto successo, studiarono quindi l’accaduto sotto un profilo scientifico (Grant, 2021). I due psicologi intrapresero uno studio sui test di umorismo, grammatica e ragionamento logico coinvolgendo i propri allievi.
Prima di svolgere i test, i partecipanti espressero il proprio grado di competenza in ognuno dei tre campi. I risultati rivelarono che i partecipanti meno competenti si autovalutavano molto al di sopra delle proprie capacità, mentre i partecipanti più competenti si valutavano leggermente al di sotto. Giunsero così alla conclusione che coloro che hanno meno conoscenza in un campo sono spesso quelli che sopravvalutano le proprie competenze, mentre quelli più esperti sono quelli che sottostimano le proprie abilità. Il fenomeno, come anticipato, è stato chiamato effetto Dunning-Kruger, consistente nell’incapacità di riconoscere la propria incompetenza. Inoltre, i risultati dello studio dimostrarono che le autovalutazioni non veritiere degli incompetenti sono molto difficili da correggere (Dunning & Cruger, 1999).
L’opposto: la sindrome dell’impostore
Nell’esperimento sopra, una situazione opposta caratterizzava invece gli studenti più bravi: erano gli unici ad aver fornito un’autovalutazione, in relazione agli altri, inferiore rispetto al risultato effettivo. Si tratta della sindrome dell’impostore, un fenomeno psicologico in cui una persona, nonostante i suoi successi e le sue competenze, non riesce a sentirsi adeguata e continua a dubitare delle proprie capacità. Le persone che soffrono di questa sindrome attribuiscono i loro successi alla fortuna o a fattori esterni, piuttosto che al loro talento e impegno personale (Dunning & Kruger, 1999).
Inoltre, spesso si sentono come degli “impostori”, convinti di essere stati scelti per un ruolo o un lavoro solo per caso o per errore, e temono di essere scoperti come “falsi”, il ché può portare a sentimenti di ansia, stress e scarsa autostima. Con l’effetto si determina quindi il paradosso per cui chi possiede maggiori competenze sembra essere più insicuro di chi non le possiede (Falchi & Carmignani, 2020).
Che tipo di conseguenze psicosociali?
Le conseguenze di simili effetti sono evidenti innanzitutto sul profilo dell’autostima: chi patisce di un effetto Dunning-Kruger può avere problematiche narcisistiche, se non addirittura di distorsione della realtà e della personalità. L’effetto Dunning-Kruger, così come la sindrome dell’impostore, influiscono cioè sul modo in cui una persona percepisce e gestisce il proprio successo o insuccesso, specie in rapporto agli altri (Grant, 2021).
Nella sindrome dell’impostore, in particolare, le persone vivono con costante ansia e stress, poiché sentono di non essere all’altezza delle aspettative altrui, nonostante abbiano ottenuto risultati di successo in passato. Questo porta a un senso di alienazione, isolamento e a un limitarsi nell’affrontare nuove sfide, nella paura di essere esposti come “imbroglioni”.
L’effetto Dunning-Kruger, d’altra parte, conduce il più delle volte a un eccesso di fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità, nonostante la mancanza di competenze reali. Questa sovrastima delle proprie capacità porta, a sua volta, a commettere decisioni sbagliate, a problemi relazionali e anche a danni concreti.
Ad esempio, un medico che soffre dell’effetto Dunning-Kruger potrebbe non riconoscere la propria inadeguatezza in una particolare area di competenza e, pertanto, mettere a rischio la salute dei propri pazienti. Non solo, a livello sociale, l’effetto DunningKruger porta a una diffusa scarsa valutazione delle competenze altrui, favorendo l’insorgere di conflitti e il mancato riconoscimento del merito di chi ha realmente le competenze necessarie per svolgere un determinato compito, come spesso accade in ambito politico (Dunning & Kruger, 1999; Falchi & Carmignani, 2020).
In entrambi i casi, in definitiva, questi fenomeni influiscono sulle relazioni personali e professionali, sulla salute mentale e fisica e sulla capacità di una persona di raggiungere il successo e la felicità a lungo termine. È importante quindi riconoscere queste problematiche e cercare supporto e aiuto per gestirle e superarle, sebbene si tratti di manifestazioni psicologiche fin troppo recenti, cui andrebbero affiancati più studi approfonditi per capirne l’origine e le conseguenze sociologiche.
Bibliografia
Falchi, A., Carmignani, M. (2020). Effetto Dunning-Kruger: l’asimmetria del giudizio, Carmignani Editrice, Pisa. Grant, A. (2021). Thing Again, Viking, New York.
Kruger, J., Dunning, D. (1999). Unskilled and Unaware of It: How Difficulties in Recognizing One’s Own Incompetence Lead to Inflated Self-Assessments, Journal of Personality and Social Psychology.
Dott. Rodolfo Lisi
Docente di Scienze Motorie
Coreno Ausonio (FR)
“Linee guida” sul comportamento più idoneo se un bambino affetto da scoliosi, ipercifosi o valgismo varismo delle ginocchia, intende praticare il tennis
Ipotesi n. 1: il tennista in erba è affetto da scoliosi
Presentazione dei problemi e potenziali soluzioni
Oggi è martedì. Carlo (nome fittizio a rendere l’esempio), alla 2a e 3a ora, si recherà in palestra perché lo aspetta il docente di educazione fisica. Il collega tiene sotto vigile controllo i movimenti degli allievi e nota che il nostro – visto di dietro e in una fase di ‘riposo attivo’ (corsa leggera, ad esempio) – presenta la caratteristica ‘asimmetria delle spalle’. Cosa fare? Il docente, dopo aver fermato Carletto, comincia ad attivare un dialogo del tutto informale. Porrà quesiti del tipo: «I tuoi genitori sono a conoscenza che hai una spalla più bassa dell’altra? Quale sport stai praticando? Ti affidi a personale qualificato?». Se le risposte si rilevano soddisfacenti, il docente, ricevute le informazioni, terminerà ‘la sua indagine’ raccomandando, però, una visita di controllo dal medico di medicina generale almeno una volta all’anno fino alla pubertà.
Nel caso invece, le risposte siano altre (“il dottore mi ha detto che ho una scoliosi. Non porto il corsetto, però non posso giocare a tennis perché mi può far male”), è necessario un incontro a breve con i genitori di Carlo. A papà e mamma, il collega informato chiarirà che, ad oggi, gli studi su detto argomento sono pochi, e quei pochi scarsamente attendibili (1, 2). Dunque, l’educatore sportivo si limiterà a dare consigli dettati dal buon senso e dalla sua esperienza. Il nuoto agonistico, invece, è dannoso (3, 4, 5). Ancora, il professore consiglierà una visita dal medico di base. Quest’ultimo, eventualmente, invierà il bimbo o la bimba ad un ortopedico specialista nel trattamento delle deformità spinali. Molto probabilmente, al fine di confermare la paventata scoliosi, l’ortopedico prescriverà un’indagine radiografica in toto del soggetto e chiarirà la reale consistenza della patologia scoliotica.
E il tennis?
Nel pomeriggio, Carlo va a giocare a tennis per 2 ore, prima di fare i compiti. La sua attività è amatoriale e non ha ambizioni del tipo “voglio vincere Wimbledon!”. Prendiamo il Carlo che ha informato l’insegnante di essere affetto da scoliosi. Sul campo, il maestro e il preparatore fisico e/o il fisioterapista avranno l’accortezza di alternare palleggi e partite a esercizi mirati per ‘contenere’ la scoliosi. Gli esercizi non possono frenare o, ancor meno, arrestare la patologia, ma possono creare un forte busto muscolare che sostiene la colonna e la rende meno suscettibile a movimenti potenzialmente pericolosi (1, 2). È auspicabile che il Tennis Club disponga di una palestra, anche se la maggior parte degli esercizi possono essere effettuati sul campo (esercizi di compensazione con palla medica, esercizi di potenziamento addominale, esercizi sul materassino). In caso contrario, non c’è da disperarsi.
I summenzionati esercizi (quelli ‘isometrici’, per intenderci) possono essere eseguiti anche a casa. In caso di scoliosi grave, e se il giovane intende praticare il tennis a livello agonistico, il consiglio è quello di sospendere l’attività sportiva (1, 2). Si tratta di sottoporre un “rachide di per sé fragile” a carichi sopportabili da “rachidi normali” (1, 2).
Ipotesi n. 2: il tennista in erba è affetto da ipercifosi
Presentazione dei problemi e potenziali soluzioni
Forniamo una breve dissertazione sulla patologia per meglio comprendere la reale entità del problema che può avere risvolti diversi nel caso si è in presenza di una ipercifosi lieve e non strutturata, o, invece, della più temuta ipercifosi osteocondrosica, cioè strutturata. Nel primo caso, i caratteri fisici, le abitudini e l’esercizio spiegherebbero molti atteggiamenti devianti e/o incongrui. È il caso, appunto, di Carlo che sovrasta in altezza i compagni e che, per essersene fatto un complesso, prova a farsi ‘più piccolo’, incassando il capo e arrotondando le spalle. Analogo è il caso di una ragazzina in piena fase puberale, la quale tenderà a forzare il tronco in un atteggiamento arcuato ed ‘avvolgente’ per mascherare il carattere fisico tipico della donna già matura. Queste tipologie di ipercifosi vengono chiamate ‘paramorfismi’ (risultato di mancato adeguamento muscolare, vizi posturali, scarsa attività motoria). Ben diverso è il secondo caso: Carlo è affetto da una ipercifosi strutturata (‘dismorfismo’).
Tale condizione patologica è il risultato di un’infiammazione dell’osso durante il suo stadio cartilagineo, come nel caso della ‘ipercifosi osteocondrosica’, caratterizzata da deformazione a cuneo di una porzione dei corpi vertebrali (6). In casi severi, il ricorso al corsetto è indispensabile. Ma anche qui la ginnastica, eseguita in modo razionale, può risultare utile. Durante le ore di Educazione Fisica, l’insegnante non dovrebbe avere problemi nel riconoscere in Carlo la presenza di una specie di ‘gobba’ assieme alle spalle anteriorizzate. In questi casi è bene parlare con l’allievo per sapere se i genitori si sono recati dal medico di base e/o dallo specialista ortopedico.
Altro compito del collega di Educazione fisica è quello di sapere se esistono problemi in famiglia, paure inconsce o semplicemente una ‘non accettazione’ del proprio fisico. In questo caso, l’intervento dei docenti e di una psicologa potrebbe realmente essere di aiuto al ragazzo. Si parla, ovviamente, della forma ‘posturale’. In quella strutturale, purtroppo, ricorrere al bustino e praticare una sana e corretta attività fisico-motoria sono le uniche possibilità di intervento conosciute.
Tennis sì o tennis no?
Ad avviso dello scrivente, qualsiasi attività fisica in ambiente aperto è una panacea per i ragazzi sofferenti della forma meno grave di ipercifosi. Si tenga presente che nella maggior parte dei casi, l’atteggiamento viziato è il risultato di una insoddisfacente consapevolezza dei propri mezzi: la rappresentazione fornita dianzi – la ragazza che si avvolge le braccia intorno al corpo con il capo reclinato in avanti – rappresenta la tipica paura di ‘affrontare la vita che cambia’. Il ragazzo, in ultima istanza, deve essere libero di praticare lo sport preferito ed anche il tennis può esserlo. Nelle forme strutturate, invece, i dati scientifici sono scarsi. Da uno studio tutto italiano (7) si evince comunque che nel gruppo tennis l’incidenza di ipercifosi è praticamente nulla.
Nulla osta, dunque, alla pratica del tennis in soggetti con ipercifosi di natura posturale e anche in quelli affetti da forme strutturate, ovviamente nelle ore libere dal tutore. In attesa, intanto, di altri e più probanti studi al riguardo.
Ipotesi n. 3: il tennista in erba è affetto da valgismo o varismo delle ginocchia Presentazione dei problemi e potenziali soluzioni
Due altre patologie possono manifestarsi nel giovane tennista: il valgismo o il varismo delle ginocchia. Nel primo caso, il nostro “Carlo” ha le ginocchia a “x”, ovvero le stesse si toccano tra loro (l’asse femore/tibia forma un angolo aperto in fuori). Da un punto di vista etiopatogenetico, tale malformazione può essere ricondotta ad una insufficienza muscolo-legamentosa generica e, in taluni casi, può determinare anche un appiattimento della volta plantare.
Il piattismo, comunque, può insorgere anche indipendentemente dall’alterazione del ginocchio, mentre l’ipotonia generale della muscolatura e dei legamenti risulta ancora essere il primum movens. Pivetta e Scarfì (8) ritengono deficitari tra i muscoli, il lungo peroneo; tra i legamenti, invece, il deltoideo. Il trattamento va iniziato precocemente dato che la sua validità è limitata all’età dell’accrescimento. È giustificato, tra l’altro, il pessimismo di alcuni autori sulla potenzialità terapeutica del solo esercizio fisico: si tratta di una patologia molto delicata che abbisogna di presidi medico-ortopedici nelle forme lievi-modeste, mentre nelle forme gravi può richiedere addirittura l’intervento chirurgico. L’educatore sportivo e/o il fisioterapista attento, dotato di buon senso e professionalità, ricorrerà a movimenti che tendono ad allontanare le ginocchia, avvicinando i piedi.
Si concorda con Pivetta (9) che, riprendendo gli studi di Dubois e Durafourg (10), consiglia di focalizzare l’attenzione sui piedi e prevenirne le deformità, perché a loro volta responsabili proprio di quelle del ginocchio. E cioè: – Mantenere un adeguato controllo muscolare dell’equilibrio antero-posteriore e trasversale del piede; – Effettuare una rieducazione globale dell’arto inferiore.
Il varismo è, logicamente, il problema inverso. L’asse femoro-tibiale (quello della gamba, per intenderci) forma un angolo aperto all’interno. La tipica forma a ‘parentesi’ delle gambe è molto comune alla nascita. Dal varismo si passa al valgismo e, infine, verso i 7-8 anni, le ginocchia si raddrizzano. Purtroppo, così come il valgismo, il varismo poco si giova del solo esercizio fisico. Nelle forme leggere la terapia è innanzitutto preventiva, ossia vitamina D, ultravioletti, ritardo nell’inizio della deambulazione ed utilizzo di docce correttive.
Per quanto concerne poi la terapia fisica, scopo primario è quello di applicare forze di pressione che tendano ad avvicinare le ginocchia. Pivetta (10) consiglia giustamente movimenti di flessoestensione della gamba e della coscia, interponendo un cuscino o una palla tra le caviglie e cercando di bloccare le ginocchia mediante una fasciatura.
E il tennis?
L’attività fisico-motoria e sportiva può rientrare a giusto titolo in un programma riabilitativo specifico. Ad esempio, nel valgismo, alcuni specialisti consigliano l’equitazione e il calcio (attività sportive che tendono ad allontanare le ginocchia). Così si è già accennato, nelle forme severe è indicato l’intervento chirurgico.
Nelle forme lievi, invece, sia che si tratti di valgismo sia che si tratti di varismo, è importante affrontare precocemente ed efficacemente la malformazione in atto. Il miglioramento del trofismo muscolare, assieme ad esercizi specifici, dovrà sempre accompagnare la seduta giornaliera al Tennis Club. Il problema, però, è un altro. Il soggetto, costretto a ritrovare un equilibrio già di per sé deficitario, si stancherà facilmente in ragione di un appoggio plantare al suolo non corretto e di una muscolatura degli arti inferiori ipotonica. Inoltre, il rischio di infortuni è alto.
Non essendo normale l’asse femore/tibia, il peso del corpo va a gravare – invece che su entrambi – su un solo compartimento (mediale o laterale) del ginocchio (11). Ciò può determinare – soprattutto se il campo di giuoco è in duro cemento e/o in sintetico – lesioni legamentose e meniscali (12). La superficie indicata – in termini di prevenzione degli infortuni – è la terra rossa che consente, tra le altre cose, il cosiddetto ‘scivolamento controllato’ (12), ovvero maggior tempo di frenata che si traduce in minori sollecitazioni.
Bibliografia
1. Lisi R. Tennis e scoliosi, stato dell’arte. Lombardo Editore, Roma, 2007.
2. Lisi R. La scoliosi nel tennis, tutta la verità. Il Trifoglio Bianco, Latina, 2018.
3. Geyer B. Scoliose thoracique et sport. Atti XIV Journées d’Etudes G.K.T.S. Palavas-les-Flots, Francia, 1986.
4. Vercauteren M et al. Trunk asymmetries in a Belgian school population. Spine 7: 555-562, 1982.
5. Lisi R, Giuffrida C. Il nuoto non fa bene. Il Trifoglio Bianco, Latina, 2019.
6. Cailliet R. Il dolore lombo-sacrale. Edilombardo, Roma, 1991.
7. Boldori L, Dal Soldà M, Marelli A. Anomalie del tronco. Analisi della prevalenza nel giovane sportivo. Minerva Pediatr. 51(7-8):259-264, 1999.
8. Pivetta S, Scarfì G. Ginnastica correttiva degli atteggiamenti viziati nell’età della scuola. Monografie ortopediche PAIS, Roma, 1954.
9. Pivetta S, Pivetta M. Tecnica della ginnastica medica. Cifosi-Lordosi-Arti inferiori. Edi.Ermes, 5a Edizione, 1998.
10. Dubois JPH, Durafourg MPH. Physiologie et rééducation fonctionnelle du pied. Masson & Cie, Paris, 1972.
11. Lisi R. Tennis e salute. Lombardo, Roma, 2009.
12. Lisi R. Patologie degli arti inferiori nel tennista. Aracne, Roma, 2016.
Le recenti scoperte relative il funzionamento del Nervo Vago offrono nuove possibilità terapeutico per molti disturbi che sono stati finora considerati attinenti psicologici o biomedici. Tra queste nuove possibilità, la stimolazione transcutanea del nervo vago, sembra essere una delle più promettenti per efficacia e non invasività del trattamento.
ABSTRACT
In questo scritto descriveremo lo stato dell’arte attuale del trattamento relativo la stimolazione transcutanea del nervo vago. Sempre più ricerche stanno dimostrando la potenziale utilità di questa interventistica clinica che, pur essendo non invasiva, riesce a manipolare efficacemente il funzionamento del nervo vago. Questo nervo, permettendo in maniera unica la comunicazione veloce tra la mente, il cervello e tutto il resto del corpo, rappresenta di fatto una modalità strategicamente cruciale per il trattamento di molti disturbi psicologici e fisiologici in un’ottica integrata.
In this paper, we will describe the current state of the art of treatment related to transcutaneous vagus nerve stimulation. More and more research is demonstrating the potential usefulness of this clinical interventional procedure, which, while noninvasive, can effectively manipulate the functioning of the vagus nerve. This nerve, uniquely enabling fast communication between the mind, brain, and the entire rest of the body, is in fact a strategically crucial modality for the treatment of many psychological and physiological disorders from an integrated perspective.
Il nervo vago rappresenta la principale connessione nervosa tra il cervello e tutto il resto del corpo e quindi risulta strategicamente importante dal punto di vista clinico nel trattamento di numerosi disturbi considerati generalmente psicologici o di natura più fisiologica/ medica. Nell’ottica integrata, scientifica ed olistica di benessere e salute umana, la manipolazione del nervo vago offre ampie potenzialità terapeutiche proprio perché questo nervo ha una funzione sistemica molto complessa che prevede la connessione con aspetti cognitivi, emotivi e motivazionali così come la gestione infiammatoria e la comunicazione con l’enorme ecosistema di microorganismi che colonizzano il nostro organismo: il microbiota.
È noto che il cervello riceve informazioni dalle proiezioni afferenti del nervo vago (Liu et al., 2011). Queste fibre afferenti proiettano al nucleo tractus solitarius (NTS), nucleo che a sua volta proietta a diverse strutture, tra cui il locus coeruleus, la materia grigia periacqueduttale, il nucleo dorsale del rafe, il nucleo talamico paraventricolare, l’amigdala e il setto mediale (Brog et al., 1993; Van Bockstaele et al., 1999), il mesencefalo, l’ipotalamo, l’amigdala e il lobo frontale (Nomura et al., 1984; Carreno et al., 2016) e, sebbene non esista una proiezione anatomica diretta dal NST alla formazione dell’ippocampo (Castle et al., 2005), alcuni risultati suggeriscono che l’input vagale potrebbe passare attraverso l’NST e quindi raggiungere l’ippocampo probabilmente attraverso il successivo percorso multisinaptico (Broncel et al., 2018).
In letteratura esistono numerose evidenze relative gli effetti positivi della stimolazione vagale nel trattamento della depressione maggiore resistente ai farmaci (Sackeim et al., 2001; Tabitha et al., 2020). Il nervo vagale ha un ruolo anche nella gestione dello stress, modula sia l’eccitabilità intrinseca dei neuroni PVN CRF (neuroni del fattore di rilascio della corticotropina nel nucleo paraventricolare dell’ipotalamo (PVN), sia la segnalazione GABAergica locale dell’asse HPA, ipotalamo-ipofisi-surrene (Keller et al., 2021). La letteratura scientifica, inoltre, è concorde nel ritenere il nervo vago parte integrante di un complesso sistema di comunicazione bidirezionale tra il cervello e il tratto gastrointestinale, il cosiddetto “asse cervello-intestino” (Breit et al., 2018), network di cui fanno parte anche il sistema nervoso simpatico (per mezzo dei gangli prevertebrali), quello endocrino, quello immunitario (Bonaz, 2017), e il microbiota intestinale. Tale sistema ha quindi la funzione di regolare l’omeostasi gastrointestinale e modulare alcune espressioni emotive e cognitive del cervello (Agnoletti, 2019; Carabotti et al., 2015).
Nella definizione dell’“asse microbiota-intestinocervello-mente” (più ampia e corretta dal punto di vista epistemologico rispetto quella largamente condivisa di “asse intestino-cervello”) proposta da Agnoletti (Agnoletti, 2023), il nervo vago assume un ruolo unico e cruciale nel mettere in relazione tutte le dinamiche bio-psico-sociali che caratterizzano l’organismo umano. Alla luce di queste (ed altre) evidenze scientifiche è chiaro che “l’asse cervello-intestino” (o “l’asse microbiotaintestino-cervello-mente” nella proposta teorica di Agnoletti) stia diventando sempre più importante come bersaglio terapeutico sia per i disturbi gastrointestinali che per quelli psichiatrici, come la malattia infiammatoria intestinale (IBD) (Bonaz et al., 2017), la depressione (Evrensel et al., 2015), il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) (Leclercq et al., 2016; Sciocco et al. 2019) ed altre tipologie di disturbi (Mariano, 2023). In un recente studio condotto dal gruppo di Rei (Rei et al., 2021) si sono analizzati gli effetti del microbiota sulla memoria di animali anziani trovando che una minore attività vagale provocava una riduzione della funzionalità dell’ippocampo. Inoltre, l’evidenza che la stimolazione del nervo vago (VNS) porti ad un miglioramento mnemonico sia negli animali (Clark et al., 1995; Clark et al., 1998) che negli esseri umani (Clark et al., 1999; Sjögren et al., 2002), supporta l’idea che potrebbe essere anche un trattamento efficace per le malattie neurodegenerative associate al declino cognitivo (Rosso et al., 2020).
Nei modelli murini la stimolazione del nervo vago (VNS) ha anche ottenuto risultati positivi per indurre una plasticità sinaptica mirata a facilitare l’estinzione dei comportamenti appetitivi e per ridurre le ricadute nelle dipendenze da droghe, in particolare cocaina (Childs, 2016) ed eroina (Liu et al., 2011). Una meta-analisi del gruppo di Ridgewell (Ridgewell et al., 2021) sulla stimolazione transcutanea del nervo vago (t-VNS) in giovani adulti sani ha riscontrato un effetto significativo, sebbene moderato, relativo al miglioramento delle prestazioni cognitive, specificatamente quelle esecutive. Il nervo vagale può essere influenzato anche dalla respirazione, dalla meditazione e dallo yoga, contribuendo alla resilienza e alla mitigazione dei sintomi dei disturbi dell’umore e dell’ansia (Breit et al. 2018).
Ma l’intervento sul nervo vago può essere però effettuato, oltre che per mezzo di esercizi corporei, anche attraverso una tenue stimolazione elettrica. Il primo dispositivo per la stimolazione elettrica del nervo vagale (iVNS) richiedeva l’impianto chirurgico di elettrodi e uno stimolatore (Beekwilder et al., 2010). I dispositivi iVNS venivano suturati sotto la pelle del torace con una dissezione laterale del collo sinistro intrapresa per esporre il nervo vago cervicale sinistro e avvolgerlo attorno a un elettrodo stimolante (Dolphin et al., 2022). Tale impianto invasivo, pur essendo un trattamento relativamente sicuro, portava con sé eventi avversi (AE), generalmente un’infezione topica dovuta all’impianto stesso (Jurgens et al., 2013) oppure al continuo alternarsi on-off della stimolazione (Ben-Menachem et al., 2015).
Fortunatamente meno frequenti sono stati gli effetti iatrogeni più gravi, ma comunque possibili, quali bradicardia e asistolia, così come la paresi delle corde vocali (Dolphin et al., 2022). La VNS invasiva (iVNS) ricevette l’approvazione normativa degli Stati Uniti per il trattamento complementare delle crisi epilettiche refrattarie al trattamento farmacologico nel 1997 e per l’uso nella depressione resistente al trattamento nel 2005 (O’Reardon et al., 2006). Un intervento di stimolazione non invasiva è la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS), introdotta per altre aree del cervello già dal 1985 (Barker et al., 1985). La procedura prevede l’invio di impulsi magnetici alla corteccia cerebrale che inducono una corrente elettrica nel tessuto nervoso depolarizzando i neuroni bersaglio (Hallett et al., 2000). Relativamente all’applicazione sul nervo vagale la rTMS è stata usata, in tempi recenti, soltanto per il trattamento della depressione, efficace al pari della psicoterapia o della farmacoterapia (Akhtar et al., 2016).
Agli inizi degli anni 2000, prima sugli animali e poi sull’uomo, sono stati sviluppati sistemi VNS non invasivi (nVNS o tVNS) che eliminano la necessità di impianto chirurgico e conseguentemente annullano i rischi correlati all’interventistica chirurgica (Goadsby et al., 2013). Tali tecniche comportano l’uso di elettrodi sulla pelle per eccitare le fibre vagali afferenti e può essere eseguita attraverso il collo (VNS cervicale transcutaneo: tcVNS) oppure l’orecchio (VNS auricolare transcutaneo: t-VNS).
La tecnica di t-VNS sfrutta l’anatomia periferica del nervo vago, attivando proiezioni afferenti vagali attraverso la stimolazione del ramo auricolare del nervo vago (ABVN) all’orecchio (Peuker & Filler, 2002; Mercante et al., 2018). Per un approfondimento dei risultati della stimolazione del nervo afferente vagale auricolare (RAVANS) attraverso la respirazione rimandiamo allo studio del gruppo capitanato da Sclocco (Sclocco et al., 2019). Nella t-VNS le forme d’onda di stimolazione del nervo vago auricolare transcutaneo possono essere erogate con una varietà di diverse impostazioni dei parametri che variano la frequenza (Hz), l’ampiezza (mA), l’ampiezza dell’impulso (μs-msec) e la durata della stimolazione. La ricerca sta ancora determinando gli obiettivi di stimolazione ottimali (Badran et al., 2018), sebbene i due posizionamenti più comuni siano la parete anteriore del condotto uditivo esterno (trago) e la conca cilindrica (Badran et al., 2019).
Attraverso l’elaborazione dei risultati con modelli computazionali il gruppo diretto da Kreisberg (Kreisberg et al., 2021) ha valutato tre posizioni di stimolazione nell’orecchio: il trago interno, la parete inferoposteriore del condotto uditivo, la conca del cymba, tutte con un elettrodo di ritorno sulla superficie esterna del trago, considerandole sostanzialmente equivalenti per efficacia. La validità anticonvulsivante equivalente alla iVNS è stata dimostrata in studi preclinici prima che la fattibilità e il significato terapeutico di questa tecnica nell’uomo fossero dimostrati (Stefan et al., 2012) e l’evidenza di molteplici studi di imaging cerebrale funzionale confermano la significativa attivazione delle proiezioni vagali centrali attraverso questo metodo non invasivo (Kraus et al., 2013; Frangos et al., 2015; Yakunina et al., 2017).
In una ricerca sperimentale che ha coinvolto trentasei pazienti, il gruppo di Yakunina (Yakunina et al., 2018), ha verificato l’efficacia del trattamento anche per soggetti sofferenti di acufene cronico e fischi auricolari, giungendo alla conclusione che la t-VNS applicata al trago interno e alla cymba conchae nei pazienti con acufene ha soppresso con successo le aree cerebrali uditive, le aree limbiche e altre implicate nei meccanismi coinvolti nella generazione ed alla percezione dell’acufene attraverso le vie ascendenti uditive e vagali. In sintesi, la stimolazione non invasiva transcutanea del nervo vago rappresenta un intervento clinico preferenziale e complementare a molti trattamenti di disturbi psicologici e fisiologici soprattutto all’interno di una visione moderna e scientifica di benessere e salute umana che condivide i canoni di integrazione ed olismo.
Bibliografia
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Dott. Roberto Urso
Ortopedia e Traumatologia
Ospedale Maggiore di Bologna
ABSTRACT
Il campo della chirurgia della mano è un settore estremamente vasto, così come può essere piccolo il segmento interessato. La mano e il polso sono costellati da una miriade di possibili lesioni e, quasi sempre, il pensiero va alla traumatologia. E cioè alle lesioni ossee, le lesioni tendinee o quelle vascolo-nervose che molto spesso vengono provocate da insulti traumatici di tipo motociclistico, sportivo o da infortuni lavorativi. Questa branca è, invece, anche interessata, seppur in forma minore, dalle lesioni di tipo neoplastico che, come i grandi segmenti o i tumori non visibili, vanno trattati con la stessa importanza e precisione. In questa sessione si parlerà di una neoplasia abbastanza rara, ma che spesso porta, nonostante la sua natura, a mal interpretazioni e spesso a indicazioni medico-chirurgiche non corrette. Vedremo, quindi, un case report inerente una neoformazione della famiglia degli emangiomi.
Gli emangiomi:
L’emangioma cutaneo è un neoplasia appartenente agli angiomi cutanei; è un tumore benigno che si sviluppa e cresce in modo autonomo e afinalistico dalle cellule endoteliali dei nostri vasi sanguigni e l’emangioma capillare appartiene a questa categoria, presentando quasi sempre come una macchia o “voglia” della pelle.
Il suo sviluppo può essere sia precoce che tardivo; precoce perché spesso presente nel nascituro in forma di una o più piccole areole di color rosso vinaccia scuro, che il più delle volte tende a scomparire dopo poco tempo dalla nascita, i quali rappresentano circa il 30% degli emangiomi; tardivo, in quanto da piccola areola può, nel tempo, assumere dimensioni maggiori.
Un emangioma tardivo può evolvere da semplice macchia rosso scura a massa molto più grande assumendo una consistenza paragonabile ad una piccola spugna, con crescita estremamente veloce raggiungendo spesso dimensioni fino a 6-8 cm. Hanno uno sviluppo che può essere sottocutaneo o extracorporeo.
Nell’età adolescenziale il più delle volte tendono a regredire spontaneamente. E il trattamento molto spesso non è di tipo chirurgico, ma qui tratteremo una forma in paziente di mezza età sviluppatosi in modo assolutamente anomalo rispetto ai vari emangiomi che siamo abituati a vedere nelle nostre esperienze cliniche e in considerazione del fatto che le possibilità chirurgiche sono rare, in quanto la regressione della neoplasia è nella maggior parte dei casi, spontanea.
Case report:
Donna di circa 55-60 anni: al dito indice della mano destra presenza da anni di piccola macchia cutanea color rosso vinaccia di minime dimensioni, circa 2 mm di diametro. Nel corso di un tempo estremamente breve, circa 30- 35 giorni, la neoformazione ha iniziato una crescita esponenziale fino ad arrivare alla forma ovulare e di misura di circa 4 cm per 3 cm.
La caratteristica più importante, oltre alla dimensione assunta in breve tempo, era l’aspetto di tipo lobato e la sua importante vascolarizzazione che lo portava al sanguinamento appena veniva toccato o grattato. Tant’è che la paziente si trovò costretta a mantenerlo sempre bendato sia per proteggersi dai sanguinamenti, sia per coprire una forma neoplastica avente un brutto aspetto. Un’altra caratteristica era la totale assenza di dolore e la perfetta funzionalità del dito della mano con una flesso-estensione assolutamente conservata ma che.
Causa le dimensioni, portavano sempre al traumatismo dell’emangioma con relativo sanguinamento. Come si vede dalla figura 1 il quadro clinico che si presentò non era di bell’aspetto, con una dimensione importante, con un aspetto vascolarizzato e una crescita estremamente veloce. La paziente fu sottoposta a vari esami clinici e laboratoristici preparativi all’intervento, escludendo dalla anamnesi familiarità per malattie tumorali.
E una valutazione anestesiologica determinò la scelta dell’anestesia di tipo plessico, invece che locale, in quanto una chirurgia applicata ad un segmento così piccolo imponeva una ischemizzazione di una porzione più alta della semplice mano, così che il campo chirurgico potesse essere esteso fino al gomito nel caso che si fosse reso necessario un approccio più vasto di quanto in realtà fu fatto. Sul campo chirurgico, con laccio alla radice dell’arto, si potè manovrare la neoplasia liberamente, senza rischi di sanguinamento attivo che avrebbero potuto compromettere la visione in toto dell’intervento.
Sollevato il tumore ci si rese conto che lo stesso era cresciuto partendo da quella unica piccola macchia della pelle che la paziente aveva sempre avuto. Una vera e propria evaginazione di tessuto. La parte interessata era partente dal punto di passaggio del fascio vascolonervoso mediale del dito e, il rischio, era quello di una possibile interessamento del ramo sensitivo del dito.
La enucleazione fu estremamente semplice e la zona di nascita del tumore fu cauterizzata e applicato solo un punto di sutura. Una normale medicazione fu posizionata a fine intervento e al risveglio dell’arto interessato non si ebbero danni di tipo neurologico. La neoformazione fu poi inviata al laboratorio per eseguire una biopsia mirata, la cui risposta fu di “emangioma capillare lobulato”, quindi una neoplasia benigna, asportata in toto e che non ha lasciato strascichi clinici alla paziente, la quale, dopo pochi giorni, ha ricominciato le sue ordinarie attività lavorative.
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