Rivista del mese

Avv. Angelo Russo
Diritto Civile,
Diritto Amministrativo,
Diritto Sanitario,
Catania

 

 


Con la recentissima sentenza n. 2891 del 14.3.2022 il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater) si è occupato della questione relativa al riconoscimento della figura dell’odontotecnico nell’ambito delle professioni sanitarie.

IL FATTO

Confartigianato Imprese, Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa, L.C. e G.M. proponevano ricorso contro il Ministero della Salute e nei confronti dell’Associazione Nazionale Dentisti Italiani e della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, per l’annullamento delle note (omissis) del Ministero della Salute – Direzione Generale delle professioni sanitarie e delle risorse umane del Servizio Sanitario nazionale – Ufficio V – Disciplina delle professioni sanitarie, recante ad oggetto “richiesta di riconoscimento della figura dell’Odontotecnico quale professione sanitaria”, del parere del Gruppo Tecnico sull’Odontoiatria (G.T.O.) del (omissis) e del “documento tecnico” redatto dalla Commissione Albo Odontoiatri (CAO) Nazionale, richiamato al § 3 del parere G.T.O. del (omissis) e per l’annullamento del documento del C.A.O. Nazionale.

 

I ricorrenti, organizzazioni di categoria rappresentative degli odontotecnici a livello nazionale e soggetti esercenti la professione di odontotecnico, impugnavano le note del Ministero della Salute con le quali “acquisito il parere del Gruppo tecnico sull’Odontoiatria” si era espresso “parere non favorevole alla richiesta di individuazione della figura dell’Odontotecnico quale nuova professione sanitaria”.

I ricorrenti avevano presentato istanza, ai sensi dell’art. 5, Legge 1° febbraio 2006, n. 43, che disciplina le modalità con cui le associazioni professionali possano attivare la procedura per richiedere l’individuazione di nuove professioni sanitarie da comprendere in una delle aree di cui agli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge 10 agosto 2000, n. 251.

Sostenevano, in sintesi, i ricorrenti:

  1. a) Che non è stata garantita la loro partecipazione e che non è stato dato avviso ex art. 10 bis l. 241/1990;
  2. b) Che l’osservanza dei principi in tema di motivazione dell’atto amministrativo esigeva che nel parere del 24 settembre 2018 fosse dato conto, in modo circostanziato, dell’esito stesso dell’istruttoria, necessitando che il Ministero della Salute indicasse gli elementi ritenuti ostativi al riconoscimento della figura dell’odontotecnico quale nuova professione sanitaria;
  3. c) Che il parere del Gruppo Tecnico sull’Odontoiatria si limitava a richiamare gli esiti di un documento tecnico omettendo di renderne note le relative conclusioni;
  4. d) Che l’attività di odontotecnico rientra nell’ambito delle nuove professioni sanitarie, per le quali, ai sensi del comma 3° dell’art. 6 legge n. 43/2006 s.m.i., è prevista la definizione dell’ordinamento didattico della formazione universitaria.

Veniva, quindi, impugnato il parere del Gruppo Tecnico sull’Odontoiatria (GTO) e il documento della Commissione Albo Odontoiatri (CAO) “relativo alle criticità tecnico-giuridiche concernenti l’istituzione del profilo professionale dell’odontotecnico nell’ambito delle professioni sanitarie”.

Sostenevano i ricorrenti:

  1. a) Che, diversamente da quanto sostenuto dal GTO, non è possibile trarre argomenti utili a dimostrare che quella di odontotecnico non è una professione sanitaria;
  2. b) Che il R.D. n. 1334/1928 è chiaro nell’elencare l’attività di odontotecnico tra le professioni sanitarie (v. art. 1, comma 1°, lettera a);
  3. c) Che, indipendentemente dal fatto che l’art. 99 R.D. n. 1265/1934 qualifichi l’odontotecnica come arte ausiliaria dell’odontoiatria, sono innumerevoli gli indizi da cui inferire che all’attualità quella dell’odontotecnico sia una professione e non un’arte;
  4. d) Che con il parere del 30 ottobre/14 novembre del 2001, la Sezione II del Consiglio Superiore della Sanità aveva osservato che la figura dell’Odontotecnico va “inserita nella Classe delle lauree in professioni sanitarie tecniche – area tecnico-assistenziale – (classe 3), di cui al decreto del MURST del 2/4/2001”;
  5. e) Che, per effetto della riforma del 1999, deve ritenersi affermata l’unicità delle attività sanitarie di carattere professionale, tutte ricondotte nel novero delle professioni sanitarie.
  6. f) Che con la sentenza n. 423 del 19 dicembre 2006 della Corte Costituzionale ha affermato che l’odontotecnico va ricondotto “nell’ambito delle professioni”;
  7. g) Che, sia la Direttiva 2005/36/CE, sia la sentenza Malta Dental Technologists Association, richiamate dal parere del CAO, confermano che l’odontotecnica è un’attività professionale e che, pertanto, deve ritenersi superata la qualificazione di essa in termini di attività artigianale;
  8. h) Che in base alla Direttiva 2005/36/CE la figura dell’odontotecnico formatosi in Italia andava senz’altro qualificata come figura professionale di tipo paramedico;
  9. i) Che anche dopo la Direttiva 2013/55/U.E. l’odontotecnico può esercitare la propria attività grazie al possesso di titolo di formazione specificatamente concepito per tale professione;
  10. l) Che, diversamente da quanto affermato nel documento del C.A.O. Nazionale, ulteriori indicazioni circa la necessità di ricondurre l’odontotecnica nelle professioni sanitarie vanno ricavate anche dalle fonti eurounitarie in tema di dispositivi medici su misura;
  11. m) Che il divieto di cui al citato comma 4° del novellato art. 5 legge n. 43/2006 non può che riguardare le professioni di nuovo conio.

 

LA DECISIONE

odontotecnicoIl T.A.R., nel merito, ritiene il ricorso infondato.

L’esame del ricorso si incentra sulla decisione del Ministero della Salute di esprimere “parere non favorevole alla richiesta di individuazione della figura dell’Odontotecnico quale nuova Professione sanitaria”, adottata a seguito dell’instaurazione della procedura ex art. 5 Legge n. 43/2006, con la quale, a seguito delle modifiche apportate con la l. n. 3/2018, è stato contemplato un peculiare iter per il riconoscimento delle professioni sanitarie.

I motivi oggetto di esame riguardano, invero, la correttezza del procedimento e la legittimità del provvedimento oggetto dell’impugnazione.

Fatta questa premessa, il Tribunale precisa che “dovrebbe essere incontestato che la figura dell’odontotecnico non rientra nell’ambito delle professioni sanitarie” e ciò, anzitutto, perché i ricorrenti hanno chiesto l’applicazione dell’art. 5, l. n. 43/2006, (Individuazione e istituzione di nuove professioni sanitarie), per il quale:

“1. L’individuazione di nuove professioni sanitarie da comprendere in una delle aree di cui agli articoli 1,2,3 e 4 della legge 10 agosto 2000, n. 251, il cui esercizio deve essere riconosciuto in tutto il territorio nazionale, avviene in sede di recepimento di direttive dell’Unione europea ovvero per iniziativa dello Stato o delle regioni, in considerazione dei fabbisogni connessi agli obiettivi di salute previsti nel Piano sanitario nazionale o nei Piani sanitari regionali, che non trovino rispondenza in professioni già riconosciute, ovvero su iniziativa delle associazioni professionali rappresentative di coloro che intendono ottenere tale riconoscimento.

A tal fine, le associazioni interessate inviano istanza motivata al Ministero della salute, che si pronuncia entro i successivi sei mesi e, in caso di valutazione positiva, attiva la procedura di cui al comma 2.

L’istituzione di nuove professioni sanitarie è effettuata, nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalla presente legge, previo parere tecnico-scientifico del Consiglio superiore di sanità, mediante uno o più accordi, sanciti in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e recepiti con decreti del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri.

Gli accordi di cui al comma 2 individuano il titolo professionale, l’ambito di attività di ciascuna professione, i criteri di valutazione dell’esperienza professionale nonché’ i criteri per il riconoscimento dei titoli equipollenti.

Con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro della salute, acquisito il parere del Consiglio universitario nazionale e del Consiglio superiore di sanità, è definito l’ordinamento didattico della formazione universitaria per le nuove professioni sanitarie individuate ai sensi del presente articolo.

La definizione delle funzioni caratterizzanti le nuove professioni sanitarie avviene evitando parcellizzazioni e sovrapposizioni con le professioni già riconosciute o con le specializzazioni delle stesse”.

La sovra descritta procedura è diretta proprio a istituire nuove professioni sanitarie, con la conseguenza che può essere adottata (e richiesta) solo allorquando la figura in questione non rientra nell’ambito delle professioni sanitarie.

Ad ogni buon conto – sottolinea il T.A.R. – che la figura dell’odontotecnico non rientra nell’ambito delle professioni sanitarie si evince anche dalle norme vigenti.

Con specifico riferimento alle professioni sanitarie, il Regio Decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie) distingue tre categorie:

  1. a) Le professioni sanitarie principali (medico chirurgo, veterinario, farmacista e, dal 1985, l’odontoiatra);
  2. b) Le professioni sanitarie ausiliarie (levatrice, assistente sanitaria visitatrice e infermiera diplomata);
  3. c) Le arti ausiliarie delle professioni sanitarie (odontotecnico, ottico, meccanico ortopedico ed ernista, tecnico sanitario di radiologia medica e infermiere abilitato o autorizzato).

La Giurisprudenza ha precisato che:

Sul piano normativo, l’odontotecnico esercita un’arte ausiliaria di una professione sanitaria, come precisato all’art. 1 del Regio Decreto n. 1334/1928, che l’ha istituita nel nostro Paese.

I limiti e le modalità di  esercizio di tale attività sono delineati, in particolare, all’art. 11 del citato Regio Decreto, a mente del quale “gli odontotecnici sono autorizzati unicamente a costruire apparecchi di protesi dentaria su modelli tratti da impronte loro fornite da medici chirurghi a dagli abilitati a norma di legge all’esercizio della odontoiatria, con le indicazioni del tipo di protesi; è in ogni caso vietato agli odontotecnici di esercitare, anche alla presenza del medico, alcuna manovra cruenta o incruenta nella bocca del paziente”.

odontotecnicoIl manufatto protesico/ortodontico, inoltre, è da considerarsi un “dispositivo medico su misura” definito, in base al Regolamento (UE) 2017/745, come “qualsiasi dispositivo fabbricato appositamente sulla base di una prescrizione scritta di qualsiasi persona autorizzata dal diritto nazionale in virtù della sua qualifica professionale, che indichi, sotto la responsabilità di tale persona, le caratteristiche specifiche di progettazione, e che è destinato  a essere utilizzato solo per un determinato paziente esclusivamente al fine di rispondere alle sue condizioni ed esigenze individuali”; in detto contesto, l’odontotecnico è considerato “fabbricante” del dispositivo medico e, quindi, soggetto abilitato alla sua produzione” (TAR Torino, sez. II, 17 giugno 2021, n. 619).

L’art. 1, comma 1, della Legge 26 aprile 1999, n. 42 (Disposizioni in materia di professioni sanitarie) ha sostituito la denominazione “professione sanitaria ausiliaria” con quella di “professione sanitaria” e, successivamente, la Legge 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica) ha organizzato le professioni sanitarie in quattro distinte aree (professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica; professioni sanitarie riabilitative; professioni tecnico-sanitarie; professioni tecniche della prevenzione).

Con quest’ultima – precisa il Tribunale – non è stata modificata la figura dell’odontotecnico.

Inoltre – aggiunge il T.A.R. – “che la figura dell’odontotecnico non sia una professione sanitaria si evince anche dai numerosi disegni di legge che, nel corso degli anni, sono stati avanzati (proposta di legge n. 993 presentata il 17 maggio 2013, proposta di legge n. 2203 del 2021, disegno di legge n. 2432 del 2021 presentato dal senatore Serafini).

A conclusione diversa – sottolinea il Giudice Amministrativo – “non si può giungere nemmeno attraverso l’esame della direttiva sulle qualifiche professionali 2005/36/CE come modificata dalla direttiva 2013/55/UE e come poi interpretata dalla sentenza della Corte di Giustizia 21 settembre 2017, n. 125/16.

In particolare, quest’ultima, premette:

62 Tenuto conto del rischio per la salute del paziente che inerisce a tutte le attività contemplate al punto 57 della presente sentenza, dell’importanza dell’obiettivo della tutela della salute pubblica, nonché del margine di discrezionalità, ricordato al punto 60 della presente sentenza, di cui dispongono gli Stati membri nell’attuazione del suddetto obiettivo, occorre constatare che….il requisito dell’intermediazione obbligatoria di un dentista risulta idoneo a raggiungere l’obiettivo di  cui sopra e non va oltre quanto è necessario a tale scopo”.

Conclude che:

L’articolo 49 TFUE, l’articolo 4, paragrafo 1, e l’articolo 13, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2005/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 settembre 2005, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, come modificata dalla direttiva 2013/55/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 novembre 2013, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa di uno Stato membro,  come quella controversa nel procedimento principale, la quale stabilisca che le attività di odontotecnico devono essere esercitate in collaborazione con un dentista, nella misura in cui tale requisito è applicabile, conformemente alla normativa suddetta, nei confronti di odontotecnici clinici che abbiano conseguito le loro qualifiche professionali in un altro Stato membro e che desiderino esercitare la propria professione nel primo Stato membro sopra citato”.

In sostanza, precisa il Tribunale Amministrativo, si ritiene che “la figura dell’odontoiatra non possa essere inserita all’interno delle professioni sanitarie, anche perché se così fosse non avrebbero senso le numerose proposte legislative dirette proprio a far rientrate l’odontotecnico nell’ambito delle professioni sanitarie.

Per ciò che concerne, infine, la motivazione del provvedimento impugnato il T.A.R. evidenzia che:

Il Ministero è giunto al rilascio del parere negativo alla luce del parere del Gruppo Tecnico dell’Odontoiatria; parere che, sostanzialmente, fa proprie le conclusioni a cui è pervenuto il CAO (Commissione Albo Odontoiatri).

Questo ultimo ha ritenuto di dare parere negativo in quanto l’art 6 1. n. 3/2018, che modifica l’art. 5 l. n. 43/2006, prevede al comma 4 che “La definizione delle funzioni caratterizzanti le nuove professioni sanitarie avviene evitando parcellizzazioni e sovrapposizioni con le professioni già riconosciute o con le  specializzazioni delle stesse”.

Infatti, sempre il parere citato, ha precisato che “secondo i regolamenti didattici delle università italiane attualmente in vigore; sono di competenza del laureato ‘in odontoiatria e protesi dentaria:/

la gamma completa dell’odontoiatria generale;

Le procedure terapeutiche mediche chirurgiche complementari alla professione odontoiatrica;

La scienza dei biomateriali per quanto attiene la pratica dell’odontoiatria;

Il conseguimento di specifiche professionalità nel campo della protesi;

La capacità di formulare un piano di trattamento globale;

La capacità di eseguire terapie appropriate, tra l’altro sostituendo denti mancanti, quando indicato e appropriato con protesi fisse, rimovibili che sostituiscano sia denti che altri tessuti persi e protesi  complete;

La conoscenza delle indicazioni alla terapia impiantare e la capacità di effettuarla (tutta e non in parte).

Ai sensi della direttiva 78/687 CEE, inoltre, l’insegnamento della protesi è previsto tra le materie specifiche professionali da cui deriva anche la denominazione di Corso di laurea in odontoiatria e Protesi Dentaria e la competenza assoluta dell’odontoiatra per l’esecuzione di tutti gli aspetti della terapia odontoiatrica”.

Secondo il T.A.R. Lazio la motivazione, fatta proprio dal Ministero nel provvedimento impugnato, non è illogica o illegittima, posto che “l’art. 5, l. n. 43/2006, comma 4, impedisce una sovrapposizione e una parcellizzazione tra le figure professionali; sovrapposizione e parcellizzazione che si determinerebbe nel momento in cui si facesse rientrare nell’ambito delle professioni sanitarie la figura dell’odontotecnico in quanto, questo ultimo, avrebbe competenze del tutto similari a quelle afferenti i corsi di laurea in odontoiatria e protesi dentaria.”

Da ultimo si evidenzia che l’art. 1 della Proposta di legge n. 2203/2021 (proposta della senatrice Boldrini) dichiara espressamente che:

“1. In deroga a quanto previsto in materia di istituzione di nuove professioni sanitarie dalle leggi 1° febbraio 2006, n. 43, e 11 gennaio 2018, n. 3, con la presente legge la professione sanitaria di odontotecnico è ricompresa tra le professioni sanitarie dell’area tecnico-assistenziale di cui all’articolo 3 della legge 10 agosto 2000, n. 251”.

Il nuovo articolo dichiara, espressamente, di agire in deroga alla l. n. 43 del 2006, lasciando così intendere che l’istituzione della nuova professione sanitaria non può essere fatta, allo stato, in virtù di questo articolo.

In conclusione è indubitabile che, salvo eventuali iniziative legislative, la figura dell’odontotecnico non è compreso nell’ambito delle professioni sanitarie.

Rivista del mese

 

Dott. Angelo Pio Taronna
Docente e ricercatore in
Biochimica, Biologia molecolare,
Biotecnologie, Ferrara

 

 

Abstract

La convinzione secondo la quale i geni sono gli unici e indiscussi protagonisti del destino biologico dell’uomo è stata ampiamente confutata. Numerosi studi, infatti, documentano che lo stile di vita, l’alimentazione e/o addirittura i pensieri e le emozioni – attraverso la regolazione dell’espressione genica – sono in grado di influenzare la biochimica cellulare, condizionando così lo stato di benessere psicofisico.


Il DNA (acido deossiribonucleico) è preservato all’interno del nucleo cellulare. Presenta una lunghezza di circa due metri e contiene tutte le informazioni che definiscono le caratteristiche di un individuo. Attraverso il progetto genoma umano, gli scienziati hanno cercato di scoprire e decifrare tutti i geni presenti nell’organismo, al fine di comprendere l’intimo segreto della vita. Tali acquisizioni, però, sono state piuttosto deludenti.

Un primo problema riguarda l’identificazione del numero di geni. Data la complessità umana, i ricercatori si aspettavano – in ogni cellula – la presenza di non meno di 100.000 geni, ma i dati ottenuti hanno documentato un quarto del valore ipotizzato: dato sconcertante se si tiene conto che un semplice grano di riso ne contiene 38.000! Inoltre, malgrado la corrispondenza del 99% tra il codice genetico umano e quello degli scimpanzé, non c’è nulla nel nostro DNA che spieghi perché siamo più intelligenti e mostriamo particolari e specifiche abilità. Infine, la quota di materiale genetico utile (codificante) è circa il 2%; tutto il resto viene definito «junk DNA» (DNA spazzatura), ovvero DNA non codificante (Boukaram, 2014; International Human GenomeSequencingConsortium, 2001).

Tuttavia, nel corso degli anni, alcuni ricercatori hanno suggerito che la sequenza non codificante (circa 98%) possa svolgere una qualche attività funzionale. Queste acquisizioni sono state largamente contestate da altri gruppi di ricerca. Il dibattito resta tuttora aperto.

La risposta a questi interrogativi la si può trovare proprio nell’epigenetica. Tale disciplina studia come l’ambiente e la storia individuale di ciascuno di noi condizionano l’espressione dei geni contenuti nel DNA. Queste acquisizioni hanno smantellato la convinzione secondo la quale sono unicamente i geni a determinare il destino biologico degli individui, lasciando spazio all’idea che spesso ciascuno di noi è capace di influenzare la biochimica cellulare attraverso lo stile di vita, l’alimentazione e/o addirittura i pensieri e le emozioni. In tale contesto un ruolo cruciale viene svolto sia dall’alimentazione che dall’equilibrio psicoemozionale, condizione che gli psicologi clinici identificano come ricchezza interiore espressa per mezzo di disponibilità, interesse, desiderio e piacere nel vivere la vita di relazione. A quest’ultimo aspetto sono stati dedicati diversi studi con risultati piuttosto interessanti. In questa dissertazione verrà affrontato in maniera succinta l’aspetto psico-emozionale, unicamente per supportare l’ipotesi secondo la quale un’alimentazione corretta senza equilibrio psichico non produce alcun beneficio evidente. Ciò spiega, infatti, perché numerose persone trovano vana ogni tipo di alimentazione e in maniera assennata vagano da uno specialista all’altro.

 

Relazione tra psiche e sistema neuroimmunoendocrino

Il sistema immunitario gioca molteplici ruoli: è coinvolto nei processi infiammatori che permettono di riparare i tessuti danneggiati e ha la responsabilità di difenderci contro tutti gli «invasori» (invasori esterni: batteri, virus e funghi; invasori interni: cellule cancerose) che ogni giorno attaccano il nostro organismo. È dimostrato che il sistema immunitario funziona in maniera ottimale in uno stato di serenità. Al contrario, gli stati prolungati di ansia e disagio emotivo (lutto non risolto, depressione, ecc.) compromettono seriamente il sistema immunitario. Tali stati emozionali negativi diminuiscono il numero e la qualità delle cellule protettrici, ivi comprese quelle capaci di difenderci dalle cellule cancerose. La disperazione, l’isolamento sociale, le discordie familiari persistenti sono fattori capaci di indebolire il sistema immunitario.

Alcuni ricercatori dell’Università di Tokushima in Giappone hanno studiato gli effetti dello stress psicologico cronico, documentando delle modificazioni nei geni coinvolti nel network immunitario (Kawai et al., 2007; Yehuda et al., 2009); invece, gli studi condotti da Robert Ader, della Rochester University di New York, hanno provato che il cervello è capace di influenzare il sistema immunitario: esiste un’associazione tra lo stato emotivo di un individuo e l’efficacia del suo sistema immunitario nel contrastare le patologie (Ader, 2000). Studi successivi hanno individuato gli specifici pathways di comunicazione tra il sistema immunitario e il sistema nervoso: gli studi del neuroscienziato statunitense David Felten hanno, infatti, dimostrato l’innervazione degli organi linfoidi primari (timo e midollo osseo),secondari (linfonodi e milza) e delle cellule immunitarie da parte delle fibre del Sistema Nervoso Autonomo, rilascianti catecolamine, acetilcolina e neuropeptidi. Quindi, le fibre nervose e le cellule immunitarie formano vere e proprie sinapsi, denominate «giunzioni neuroimmunitarie» (Bottaccioli, 2014). Tali cellule contengono granuli ricchi di istamina, che sono in grado di rilasciare nei tessuti e nel sangue, provocando infiammazione (Bottaccioli, 2005).

Una via di comunicazione tra il sistema nervoso e il sistema immunitario è rappresentata dal decimo nervo cranico (nervo pneumogastrico o nervo vago), che da solo comprende la maggior parte delle fibre parasimpatiche. Originatosi dal bulbo, raggiunge tutti gli organi viscerali e permette la comunicazione bidirezionale tra questi e il sistema nervoso centrale, grazie alle fibre afferenti ed efferenti di cui è composto. Il suo ruolo è connesso all’equilibrio del sistema neurovegetativo e quindi alla sua funzione parasimpatica, cioè alla capacità di contrastare l’eccessiva attivazione prodotta dal sistema nervoso simpatico sui vari organi (Bottaccioli, 2014).

Recentemente è stata scoperta la sua funzione immunomodulatoria, responsabile del cosiddetto «riflesso infiammatorio», che possiede sia una componente immuno-sensitiva che una componente immunosoppressiva: la prima si riferisce alle fibre vagali afferenti, in grado di rilevare i livelli dicitochineproinfiammatorie prodotte dalle cellule immunitarie e inviarli al nucleo del tratto solitario (Johnston, 2009); la seconda, invece, si riferisce ai neuroni del nucleo del tratto solitario che proiettano informazionial nucleo motorio dorsale delvago,da cui origina la maggior parte delle fibre vagali efferenti pregangliari, responsabili della componente immunosoppressiva. La branca efferente del vago è nota anche come «cholinergicantiinflammatorypathway», poiché utilizza come principale neurotrasmettitore l’acetilcolina. Le cellule immunitarie esprimono infatti, tra i vari recettori, anche quelli per l’acetilcolina e l’esposizione a questo neurotrasmettitore provoca l’inibizione della sintesi di citochine proinfiammatorie (IL-1β,IL-6, IL-8, TNF), ma non di quella di citochine anti-infiammatorie come IL-10 (lecitochine sono proteine che costituiscono il principale mezzo di comunicazione tra le cellule immunitarie e di mediazione della loro risposta). In particolare, sembra proprio che sia il recettore nicotinico con subunità α7 (a7nAChR) il responsabile dell’immunosoppressione (Johnston, 2009).

Non meno importanti sono le relazioni esistenti tra il sistema immunitario e il sistema endocrino. Numerose ricerche, tra cui quelle condotte da EdweenBlalock, dell’Università del Texas, hanno dimostrato che i linfociti, imacrofagi e altre cellule immunitarie sono dotati di recettori per i principali neurotrasmettitori, neuropeptidi e ormoni e sono capaci a loro volta di produrre ormoni e altre sostanze, come lecitochine, che agiscono sul sistema neuroendocrino (Bottaccioli, 2005).

Ad esempio, le citochine IL-1/IL-6 (interleuchina 1/6) influenzano l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, stimolando l’ipotalamo a liberare CRH (CorticotropinReleasingHormone – ormone di rilascio della corticotropina) o corticoliberina, che stimola l’ipofisi anteriore (o adenoipofisi) a rilasciare l’ACTH (AdrenoCorticoTropicHormone) o corticotropina; quest’ultimo, attraverso il torrente ematico, stimola la produzione di glucocorticoidi, in particolare cortisolo, da parte della corticale del surrene. Il cortisolo aumenta i livelli di glucosio ematico (azione iperglicemizzante) e accelera il catabolismo proteico e lipidico per far fronte a una condizione tipica di stress (Gunnar and Quevedo, 2007).

Citochine come la IL-2 e il TNF-α sembrano invece stimolare il rilascio di ACTH direttamente dall’ipofisi (Chryssikopoulos, 1997).

L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, come tutti gli assi neuroendocrini,è un sistema a feedback negativo capace di autoregolarsi: i livelli circolanti di cortisolo vengono letti dall’ipotalamo e dall’ipofisi grazie a specifici recettori, che inducono l’inibizione dell’ulteriore produzione di ormone. Assieme al «braccio chimico», l’amigdala è in grado di attivare un «braccio nervoso» in risposta allo stress: ancora una volta tramite la mediazione dell’ipotalamo viene trasmessa informazione al tronco dell’encefalo e precisamente ai nuclei del locus coeruleus, che producono noradrenalina. Questi neuroni proiettano sia alla corteccia, per indurre lo stato di allerta, sia a numerosi organi (cuore, fegato, polmoni, ecc.) per attivare la risposta viscerale allo stress. Tra i molteplici bersagli viene stimolata la midollare del surrene con conseguente produzione di adrenalina, noradrenalina e dopamina (Bottaccioli, 2005).

Tali sostanze potenziano gli effetti indotti dalla stimolazione noradrenergica simpatica sugli altri organi. Tra tutte le molecole citate, il cortisolo e l’adrenalina se prodotti in eccesso, come si verifica in situazioni di stress eccessivo, innescano reazioni biochimiche negative. Attraverso la stimolazione di specifici recettori di membrana vengono innescati processi intracellulari che culminano con l’attivazione del fattore di trascrizione NFkB (NuclearFactor kappa-light-chain-enhancer of activated B cells) e la conseguente espressione di geni coinvolti nel processo infiammatorio: produzione di proteine infiammatorie. Questo processo porta alla riduzione della capacità funzionale dei leucociti circolanti e dei livelli di glutammina (AA essenziale per i leucociti), produzione di citochine e di specie reattive dell’ossigeno (ROS) (Bottaccioli, 2005).

Il network neuroendocrino-immunologico che è stato descritto si autoalimenta e si autosostiene producendo così un «cortocircuito» tale che l’individuo resta come «paralizzato»: la psiche altera l’attività immunitaria, la quale a sua volta altera l’attività psichica. Una condizione limitante che si manifesta spesso con un quadro sintomatologico aspecifico e confuso. Tale condizione, se protratta nel tempo, può portare l’organismo a sviluppare diverse malattie, tra le quali quelle neoplastiche.

Il ruolo della psiche nelle malattie neoplastiche

Il «carburante» che alimenta le cellule cancerose è rappresentato dall’adrenalina. Questo mediatore chimico (ormone e neurotrasmettitore), oltre ad agire sul sistema immunitario, esercita una potente azione diretta e indiretta sulle cellule cancerose.

L’azione diretta viene esplicata, grazie a specifici recettori per l’adrenalina, sulle cellule trasformate in senso neoplastico, spingendo la crescita a una velocità esagerata: vengono attivate vie trasduzionali che portano alla moltiplicazione cellulare e quindi alla crescita della massa neoplastica. Numerosi esperimenti hanno ampiamente documentato che le cellule cancerose si moltiplicano tre volte più in fretta in presenza di emozioni negative o durante stati di ansia e disperazione. Inoltre, stimola l’istinto di sopravvivenza cellulare fino a renderle «invincibili», «indistruttibili» e «immortali». L’azione indiretta, invece, viene esercitata attraverso la produzione di molecole infiammatore, che funzionano come dei catalizzatori del processo neoplastico: queste molecole agiscono come messaggeri che spingono le cellule a svilupparsi. Questo presupposto costituisce la ragione per la quale i processi infiammatori cronici possono spesso trasformarsi in cancro. L’adrenalina, inoltre, migliora l’ambiente delle cellule cancerose, attraverso l’aumento dell’irrorazione sanguigna (fornisce nutrimenti e ossigeno, elementi indispensabili per la crescita e lo sviluppo), e il potenziale di formazione delle metastasi (Boukaram, 2014).

Queste condizioni portano un vantaggio alla massa neoplastica a discapito dell’organismo. Il processo si conclude spesso con la morte dell’individuo. Oggi, tali acquisizioni rappresentano il presupposto indispensabile per mettere in atto ogni sforzo possibile, anche se difficile da perseguire, per ridurre gli stati d’ansia ed emozioni negative nei soggetti oncologici. In questo campo, la psiconcologia sta facendo sforzi enormi per creare l’ambiente migliore per affrontare la malattia e le conseguenze psicologiche che ne derivano (valori individuali e spirituali, rapporti interpersonali e sociali). Ciò è stato recepito e assunto come punto fondamentale nelle conclusioni del Consiglio dell’Unione Europea del 2008, che invita gli Stati membri dell’UE a rendere operative procedure per dare risposta ai bisogni psicosociali delle persone con cancro nell’assistenza clinica oncologica, nella riabilitazione e negli interventi di follow-up post-trattamento (Council of the European, 2008). Tutto questo è in linea con quanto la Società Italiana di Psico Oncologia (SIPO), porta avanti da anni nel nostro Paese, creando linee guida, secondo gli standard internazionali accreditati, per favorire la cultura psiconcologica.

Numerose ricerche hanno anche documentato che la psiche (emozioni negative: paura, rabbia, tristezza, ecc.) può agire in sinergia con gli agenti cancerogeni già identificati (idrocarburi policiclici aromatici, che troviamo per esempio in ambienti altamente inquinanti o nella parte bruciata di alcuni cibi; nitriti/nitrati, coloranti e additivi commestibili, che troviamo anche in alcuni alimenti; tabagismo; raggi UV; ecc.) e pregiudicare così la riparazione del DNA. Queste condizioni amplificano il potenziale cancerogeno delle infezioni croniche, spesso trascurate, creando il terreno fertile per il cancro.

Il campo della psiche è vasto, ma alcune nuove tecnologie permettono di evidenziare come influenzi in modo considerevole le componenti fisiche del corpo. Inoltre alcune ricerche effettuate su animali registrano un dato preoccupante: l’ansia acuta può provocare un aumento di 30 volte l’aggressività del cancro e favorire la comparsa di metastasi.

Altri dati sperimentali, invece, provano che la somministrazione di farmaci che bloccano l’adrenalina [farmaci β-bloccanti, ovvero farmaci che antagonizzano i recettori di tipo β per l’adrenalina e la noradrenalina. Sono indicati nel trattamento di malattie cardiovascolari, quali l’ipertensione e l’angina da sforzo; inoltre, alcuni tipi di z-bloccanti trovano impiego nel trattamento delle aritmie cardiache,dell’insufficienza cardiaca e nella prevenzione secondaria dell’infarto miocardico; mentre altri ancora sono impiegati nel trattamento del glaucoma, delle tireotossicosi (quadro clinico dovuto a una esposizione eccessiva di ormoni tiroidei), delle manifestazioni somatiche dell’ansia, del tremore essenziale e nel trattamento profilattico dell’emicrania] riducono questo processo e permettono di controllare lo sviluppo neoplastico. Studi clinici condotti su alcuni pazienti affetti anche da patologie cardiovascolari e trattati con farmaci β-bloccanti hanno messo in evidenza una riduzione del tasso di comparsa del cancro fino al 50%. Tuttavia, esistono metodi alternativi per controllare il tasso di adrenalina nel corpo (Boukaram, 2014).

 

Conclusioni

La revisione sistematica delle letteratura scientifica mette in evidenza il ruolo chiave dei fattori ambientali negativi (scorretto stile di vita, scorretta alimentazione, stress fisico e/o mentale, ecc.) nella genesi delle malattie cronico-degenerative, tra le quali il cancro. Eliminare o ridurre tali condizioni non sempre è raggiungibile nella società ipertecnologica e complessa in cui viviamo. Quindi, al di là di ogni tentativo di comprendere il fenomeno per cercare di contrastarlo, gli individui dovrebbero tornare a una dimensione più semplice, che tenga conto non solo delle esigenze materiali, ma anche di quelle psicologiche e sociali.

 


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Rivista del mese

Dott. Massimo Agnoletti
Psicologo, Dottore di ricerca,
Esperto di stress, Psicologia Positiva 
ed Epigenetica.
Formatore/Consulente aziendale, 
Presidente PLP-Psicologi Liberi 
Professionisti- Veneto.
Direttore del Centro Benessere Psicologico,
Favaro Veneto (VE).


Abstract

Il concetto classico di Stress prevede l’esistenza di uno Stress Positivo (Eustress) connotato da una dinamica temporale breve ma intensa detta “acuta” relativa l’attivazione neuro-endocrina  finalizzata a garantire la sopravvivenza dell’organismo ed uno Stress Negativo (Distress) caratterizzato da un’attivazione meno intensa ma prolungata nel tempo detta “Cronica” che comporta molteplici problematiche psicofisiche.
In questo contesto teorico focalizzato sulle priorità biologiche dell’organismo, il concetto di Stress non ammette l’esistenza di un Eustress che perdura nel tempo e che promuove la salute psicofisica delle persone: lo Stress Cronico Positivo o Eustress Cronico.
I recenti settori scientifici della Psicologia Positiva e della Longevità sottolineano l’esigenza di estendere il concetto di Stress anche ai contesti cronici positivi cioè dove lo Stress perdura nel tempo in senso vantaggioso per la salute ed il benessere psicofisico.


Il canonico concetto classico di Stress attualmente condiviso all’interno della comunità scientifica prevede che vi sia un’attivazione psico-neuro-endocrino-immunologica finalizzata a ripristinare un equilibrio preesistente nell’organismo.

Questo equilibrio omeostatico può essere perturbato da un cambiamento interno o esterno all’organismo (per esempio la temperatura) o da una minaccia per la sopravvivenza reale (per esempio la presenza di un predatore) o potenziale (per esempio lo spostamento di un ciuffo d’erba vicino al nostro piede mentre stiamo camminando in montagna che potrebbe indicare la presenza di una vipera).

La logica del meccanismo dello Stress è sempre quella di risolvere una situazione potenzialmente pericolosa per l’organismo.

Lo stesso padre del concetto di Stress Hans Selye (1976), ma anche molti autori come Lazarus&Folkman (1987), McEwen (2007), Sapolsky (2006) e Chrousos (2009) hanno nel tempo aggiunto dettagli alla stessa logica esplorando alcuni aspetti psicologici ma soprattutto dettagliandone la natura molecolare.

Chrousos e Agorastos (Agorastos&Chrousos, 2021) sintetizzano il concetto classico di Stress in modo paradigmatico affermando che: “Lo stress è definito da uno stato di minaccia all’equilibrio omeodinamico da un’ampia gamma di sfide o stimoli intrinseci o estrinseci, reali o percepiti, definiti come fattori di stress. Per preservare questo stato omeodinamico ottimale all’interno di un intervallo fisiologico, gli organismi hanno sviluppato un sistema altamente sofisticato, che serve all’autoregolazione e all’adattabilità dell’organismo mediante il re-indirizzamento dell’energia in base alle esigenze presenti.” (Tradotto dall’originale “Stress isdefinedas a state of threatenedhomeodynamic balance by a wide range of intrinsic or extrinsic, real or perceivedchallenges or stimuli, definedasstressors. To preservethisoptimalhomeodynamic state within a physiologicrange, organismshavedeveloped a highly sophisticated system, the stress system, whichserves self-regulation and adaptability of the organism by energyredirectionaccording to the currentneeds.”).

Nella visione tradizionale, il meccanismo adattativo che sottende la particolare attivazione psico-neuro-endocrina ha una finalità, una teleonomia, esclusivamente biologica e per questo motivo le definizioni di Eustress (Stress Positivo) e Distress (Stress Negativo) hanno significato unicamente in funzione del vantaggio in termini di sopravvivenza dell’organismo.

Se la sopravvivenza viene garantita ristabilendo l’equilibrio precedente l’esposizione alla minaccia (di natura batterica, virale o, ad esempio, da parte di un possibile predatore) si parlerà di Stress Positivo, se invece la reazione comporta una diminuzione della fitness biologica (la morte, nel caso estremo) si parlerà di Stress Negativo.

In questa visione esiste uno Stress “acuto”, caratterizzato da una intensa ma breve attivazione del sistema nervoso e del sistema endocrino, e uno “cronico”, se connotato da una attivazione psico-neuro-endocrino-immunologica quantitativamente di minore intensità ma prolungata nel tempo.

Nel primo caso si tratterà di Stress Positivo perché finalizzato ad evitare un pericolo imminente, nel secondo caso di uno Stress Negativo perché non è funzionale all’evitamento di un pericolo effettivo per la sopravvivenza.

Nel concetto tradizionale, o classico, del termine viene assunta implicitamente una visione puramente quantitativa del fenomeno nel senso che esso può essere positivo solo nel contesto “acuto” (attivazione neuroendocrina breve e intenza) e solo all’interno della finalità strettamente biologica legata alla sopravvivenza (Agnoletti, 2020).

In questo contesto teorico non vi è alcun riferimento significativo o funzionale agli altri livelli di complessità che caratterizzano gli aspetti psicologici e socioculturali umani e in questo senso c’è l’esigenza di colmare questa lacuna concettuale anche per le molteplici implicazioni pratiche nella promozione del benessere e la salute psicofisica umana (Agnoletti, 2021; Agnoletti, 2022).

La letteratura scientifica ha già ampiamente dimostrato quanto l’aspetto psicologico e sociale possa influenzare la longevità dell’organismo modificando l’epigenetica delle nostre cellule (Agnoletti& Formica, 2021, Epel et al., 2004, Kim et al., 2020), così come ha solidamente affermato la necessità di considerare la natura cognitiva relativa cosa pensiamo dello Stress per valutarne gli effetti psicofisici (Keller et al., 2012), quindi continuare a considerare esclusivamente il piano strettamente biologico è una visione pericolosamente miope e riduzionistica.

stressEscludendo nella concettualizzazione del termine gli aspetti psicologici e sociali non è possibile comprendere l’importanza fondamentale di determinare se lo Stress è Negativo o Positivo anche a livello psicologico e questo impedisce di distinguere lo Stress psicologico che promuove la nostra salute ed il nostro benessere da quello che invece li ostacola.

A livello esperienziale psicologico possiamo facilmente identificare uno Stress Positivo quando viviamo esperienze sfidanti ma gratificanti connotate da motivazione intrinseca come le esperienze chiamate eudaimoniche (Ryan e Deci, 2001; Delle Fave, Massimini e Bassi, 2011).

Queste esperienze sono connotate da un aspetto psicologico positivo e gratificante associato anche a cambiamenti epigenetici che promuovono la salute fisiologica-cellulare (Fredrickson et al., 2013; Lewis et al., 2014) ma non possono essere considerate all’interno del paradigma classico dello Stress dove lo Stress è considerato unicamente positivo perché garantisce la sopravvivenza.

Tutte le esperienze eudaimoniche non sono un meccanismo difensivo funzionale a garantire la sopravvivenza dell’organismo ma rappresentano ugualmente uno Stress Positivo che è molto facilmente intuibile dal punto di vista esperienziale.

Si tratta delle esperienze che ci rendono felici e soddisfatti delle nostre vite. Nonostante queste evidenze, lo Stress Positivo fa fatica ad essere compreso all’interno del paradigma classico se non limitato al contesto strettamente biologico in cui vi è un pericolo reale o potenziale per la sopravvivenza. Anche l’importante sforzo concettuale da parte di Lazarus e Folkman (Lazarus&Folkman, 1984) nel cercare di attribuire una valenza anche positiva agli eventi stressanti negativi (concetto di coping) è comunque sempre basato su di un paradigma che prevede lo Stress come un meccanismo con una finalità esclusivamente biologico-difensiva ed in questo senso è più il tentativo di diminuire la dannosità degli eventi stressanti negativi che di una vera e propria definizione relativa lo Stress Positivo.

Solo all’inizio di questo secolo, con la formalizzazione della Psicologia Positiva (Seligman&Csikszentmihalyi, 2000), si è dato avvio ad un paradigma dove la definizione di Stress Positivo può trovare la sua giusta collocazione concettuale ed il suo spazio logico anche al di fuori della sua utilità strettamente biologica. Essendo questo filone della psicologia scientifica interessato agli aspetti che promuovono attivamente la salute e la qualità di vita (l’Ottimismo, il Flow, la Resilienza, etc.) lo Stress non è più unicamente polarizzato concettualmente ai suoi aspetti patologici e di disregolazione psicofisica.

Anche le scienze biomediche della longevità, in particolare la scienza dei telomeri, quella della nutrogenomica e del microbiota, hanno già da alcuni anni sottolineato l’importanza di fattori che contribuiscono ad allungare e migliorare le aspettative di vita rappresentando di fatto la concretizzazione del concetto di Stress Positivo distante dalla visione come meccanismo solo difensivo finalizzato a neutralizzare una minaccia interna o esterna all’organismo.

Quando pensiamo, ad esempio, all’incremento di longevità prodotto da una dieta che segue una specifica restrizione calorica (Fontana, Partridge& Longo, 2010) dobbiamo pensare ad uno stimolo stressante positivo per l’organismo non un intervento che si limita a ridurre lo Stress Negativo.

Similmente, lo studio dei centenari, caratterizzati da una straordinaria autonomia, salute e benessere psicofisico, deve essere considerato un esempio di fattori di Eustress (Stress Positivo) Cronico e non solo come esempio in cui lo Stress Negativo Cronico è presente in misura limitata.

stressIn sintesi vi è l’esigenza di concettualizzare correttamente anche lo Stress Positivo nella sua dimensione temporale cronica (quindi parlare di Stress Cronico Positivo o Eustress Positivo) perché solo in questo modo avremo la possibilità di comprendere l’enorme eterogeneità dei fenomeni che includono, ad esempio, le morti premature (non imputabili a problematiche genetiche) di atleti che si alimentano correttamente così come l’estrema longevità di persone che, pur non essendo perfette dal punto di vista nutrizionale e/o motorio, riescono a mantenere un benessere psicofisico ed un autonomia invidiabile.

Comprendere la necessità di formalizzare, anche dal punto di vista teorico, il giusto ruolo allo Stress Positivo sia nel contesto temporale “acuto” che “cronico”, comporta molteplici conseguenze positive che includono anche una maggiore chiarezza comunicativa (si pensi all’effetto confusivo dei tanti corsi attuali che promettono di “ridurre”, “combattere”, “annullare” lo Stress… quello Negativo, Positivo, entrambi?) anche a livello accademico.

Attualmente è molto diffusa una sorta di bias percettivo (presente anche a livello accademico) a scapito della concettualizzazione dello Stress Positivo per cui parlare di Stress Cronico Positivo appare un ossimoro.

Il famoso psicologo sociale Kurt Lewin scrisse (Lewin 1951, p. 169) che “Non c’è nulla di più pratico che una buona teoria” (tradotto dall’originale “ThereisNothing More PracticalThan A GoodTheory”), in questo senso, riuscire a collocare correttamente il concetto positivo anche nella sua valenza cronica, che perdura cioè nel tempo, permetterà di ottenere una nuova prospettiva anche relativa gli interventi concreti per promuovere la salute ed il benessere umano.


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Rivista del mese

 

Dott. Maurilio Bruno
Ortopedico, Gruppo Policlinico di Monza,
Clinica San Gaudenzio, Novara

 

 


L’ortopedia, intesa specialmente come cura delle deformità traumatiche, ha origini antichissime: Ippocrate si occupa delle fratture e delle deformità e di argomenti analoghi trattano anche Celso e Galeno; quest’ultimo introduce i termini di scoliosi, cifosi, lordosi e pseudoartrosi. Le origini della ortopedia moderna possono essere fatte risalire al Rinascimento, insieme a quelle della chirurgia, della quale l’ortopedia rappresentava una branca: tra i primi esponenti vanno perciò ricordati i maggiori chirurghi del Rinascimento, come A. Parè, e tra gli italiani G. Guidi, G. Andrea della Croce, Girolamo Fabrici d’Acquapendente e in seguito A. Scarpa e D. Cotugno. Come la chirurgia, così anche l’ortopedia ha realizzato enormi progressi dopo la seconda metà dell’ottocento con l’introduzione della disinfezione, dell’anestesia e degli antibiotici. Parallelamente il continuo progredire delle discipline mediche permetteva di chiarire l’origine di molte malattie congenite e acquisite a carico dell’apparato locomotore, occupandosi della prevenzione delle deformità oltre che delle cure. Nasceranno varie Scuole di Ortopedia e si distinsero in particolare la scuola Bolognese e quella Milanese, percorrendo una strada comune secondo un asse che vide intrecciarsi i destini di pochi eletti destinati ad entrare nell’olimpo di questa straordinaria specialità medica.

 

Francesco Rizzoli

(Milano1809 – Bologna 1880); professore di clinica chirurgica all’Università di Bologna (1855) e fino al 1877 primario dell’Ospedale Maggiore in quella città. Patriota, fu deputato all’Assemblea delle Romagne (1859). Nel 1879 fu nominato senatore. Lasciò quanto possedeva per la fondazione dell’istituto ortopedico che porta il suo nome. I metodi da lui introdotti nella cura chirurgica di varie malattie hanno avuto grande importanza per l’ulteriore sviluppo della chirurgia pratica. Le sue opere sono raccolte nella Collezione delle memorie chirurgiche ed ostetriche (1869).

 

Alessandro Codivilla

Nacque a Bologna il 21 marzo del 1861 da modesta famiglia. Si laureò in Medicina e Chirurgia nel 1886 sotto la guida del Prof. Pietro Loreta, eminente chirurgo generale. La sua carriera come chirurgo generale lo vide prima a Castel Fiorentino poi ad Imola. Nel 1899 fu invitato dall’avvocato Giuseppe Bacchelli all’epoca presidente dell’amministrazione provinciale di Bologna ad abbandonare la chirurgia generale per dedicarsi all’Ortopedia e diventare direttore dell’Istituto ortopedico Rizzoli. Così intraprese diversi viaggi all’estero per aggiungere al suo bagaglio scientifico e culturale le mancanti nozioni di ortopedia. Si recò in Germania e Francia dove erano stati compiuti numerosi passi in avanti nel campo ortopedico. Strinse amicizia con esperti ortopedici come Volkmann, Koenig, Bardenheuer, Albert, MiKulitz, Nicoladoni e Wolff. Si interessò in particolare alle paralisi provocate dalla poliomielite perfezionando la tecnica del trapianto tendineo, perfezionò la tecnica di Foerster per la paralisi spastica. Si dedicò con passione al trattamento della lussazione congenita dell’anca, del piede torto congenito (ancora oggi si opera secondo la tecnica di Codivilla), del torcicollo congenito, della scoliosi, della tubercolosi osteoarticolare, della pseudoartrosi congenita. Rivoluzionò il trattamento delle fratture ideando la trazione trans scheletrica mediante il “chiodo di Codivilla”. Questa metodica ancora oggi rappresenta il cardine dell’allineamento dei monconi ossei nelle fratture delle ossa lunghe. Morì, purtroppo prematuramente, all’età di 51 anni nella sua Bologna nel 1912. Alessandro Codivilla è considerato il padre della moderna Ortopedia Italiana e non solo.

ortopedia

 

Gaetano Pini e Pietro Panzeri

ortopediaLa scuola ortopedica milanese nasce nel 1874, quando Gaetano Pini fonda l’Associazione per la Scuola dei Rachitici, per la cura dei tanti bambini affetti in quell’epoca da rachitismo. Ben presto si affiancano alla scuola un ambulatorio diretto da Pietro Panzeri e un’officina ortopedica che studia e costruisce apparecchi per permettere ai bambini di muoversi e camminare. Nel 1884 viene costruito un nuovo edificio.

Dopo la morte di Pini (1887), Pietro Panzeri divenne direttore dell’Istituto dei Rachitici, e fu qui che si distinse maggiormente per le sue qualità umane e professionali: si occupava della terapia del rachitismo, della scoliosi, del piede torto, della tubercolosi osteo-articolare, della paralisi infantile, avvalendosi sia delle metodiche chirurgiche (tenotomie, osteotomie, osteoclasie), che di quelle incruente (correzioni manuali, ginnastica, ortesi). Per la fama raggiunta, fu chiamato a dirigere il neonato Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, fondato nel 1896, compito che assolse per circa due anni, mantenendo contemporaneamente la guida dei Rachitici di Milano. Lui stesso volle affidare poi ad Alessandro Codivilla la sua successione al Rizzoli, istituto anch’esso destinato a una grande affermazione.

L’opera, comunque, più meritoria di Panzeri è stata quella di farsi promotore, nel 1891, della Società OrtopedicaItaliana, dando così la prima svolta all’autonomia scientifica dell’ortopedia. La Società fu fondata a Milano, proprio all’Istituto dei Rachitici, e a Milano si tenne il primo congresso nazionale, sotto la sua presidenza. Morì nel 1901.

Riccardo Galeazzi (1866-1952)

ortopediaNel 1903 assunse la direzione del Pio Istituto dei rachitici di Milano. In questa sede venne quindi incaricato dell’insegnamento della clinica ortopedica presso gli Istituti clinici di perfezionamento.

Allo scoppio del primo conflitto mondiale il Galeazzi si arruolò volontario e, col grado di tenente colonnello, prestò la sua opera negli speciali reparti ospedalieri.

Prodigandosi incessantemente per ottenere il recupero alla collettività e al mondo del lavoro del gran numero di combattenti invalidi, mutilati e ciechi, ottenne che l’Istituto dei rachitici di Milano concedesse all’autorità militare la facoltà di utilizzare il Rifugio Fanny FinziOttolenghi come scuola di rieducazione dei mutilati di guerra.

Al termine del conflitto organizzò e presiedette il primo congresso nazionale per l’assistenza agli invalidi di guerra tenutosi a Milano nel dicembre 1918, fu fondatore e membro del Comitato per l’assistenza ai mutilati di guerra e consigliere dell’Opera nazionale per l’assistenza agli invalidi di guerra; chiamato dal ministero della Guerra a far parte della Commissione centrale delle protesi, fu anche membro e presidente del Comitato interalleato per l’assistenza agli invalidi di guerra.

Fu il primo professore ordinario di Ortopedia della neonata Università degli studi di Milano (1923).

Le patologie che misero a dura prova lo sforzo e l’ingegno di questi pionieri rappresentano un bagaglio culturale storico che deve assolutamente far parte della formazione delle moderne generazioni di ortopedici.

La poliomielite acuta anteriore è stata riconosciuta come malattia da Jakob Heine nel 1840, mentre il suo agente eziologico, il poliovirus, è stato identificato nel 1908 da Karl Landsteiner. Si trasmette per via oro-fecale. Fu debellata definitivamente dal vaccino messo a punto da Albert Sabin nel 1955, che tuttavia giunse in Italia solo nel 1963.

Il rachitismo causato dallo scarso apporto di vitamina D, causa la malnutrizione.

La Tubercolosi ossea, complicanza della TBC polmonare che provocava drammatici crolli vertebrali ossifluenti, deformità ossee e paralisi midollari.

La scoliosi, deformità infantile della colonna che richiedeva cure lunghe e continue ed ingegno nella costruzione di apparecchi gessati ed ortesi “artigianali”

La lussazione congenita dell’anca per incompleta formazione di parte dell’articolazione coxo-femorale che creava severe alterazione della deambulazione ed artrosi precoce. Trattata inizialmente con correttori gessati e ortesi e solo successivamente con interventi chirurgici tuttavia difficoltosi e dagli incerti risultati.

Il piede torto congenito, grave deformità del piede incompatibile con una deambulazione funzionale. Fu Codivilla a dettare i principi della correzione chirurgica che ancora oggi conservano validità scientifica.

 

 

 

 

 

Vittorio Putti (1880-1940)

Professore di clinica ortopedica nell’università di Bologna dal 1912, fu dal 1914 direttore dell’Istituto Rizzoli, del quale fondò a Cortina d’Ampezzo una succursale per l’elioterapia della tubercolosi osteoarticolare (Istituto Codivilla-Putti).

Ha legato il suo nome a numerose tecniche originali di chirurgia ortopedica e al perfezionamento di tecniche operatorie già precedentemente proposte. Raccolse una biblioteca specializzata per la storia della medicina, che è entrata a far parte, per donazione, delle raccolte dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna.

Durante tutta la guerra l’Istituto Ortopedico Rizzoli compie ogni sforzo per poter ospitare i feriti e i mutilati che giungono numerosi dal fronte. Tutti gli spazi disponibili, compresi la biblioteca e l’ex refettorio dei monaci, sono trasformati in sale di degenza. Viene anche costruito un nuovo padiglione nello spazio antistante l’ingresso principale, che porta la capienza complessiva dell’ospedale a 500 posti letto. Il professor Vittorio Putti, direttore dell’Istituto, affida al dott. Francesco Delitala l’organizzazione e la conduzione delle Officine Ortopediche, che occupano alcuni locali del sotterraneo e del piano terra. Qui vengono costruiti gli arti artificiali di migliaia di mutilati. Si tratta di manufatti razionali e funzionali, ma anche validi esteticamente, grazie all’opera di Augusto Fusaroli, valente artigiano. Durante il conflitto l’Officina Nazionale di Protesiè il maggior centro di produzione italiano di apparecchi per mutilati e strumenti chirurgici creati in collaborazione con la Scuola di Applicazione per gli Ingegneri. Tra il 1915 e il 1920 produrrà oltre 8500 protesi, 6000 scarpe speciali, 2200 apparecchi ortopedici. Nel 1919 il Rizzoli otterrà dalla Direzione militare di Artiglieria tre capannoni tra la via San Mamolo e la via Panoramica, che permetteranno lo sviluppo delle Officine Ortopediche Rizzoli.

 

Oscar Scaglietti (1906-1993)

ortopediaNato in Costa Rica, iniziò la carriera professionale presso il Rizzoli, dove nel 1936 conseguì la libera docenza in clinica ortopedica dopo essere stato allievo, assistente e poi aiuto di un maestro illustre come Vittorio Putti.

Il coinvolgimento dell’Italia nella seconda guerra mondiale, vide Scaglietti nominato ufficiale responsabile del Centro ortopedico e mutilati per fronteggiare quella che si stava ormai rivelando come una grave emergenza bellica. Il Centro trovò collocazione sulla collina di San Michele in Bosco, a pochi passi dall’Istituto Rizzoli con lo scopo di curare i militari feriti e di fornire assistenza e trattamento fisioterapico e protesico ai reduci dal fronte che avevano subito l’amputazione degli arti per congelamento durante le campagne in Albania e Grecia.

L’8 settembre provocò la fuga di quasi tutto il personale di servizio, che però Scaglietti sostituì rapidamente accogliendo nell’istituto tutti gli sbandati che vi cercavano rifugio e assumendone una parte. Dovette anche trasformarsi in abile negoziatore trattando con i tedeschi per evitare che l’ospedale bolognese passasse sotto il controllo sanitario germanico. Oltre agli sbandati, cercò di aiutare alcuni militari alleati feriti ad evitare la cattura e molti ebrei a sfuggire alle retate. Fiancheggiò la resistenza, permettendo ad esempio ai partigiani di recuperare le armi depositate dai militari ricoverati e fornendo loro viveri e medicamenti. Con l’avanzare delle truppe alleate e i bombardamenti, crebbe il numero di feriti e anche la cappella fu trasformata in una camerata d’ospedale portando il numero totale dei ricoverati a 700. Scaglietti compiva fino a tre turni operatori di seguito, alternando ogni 8 ore il personale di sala, che spesso sveniva per la fatica: la mano chirurgica inimitabile di Scaglietti, soprannominato in seguito dai colleghi statunitensi il Michelangelo dell’ortopedia (compiva in venti minuti alcune operazioni che richiedevano normalmente tre ore), si formò allora. Si dice che abbia compiuto quasi diecimila interventi nel corso della guerra!

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Il 20 novembre 1944 il maresciallo Graziani ordinò il trasferimento dell’ospedale al nord, oltre il Po; Scaglietti vi si oppose andando di sua iniziativa ad incontrare Mussolini che decise di revocare l’ordine. Il Centro ortopedico bolognese, però, ormai non era più un semplice ospedale; in quegli anni di guerra era diventato una sorta di roccaforte indipendente dal punto di vista scientifico e assistenziale, per non dire politico: vi furono accolti, senza alcuna distinzione, militari di ogni nazionalità. Ci fu spazio per fascisti, partigiani e civili comuni.

Così, all’alba del 29 novembre, le brigate nere e le SS tedesche accerchiarono l’ospedale e lo perquisirono da cima a fondo senza trovare nulla: Scaglietti fu arrestato con altri quattro sospetti e trascinato per un lungo interrogatorio al comando delle SS che l’indomani dovettero rilasciarlo. Il nome di Scaglietti venne anche trovato nella lista Jacchia, ma anche in quel caso la sua abilità come chirurgo prevalse su considerazioni di ordine politico.

Il 31 agosto 1947 Scaglietti assunse la direzione dell’Istituto Ortopedico Toscano di Firenze fondando una scuola di ortopedia che raggiunse fama internazionale.

Considerato un luminare e uno dei padri dell’ortopedia italiana, ottenne vasta notorietà negli anni cinquanta e sessanta anche per aver curato diversi calciatori, tra cui Boniperti, Hamrin,  Albertosi, Bertini e Garrincha. La popolarità acquisita fece sì che, fra le altre, si rivolgessero a lui importanti personalità come Pietro Nenni, l’ultimo re dell’Afghanistan Mohammed ZahirShah e Gianni Agnelli, nonché celebri attrici come Monica Vitti, Isabella Rossellini ed Elizabeth Taylor.

 

Mario Campanacci (1932-1999)

ortopediaHa iniziato la sua carriera di ortopedico presso l’Istituto Ortopedico Rizzoli, specializzandosi in Ortopedia e Traumatologia nel 1960. La prima fase della sua carriera è stata prevalentemente dedicata all’Anatomia Patologica e alla Patologia dell’Apparato Muscolo-Scheletrico, portandolo a studiare e trattare i tumori delle ossa e delle parti molli. Fin dai primi anni si appassiona di patologia dell’apparato muscolo-scheletrico, potendo in tal modo mettere a frutto le sue conoscenze in anatomia patologica, applicandole all’ortopedia.

Per perfezionare la sua formazione in questa patologia rara e ancora poco conosciuta, ha frequentato il Veteran Administration Hospital di San Francisco presso il dr. Lichtenstein, l’Hospital for Joint Disease di New York presso il Dr. Milgram. Nel 1963 ha assunto la responsabilità e la direzione dell’Unità di Oncologia Muscoloscheletrica del Rizzoli. Ha subito capito quanto fosse importante per la diagnosi delle lesioni muscoloscheletriche la revisione della documentazione radiografica assieme ai preparati istologici, ed ha sottolineato l’importanza di un’archiviazione scrupolosa della documentazione clinica e radiografica dei pazienti. Ha quindi eseguito la revisione di migliaia di casi di tumori muscoloscheletrici trattati fin dai primi anni del 1900 presso l’Istituto Ortopedico Rizzoli, maturando una profonda conoscenza ed una particolare esperienza diagnostica e clinica. Negli anni successivi ha intuito l’importanza di un approccio multidisciplinare ai sarcomi, divenendo il pioniere del trattamento combinato e della chirurgia conservativa dei sarcomi primitivi dell’osso. Ha fortemente voluto la fondazione dell’EuropeanMusculo-SkeletalOncology Society (EMSOS), nata nel 1987 e della quale fu il primo Presidente (1987-1990). L’amicizia con Bill Enneking gli è stata particolarmente cara, portando alla creazione del Course on Muscolo-SkeletalPathology, tenuto da entrambi ogni anno presso il Rizzoli di Bologna dal 1989. Non vi è testo di Anatomia Patologica dei tumori dell’apparato muscolo scheletrico ove il suo nome non sia citato. È considerato uno dei padri della “Oncologia Ortopedica” mondiale.

 

Ezio Morelli (1923-2009)

Fonda negli anni ‘60 il primo reparto di Chirurgia Plastica e della Mano nell’ospedale di Legnano che diventa la più importante Scuola di Microchirurgia ricostruttiva italiana, famosa in tutto il mondo, tanto da attrarre schiere di giovani chirurghi dal Sudamerica e dal resto dell’Europa.

Nel 1961 effettua il primo trapianto di nervo periferico in Italia dopo Hanno Millesi a Vienna, introducendo così del microscopio operatore ovvero delle tecniche di Microchirurgia ricostruttiva. Ciò consentirà di poter effettuare i reimpianti di arti amputati e la chirurgia ricostruttiva dei nervi periferici e del plesso brachiale. È stato il padre della chirurgia delle malformazioni congenite degli arti. La sua classificazione delle malformazioni congenite pubblicata nel 1962 è ancora oggi accettata a livello mondiale. Si conta che abbia eseguito oltre cinquantamila interventi chirurgici di questa disciplina.

Musicista e grande appassionato di musica e di Letteratura antica trovò il tempo di essere lettore di Letteratura latina all’università di Salamanca e di interessarsi attivamente di storia della Medicina greca e latina. È considerato il pioniere della chirurgia ricostruttiva italiana, anello di congiunzione tra chirurgia ortopedica e chirurgia plastica, Maestro amatissimo dai suoi numerosissimi Allievi in tutto il mondo.

 

Domenico Galluccio (1917-2010)

ortopediaLaureato e specializzato in Ortopedia al Rizzoli rientra in Puglia alla fine degli anni ‘40 divenendo il primo specialista del Salento. Crea i primi reparti di Ortopedia prima a Galatina, poi a Scorrano e la storica clinica Villa Bianca a Lecce.

In un epoca in cui il trattamento delle fratture è legata al concetto della osteosintesi rigida con placche e viti, propone il concetto della «osteosintesi elastica» mediante l’uso di chiodi flessibili noti poi come «chiodi di Galluccio», che prenderanno piede anche al di fuori dei confini nazionali. Schivo di carattere ma brillante e «curioso», sarà in attività fino ad oltre 90 anni definendosi sempre un “ortopedico di campagna”.

 

BIBLIOGRAFIA

Ezio Morelli, Omero medico?,Riv. Chir. Mano – Vol. 42 (3) 2005

Nunzio Spina Alessandro Codivilla, Negli aperti cieli dell’Ortopedia,
Editore Quasar S.p.A

Enciclopedia Treccani, Ortopedia

Giorgio Cosmacini, Storia della Medicina e della Sanità in Italia,
2016 Biblioteca Storica Laterza, Edizioni Laterza